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PILLOLE
Bucci subisce o condivide la toponomastica fascista?
Il povero Bucci prova ancora imbarazzo per certe scelte o è soltanto il tappetino dei nipotini neri?
Lo hanno spinto a intitolare la darsena di Nervi a Luigi Ferraro, ufficiale della criminale X Mas che “operò” agli ordini dei nazisti al tempo della Repubblica di Salò. Ercolino sempre in piedi, poi fonda la Technisub: la scusa per celebrarlo (coraggio fascisti genovesi, perché non cambiare via Garibaldi in Via Costanzo Ciano?). Pure l’esponente di maggioranza di Genova vince ha votato contro. Ma a parità il voto dell’assessore Alessandra Brusoni dagli occhiali rossi (chissà, rivendicare questo rosso un giorno potrebbe venirle bene) ha fatto la differenza. Settemila firme contrarie di cittadini non sono bastate. Genova alzi la testa, e torni a lottare contro questo schifo. |
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Una piccola storia di oltraggi, anche verso la lingua italiana
Nuova goodnews: una giovane donna di 28 anni, residente a Genova, laureata in ingegneria, si è sfogata su Tik Tok. Dopo un complimentato tirocinio presso uno studio si è vista offrire alla fine una collaborazione a partita IVA a 750 euro netti. Ha rifiutato sdegnata, dopo tutto il lavoro, le premesse e le promesse. “Sono ingegnere edile”, dichiara con giusto orgoglio, e oggi, superata la delusione fa la libera professionista. Dice anche di essere stata fortunata perché almeno oggi è pagata il giusto, mentre le aziende offrono stipendi inadeguati al ruolo come se ti facessero un regalo. Ma mentre lei si dichiara “ingegnere”, il Secolo XIX titola “ingegnera”. La neo-lingua: ingegneri e ingegnere plurali maschile e femminile. E al singolare ingegnero e ingegnera.
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Che ne sarà dei muscolai spezzini?
I muscoli (per cortesia non chiamateli “cozze”, espressione dialettale romanesca e meridionale. Dialetto per dialetto, tanto vale usare il nostro. L’italiano sarebbe mitili, ma nessuno lo usa), stanno scomparendo dal Golfo della Spezia. Le attività dei muscolai, figura ibrida a metà tra pescatore e allevatore, sono in difficoltà. Prima i dragaggi del porto, poi le invasioni delle orate, che proliferano perché fuggono dai vivai di allevamento, e ora il riscaldamento delle acque. Da tempo i poveri muscolai devono operare in aree sempre più anguste, a terra come in mare, fagocitati dall’implacabile dilatarsi delle attività portuali. Bisogna intervenire. Si ipotizza un trasferimento fuori diga, anche davanti alla foce del Magra, dove le acque sono più fresche, pulite e nutrienti.
EDITORIALI
Come a Taranto i lavoratori dell’Ilva avvelenatrice dell’ambiente sono forzati a scegliere tra salute e lavoro, qualcosa di analogo viene imposto anche alla Spezia delle armi, dove si costringono i dipendenti (e la cittadinanza) alla scelta lacerante tra occupazione e principi di civiltà.
Contro l’alternativa ricattatoria armi o valori umani
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, istituto indipendente dedicato alla ricerca su conflitti, armamenti e disarmo, l’Italia è al quarto posto nel mondo come produttore di armi, tramite soprattutto Leonardo e Finmeccanica. Il primo acquirente è l’Egitto (capito perché la storia di Patrick Zaki viene seguita con le pinze?), ma stanno aumentando le vendite anche in Qatar (capite perché non c’è stata alcuna protesta dall’Italia per i 6.500 lavoratori morti per fare gli stadi per il mondiale di calcio?). L’Oto Melara (per chi non lo sapesse è Leonardo), occupa per lo spezzino un ruolo fondamentale per l’occupazione, sia diretta che per l’indotto. É nell’occhio del ciclone, perché da un anno è in vendita, senza girare intorno alle parole, forse alla tedesco/francese KNDS che farebbe delle aziende del gruppo il solito spezzatino di aziende e persone. Oppure alla Fincantieri, ovvero se non è zuppa è pan bagnato. E tra Leonardo e Fincantieri l’Italia esporta armi da guerra per 13,8 miliardi, e ne spende (dati 2022 in aumento di altri 800 ml nel 2023) 25,7. Al di là del passivo tra fatturato (che non è l’utile) e spesa, qui sorge un fondamentale dilemma etico, ovvero quando due opzioni entrambe valide cozzano tra loro. Da una parte l’occupazione, il lavoro, la dignità che ne consegue, il tutto sancito dagli articoli 1 e 4 della Costituzione. Dall’altro non solo l’art 11 della stessa (ripudio della guerra), ma anche i principi fondamentali dell’Uomo, etici, sociali e religiosi (di qualunque fede), perché ogni arma da guerra prodotta significa la morte di esseri umani, quello è il suo scopo finale. Da dilemma etico si passa quindi anche a quello morale, personale. Ciò che per ciascuna persona è giusto o sbagliato. Prima di dare le dimissioni in tronco dalla finanza, agli inizi della carriera avevo proprio tra i miei clienti l’Oto Melara. E quando telefonavo al direttore finanziario per offrirgli dieci o venti miliardi (di lire) come denaro caldo (operazione che si chiude in 24/48 ore) sapevo che con quella telefonata aiutavo l’azienda a costruire un carro armato. Avevo il dovere etico di farla, perché la banca mi dava lavoro e quello altrettanto importante di interrogarmi sulla mia complicità di morte di esseri umani. C’è soluzione? No. Quanto meno non nell’immediato. Però immagino per i miei figli un paese in cui attraverso un lento processo di riconversione mentale ed etico ancora prima che industriale (la prima condizione è necessaria per arrivare alla seconda) l’Oto Melara (sineddoche per un discorso più vasto) produca apparecchiature sanitarie, diventi un polo tecnologico, il più importante osservatorio al mondo di armamenti da osservare e evitare, come uno della Shoa. Un sogno utopico e distopico, ma un argomento su cui si deve riflettere, senza mettere la testa sotto la sabbia, perché credo fermamente che lo scopo della vita non sia il PIL quanto – piuttosto- il benessere e la serenità propria e del prossimo. Tanto è tutta una questione economica, le guerre si fanno per questo, da sempre, anche le Crociate: l’industria delle armi, prima al mondo, supera anche quella farmacologia con 1,8 trilioni contro l’1,5. Magari prendiamoci a pugni, ma senza spararci, e poi a farci una pizza insieme.
CAM
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Liguria, le due vie dello sviluppo
Nell’editoriale del professor Sylos Labini, apparso sullo scorso numero della nostra news, venivano fatte affermazioni molto franche e altrettanto dure sui compiti non ottemperati da una realtà come l’Istituto Italiano di tecnologia, lautamente finanziata dallo Stato; che potrebbero essere sintetizzate nel che fare ad oggi negletto di “favorire lo sviluppo del sistema economico”. E non dimentichiamo l’altra critica molto condivisibile di Sylos all’Istituto: il sistematico ricorso alla precarizzazione dei ricercatori, che sta producendo forti tensioni sindacali nella sede di Morego: stando al comunicato FLC CGIL – USP, oggi, “martedì 28 febbraio dalle ore 9.30 in Largo Pertini a Genova si terrà lo sciopero di 8 ore del personale tecnico e amministrativo della Fondazione IIT (Istituto Italiano di Tecnologia)”.
Rispetto a tali addebiti abbiamo chiesto ad Alberto Diaspro, direttore di ricerca dell’Istituto, se volesse intervenire ancora una volta al riguardo, ma la risposta è stata cortesemente diplomatica: «credo che la domanda di Sylos Labini, di cui so poco a parte credo la parentela illustre e perché non del mio campo direi, vada posta al direttore scientifico di IIT. Non per sottrarmi ma perché io potrei avere una visione parziale, già espressa, sul tema. Al di là di ogni possibile polemica o strumentalizzazione potrebbe essere un tema interessante per un confronto tra i diversi attori sul territorio. Mi interessa ascoltarlo ma non parteciparvi perché serve preparazione e studio che dedico alle problematiche scientifiche verso le quali ho dedicato buona parte della mia vita. Ringrazio per avermelo segnalato. Un caro saluto».
Sicché restiamo in attesa dell’appuntamento pubblico, auspicato dal professor Diaspro, per approfondire la questione del rapporto tra ricerca e riqualificazione territoriale, a cui la Voce del Circolo Pertini sarà ben lieta di collaborare.
Intanto riprendiamo l’altra tematica delle strategie per lo sviluppo, a cui ci richiamava Sylos Labini. E così facendo rinverdiamo una delle questioni che la nostra news incominciò a proporre nei suoi primi numeri, sintetizzata nella domanda: “esiste una politica (post-)industriale di Regione Liguria?”.
Strategie che possono essere di due tipi: mercificazione o specializzazione.
La prima è la strada battuta dalla Presidenza regionale di Giovanni Toti, della vendita all’incanto di pezzi di territorio e di asset relativi. Come ad esempio l’ospedale di Bordighera. Un via che porta alla cessione di beni pubblici. Che fa finanza (poi si vedrà a vantaggio di chi) ma non crea volani che riproducano capitale sociale. Dunque, si traduce in un sostanziale impoverimento dell’area.
L’altra è la via che caratterizza la nostra storia patria dagli albori e si interrompe all’ultimo quarto del Novecento; e cioè fare cose che altri non sanno fare come scelta collettiva della comunità cittadina: dal commercio di lunga distanza nell’epopea dei fondaci dell’Età di mezzo all’essere centro del sistema-Mondo finanziario come banchieri dell’impero spagnolo, alla prima industrializzazione meccanica ed elettromeccanica di fine Ottocento, poi alla grande siderurgia del Piano Sinigaglia sotto l’egida delle Partecipazioni Statali. Soluzioni competitive molto diverse, ma sempre connotate da un tasso altissimo di innovazione d’impresa. La via smarrita nell’ultimo mezzo secolo, ma che è certamente la più in linea con il nostro genius loci. E riprenderne consapevolezza, trasformata in mobilitazione civica orientata al futuro, potrebbe essere il salto di qualità che rivitalizza la titubante opposizione all’attuale governo regionale, incapace di promuovere sviluppo in quanto prigioniero delle sue logiche meramente affaristiche.
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Mauro Giampaoli, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Pierfranco Pellizzetti, Getto Viarengo.
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Hanno scritto per noi (tra gli altri):
Andrea Agostini, Marco Aime, Franco Astengo, Arnaldo Bagnasco, Susie Bandelli. Enzo Barnabà, Marco Bersani, Marco Baruzzo, Pieraldo Canessa, Nuccia Canevarollo, Alessandro Cavalli, Roberto Centi, Riccardo Degl’Innocenti, Alberto Diaspro, Marco Fabbri, Erminia Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Antonio Gozzi, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Maddalena Leali, Giuseppe Pippo Marcenaro, Antonella Marras, Andrea Moizo, Paola Panzera, Enrico Pignone, Bernardo Ratti, Adrano Sansa, Ferruccio Sansa, Sandro Sanvenero, Carla Scarsi, Sergio Schintu, Mauro Solari, Orietta Sammarruco, Piera Sommovigo, Giovanni Spalla, Angelo Spanò, Francesco Sylos Labini, Rino Tortorelli, Giulio A. Tozzi, Gianmarco Veruggio
POSTA
L’amica Carla Scarsi ci segnala
L’ECO DELLA STAMPA
Da GenovaQuotidiana del 20 febbraio
Nidi e scuole d’infanzia: da mercoledì 50 docenti a casa
Carenza di organico cronica e sostituzione del personale insufficiente: serve dignità per le lavoratrici e i lavoratori del servizio scolastico comunale 0/6, per i nidi e le scuole dell’infanzia di Genova. Una situazione che ha portato al collasso i servizi educativi 0/6 del Comune di Genova. La denuncia arriva dalla segretaria regionale della CISL Funzione Pubblica Liguria che aggiunge: “Da mercoledì 22 febbraio 2023, il carico di lavoro del personale educativo/scolastico sarà insostenibile, non sarà quindi possibile garantire l’apertura dei nidi e delle scuole dell’infanzia, impedendo alla cittadinanza di usufruire di uno dei servizi più importanti di Genova. Una situazione che la CislFP Liguria aveva previsto, per la quale aveva già lanciato l’allarme mesi addietro all’interno dei tavoli sindacali, visti i piani assunzionali che prevedevano uno scarso investimento sui servizi educativi e un sistema di sostituzione che faceva acqua da tutte le parti. Come Cisl FP Liguria, avevamo già proposto sistemi organizzativi potenziati, criteri oggettivi per la creazione degli organici e un ritorno ad un’organizzazione decentrata del lavoro, che potesse permettere al territorio di reperire le risorse necessarie per far fronte alle necessità e garantire quindi i servizi educativi alle famiglie. Una proposta addirittura inviata nell’estate 2022, che non ha mai ricevuto risposta. Siamo preoccupati per la sorte di tutto il servizio educativo 0/6, per chi vi lavora all’interno ma ancora di più per i circa 50 lavoratori che da mercoledì 22 febbraio rimarranno a casa senza lavoro. Quest’ultimi sono gli stessi dipendenti che fino ad oggi hanno contribuito fortemente alla tenuta dei servizi, per i quali il Comune di Genova non ha alcuno scrupolo. Insegnanti, Educatori e Collaboratori Scolastici, trattati come numeri e non come persone. Bambine e bambine a cui verranno tolti i punti di riferimento e ancora peggio il diritto di poter frequentare un nido o una scuola d’infanzia, perché senza personale sufficiente, le scuole non potranno rimanere aperte. Il patto con le famiglie, disatteso”, si legge ancora nella nota stampa. La Cisl FP Liguria chiede al Sindaco e all’Assessore al Bilancio di ripensare il più velocemente possibile alle ultime scelte assunte. “Siamo pronti a scendere in piazza insieme a tutti i lavoratori e alle famiglie se non arriverà una risposta in tempi brevi”.
«Le assunzioni a tempo determinato erano per emergenza Covid con coperture governative che ora sono venute a mancare a livello centrale – dichiara l’assessore ai Servizi educativi 0-6 anni Marta Brusoni -. Come amministrazione è da tempo che ci siamo attivati per trovare una copertura a bilancio perché non vogliamo disperdere le professionalità interne, indispensabili per dare un’offerta qualificata e una continuità all’offerta formativa nei nostri nidi e nelle nostre scuole dell’infanzia. Abbiamo già aperto dei tavoli tecnici per arrivare a una soluzione condivisa, sul cui raggiungimento è indispensabile che ci sia l’impegno di tutti. Legittimo protestare e scioperare, ma è fondamentale la collaborazione. Nessuno vuole né lasciare lavoratori a casa né andare a ridurre dei servizi e per questo vorrei fosse chiaro che stiamo lavorando con i nostri tecnici e con il Bilancio da settimane per arrivare a mantenere in servizio tutti gli insegnanti».
FATTI DI LIGURIA
Prosegue la riflessione sullo Skymetro iniziata già sul numero scorso della news
Skymetro, da mostro a bruco, seconda puntata
Insieme alle associazioni che stanno combattendo per evitare il “mostro inutile”, forse anche Controinformazione – La Voce del Circolo Pertini – ha dato il suo contributo. Perché ora, alla faccia delle dichiarazioni, l’amministrazione genovese sembra aver finalmente compreso che non può fare tutto quello che gli pare. Durante la recente e infuocata commissione in Bassa Valbisagno l’assessore
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Campora ha dichiarato che se lo skymetro sarà comunque fatto (ahinoi) non passerà da Corso Galliera e non ci saranno piloni nel Bisagno. Una mezza vittoria, comunque. La furbata di convocare l’assemblea alle 8.30 del mattino non è stata sufficiente per impedire un’agguerrita e folta partecipazione dei cittadini. Come Gatto Silvestri che si arrampica vanamente sugli specchi Campora ha fatto un doppio carpiato all’indietro, mantenendo il minimo indispensabile per consentire l’arrivo dei soldi.
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In pratica è venuta fuori un’alternativa molto meno invasiva quanto meno dal punto di vista estetico. “Da Brignole – ha detto – si arriverà fino alla stazione di Marassi che sorgerà in sponde destra, dopodiché si attraverserà il torrente in diagonale e si proseguirà sullo stesso lato fino al capolinea a monte”. Quel piazzale Fleming in cui la gente si troverà in una specie di cul de sac senza auto e senza mezzi per raggiungere le sedi di lavoro. Il progetto definitivo, su queste basi, dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere completato entro la fine del corrente anno. Quindi niente abbattimento di alberi, niente sopraelevata sulla rive gauche all’altezza del quarto piano dei palazzi. Il nuovo Skimetro, con i tiranti che sostituirebbero i piloni, lo hanno rinominato “bruco”, ma sarebbe meglio chiamarlo verme. I primi appartengono allo stato larvale del lepidottero, che poi diventano farfalle, una bellezza, i vermi, invertebrati, rimangono tali, anche in senso allegorico e metaforico. Qui però il progetto, come l’assessore, si ingarbuglia, perché questa nuova soluzione, pur migliorativa (siamo passati da mostro a verme, il bruco è un’altra storia), imporrebbe una curva sul Bisagno per passare da una sponda (destra) all’altra (sinistra). E ciò renderebbe necessario l’uso di piloni, in netto contrasto con le promesse di Campora. Allora i progettisti stanno pensando a una struttura strallata (tipo Ponte Morandi), ovvero sostenuta da cavi d’acciaio. Un bel rebus. D’altra parte i quattrocento milioni previsti vanno spesi in qualche modo, è una bella pacchia cui non si può in alcun modo rinunciare. L’unica speranza è che fra ritardi e complicanze nella progettazione, alla fine lo Stato ritiri il finanziamento per manifesta inutilità e ce la saremmo cavata con le sole spese (inutili) di progettazione. Orate fratres et cives…
CAM
Quale futuro per Leonardo (ex Oto-Melara)?
É ancora in stallo tra dure polemiche la vendita da parte di Leonardo degli stabilimenti ex Oto-Melara di La Spezia e Brescia, e lo stabilimento WASS di Livorno produttore di siluri e droni subacquei. Era stata fatta un’offerta da parte del consorzio franco-tedesco KNDS. Altro interessamento è arrivato da Fincantieri che, da sempre, equipaggia le proprie navi del settore militare con armamenti prodotti da Oto-Melara.
Sorprende un po’ la volontà di vendere un’azienda che macina utili e che ha un portafoglio di commesse; è leader mondiale indiscussa nel settore dei cannoni navali; ha, recentemente, ottenuto una straordinaria commessa dal Brasile per la fornitura di 221 veicoli blindati Centauro. La motivazione di Leonardo è dettata dalla volontà di “fare cassa” per poter comprare una quota importante dell’azienda tedesca Hensoldt, che le consentirebbe un importante rafforzamento nel settore dell’elettronica. La vera anomalia, tutta italiana, è che un’operazione di cessione di attività e stabilimenti che coinvolge due aziende di Stato, operanti in un settore così delicato non venga gestita direttamente, preventivamente e senza troppi clamori, dal governo; che di fatto è l’azionista di maggioranza di entrambi i gruppi. L’offerta di Fincantieri che consentirebbe di mantenere all’interno del perimetro industriale nazionale aziende leader come OTO e WASS significa infatti salvaguardare nel tempo capacità produttive, posti di lavoro e competitività sui mercati. Sicché non è comprensibile la latitanza dell’esecutivo su questo tema.
A meno che non si voglia avviare, sull’onda del dibattito sull’offerta straniera finanziariamente più ricca, la svendita dell’industria italiana ad alta tecnologia di valore strategico. É infatti di tutta evidenza che cedere le ex Oto Melara e WASS significa consentire ai concorrenti esteri di acquisire il know-how e le eccellenze nazionali in settori strategici, col rischio che entro qualche anno gli stabilimenti italiani vengano chiusi per concentrare la produzione in Francia e Germania.
Ad oggi lavorano negli stabilimenti Oto Melara 1100 dipendenti alla Spezia e 100 a Brescia. É vero che sul fronte dei mezzi corazzati Oto Melara non è più da tempo competitiva ma rivitalizzarla, come intende fare Fincantieri per inserirla all’interno di progetti di cooperazione europea come il carro armato franco-tedesco MGCS o il nuovo cingolato da combattimento, è cosa ben diversa dal cederla alla concorrenza.
Nei grandi programmi europei l’Italia può entrare da protagonista; più ad alto profilo nel settore navale, certamente con meno pretese in quello terrestre, ma sempre mantenendo sovranità, impianti produttivi e maestranze qualificate. La cessione di Oto Melara potrebbe inoltre anche mettere in discussione la quota di Leonardo in MBDA, il colosso-consorzio europeo per la produzione di missili e sistemi di puntamento, che ha il proprio stabilimento italiano proprio alla Spezia. Leonardo ne detiene una quota pari al 25% e l’azienda offre lavoro a manodopera specializzatissima ad alta qualificazione professionale.
Si tratta in ogni caso di imprese ad elevato livello tecnologico che costituiscono un importante patrimonio sia di know-how che occupazionale.
NC
Toti dà i numeri a caso (e l’intervistatore fa scena muta)
Toti dichiara che ci vuole più autonomia per i porti liguri, con una maggiore presenza degli enti locali e una maggiore quota di entrate girate dallo Stato in ragione della quantità dei traffici movimentati.
Per questo dichiara sul Secolo XIX del 22 scorso al giornalista che lo intervista: «Le nostre banchine generano il 50% dei traffici italiani con un ritorno di appena 12 milioni l’anno»
Il giornalista è rimasto muto di fronte a tali numeri, una pessima abitudine che i giornalisti liguri hanno preso di fronte alle autorità politiche e istituzionali della regione. Alcuni di mia conoscenza affermano che le risposte sono di responsabilità dell’intervistato, ma io faccio presente che compro la copia del giornale perché mi aspetto che il giornalista faccia il mestiere di porre delle domande per conto dei cittadini e non gli propini sole risposte di chi già è al potere. In ogni caso, Toti come quasi sempre quando parla di porti fornisce dei numeri a caso, quelli che gli fanno comodo.
Le banchine liguri non generano il 50% dei traffici italiani, bensì il 15,8% (fonte: Assoporti 2021). Se invece Toti voleva più brevemente indicare la quota dei container (per cui stiamo spendendo un paio di miliardi per la nuova diga foranea a Genova dopo averne spesi diverse centinaia per i nuovi terminal di Vado e Bettolo) allora saliamo ma solo al 36,8% (fonte: idem). Altro che 8 milioni di container nei porti liguri narrati un giorno sì e uno no dai titoloni dei giornali e nelle conferenze stampa, piuttosto siamo fermi a 4 milioni e dal 2017 siamo addirittura in calo, perdendo quasi l’1% all’anno di container.
Per quanto riguarda “un ritorno di appena 12 milioni l’anno” Toti segnala solo la quota di IVA spettante, ma non dice che nei bilanci 2021 delle Autorità portuali di Genova, Savona e La Spezia sono iscritte entrate tra correnti (tributarie per lo più) e trasferimenti in conto capitale per circa 1 miliardo di euro. Da dove arrivano i trasferimenti se non dallo Stato? Visto che il giornalista ha taciuto, vediamo se almeno tra i politici qualcuno obietterà sugli argomenti faziosi che Toti usa per mettere le mani sul demanio portuale, per sé e per i suoi sostenitori politici e finanziari.
Riccardo Degl’Innocenti
Lugano bella a Chiavari
Alcune considerazioni sulla campagna di stampa riguardo al 41bis, in particolare sulla criminalizzazione degli anarchici e del loro pensiero da parte della stampa conservatrice. Vorrei soffermarmi sulle esperienze culturali dei primissimi anni Settanta, in quel tempo giovane studente alla ricerca della “buona strada” per costruire un Paese giusto, in un continuo confronto col mondo del lavoro, in un mare della politica assolutamente agitato. A Chiavari nacque uno dei tanti Circoli Culturali, un luogo per costruire quella creatività che ci avrebbe portato “al potere”. Il primo grande dibattito fu sulla forma politica che doveva avere il Circolo: si decise che eravamo un Collettivo Culturale; termine che indicava una sorta d’arcipelago al nostro interno, dai compagni anarchici ai giovano socialisti e comunisti: si delineava “un campo largo”, con un serrato dibattito tra politica parlamentare e movimentismo extraparlamentare. La ricerca della vena “creativa” ci portò a realizzare un primo spettacolo, una produzione da offrire alle tante feste di partito che animavano l’estate, la scelta cadde sul “canzoniere”, un collage di canzoni da eseguire intercalate da motivazioni storiche e culturali. La prima canzone era “Addio Lugano bella” e l’introduzione richiamava l’esperienza dell’anarchico Pietro Gori, una forte personalità del movimento di fine Ottocento costretto a trovare rifugio a Lugano, era il 9 luglio del 1894, per le accuse rivolte dalla stampa che lo riteneva l’ispiratore dell’attentato al presidente francese Sadi Carnot. In realtà, prima dell’assassinio del presidente, avvenuto il 24 giugno, il governo italiano aveva varato dei provvedimenti molto restrittivi: le tre leggi Crispi che miravano all’indebolimento del movimento d’opposizione di sinistra e agli anarchici. La storia ci insegnerà che Gori non fu mai sostenitore d’azioni terroristiche, la sua attività era esclusivamente mirata alla costituzione di un rinnovato “Partito Anarchico Socialista Rivoluzionario”. Il nuovo partito, su posizioni radicali e anti parlamentari, era in fase di elaborazione proprio in Svizzera, nella località di Capolago sin dal 1891. Dopo la stretta liberticida del governo Crispi fu naturale trovare rifugio in Svizzera dove operava già da tempo una piccola comunità di rifugiati della sinistra italiana. L’alloggio di Gori diventa un nuovo centro di dibattito e d’iniziativa politica, idee che vedranno il forte coinvolgimento dei lavoratori ticinesi. Questa la situazione nella quale il governo Svizzero si ritroverà, sotto una forte pressione politica, anche nella libera terra ticinese vengono presi provvedimenti contro i rifugiati che saranno costretti all’allontanamento. L’azione contro gli esuli italiani è sostenuta dal Corriere Ticinese che arriva ad aizzare le popolazioni contro gli italiani; cui corrispondono i provvedimenti del Consiglio Federale, che nel gennaio del 1895 emette gli ordini d’immediato arresto ed espulsione di quattordici dirigenti anarchici di Lugano. In quei giorni trascorsi in carcere Gori scrisse la canzone che diventerà patrimonio dell’intero movimento operaio italiano. Questa era la nostra storia in piazza e nelle feste dei partiti, un palco dove la canzone era eseguita per raccontare il pensiero anarchico: “Addio Lugano bella o dolce terra pia – cacciati senza colpa gli anarchici van via -e partono cantando con la speranza in cuor – E partono cantando con la speranza in cuor”. Non mancava l’applauso e spesso raccontavamo che la Rai di quegli anni aveva ospitato il Canzoniere di Giorgio Gaber, Toffolo, Jannacci, Profazzio e Pisu. Altri tempi? Certamente, ben più di cinquanta anni orsono, ma la storia vera è bene raccontarla per i valori che ci rappresenta, difendendola da coloro che criminalizzano uomini che non si piegavano e ci hanno lasciato una canzone come traccia dei loro nobili pensieri.
GV
La privatizzazione dell’ospedale di Bordighera (battistrada della nuova sanità totiana)
Ormai è cosa fatta. La Regione ha annunciato la privatizzazione dell’ospedale Saint Charles. Dopo un lungo iter che ha visto negli anni le perplessità della comunità, le timide resistenze della politica locale, le dimissioni del Direttore Generale dell’azienda sanitaria imperiese e la svolta con l’approvazione di una delibera regionale di Giunta vincolante per la Asl1, è stata affidata al colosso privato italiano GVM Care & Research la gestione dell’ospedale bordigotto.
Nella struttura trovano spazio diverse specialità, dalla chirurgia generale, quella vascolare al recupero e alla riabilitazione funzionale, con una dotazione di 77 posti letto più 10 per il day hospital (contro i 119 complessivi precedenti). La durata del contratto stipulato è di sette anni con la possibilità di rinnovo per altri cinque, mentre sul piano economico, l’Asl1 corrisponderà 15,1 milioni annui di cui 6,3 per le attività ambulatoriali, 7,9 per la degenza e solo 848 mila euro per il Pronto soccorso, un nodo cruciale della trattativa, perché scarsamente remunerativo e che non è ancora dato sapere se sarà in grado di trattare i codici rossi. Resta da conoscere quale profitto verrà ricavato dal Gruppo privato e accreditato, sovvenzionato da soldi pubblici. Una fetta di risorse collettive che viene sottratta al Servizio Sanitario Regionale e all’ammodernamento della sanità pubblica.
Una situazione quella dell’estremo ponente ligure che tra i presìdi di Imperia, Sanremo e Bordighera arriva a coprire 490 posti letto per acuti, a fronte di un fabbisogno, secondo il coefficiente 3×1000 su una popolazione di circa 200 mila abitanti, di 600 posti letto (ne mancano almeno 100 all’appello).
MG
La privatizzazione dell’ospedale di Bordighera (battistrada della nuova sanità totiana)
Ormai è cosa fatta. La Regione ha annunciato la privatizzazione dell’ospedale Saint Charles. Dopo un lungo iter che ha visto negli anni le perplessità della comunità, le timide resistenze della politica locale, le dimissioni del Direttore Generale dell’azienda sanitaria imperiese e la svolta con l’approvazione di una delibera regionale di Giunta vincolante per la Asl1, è stata affidata al colosso privato italiano GVM Care & Research la gestione dell’ospedale bordigotto.
Nella struttura trovano spazio diverse specialità, dalla chirurgia generale, quella vascolare al recupero e alla riabilitazione funzionale, con una dotazione di 77 posti letto più 10 per il day hospital (contro i 119 complessivi precedenti). La durata del contratto stipulato è di sette anni con la possibilità di rinnovo per altri cinque, mentre sul piano economico, l’Asl1 corrisponderà 15,1 milioni annui di cui 6,3 per le attività ambulatoriali, 7,9 per la degenza e solo 848 mila euro per il Pronto soccorso, un nodo cruciale della trattativa, perché scarsamente remunerativo e che non è ancora dato sapere se sarà in grado di trattare i codici rossi. Resta da conoscere quale profitto verrà ricavato dal Gruppo privato e accreditato, sovvenzionato da soldi pubblici. Una fetta di risorse collettive che viene sottratta al Servizio Sanitario Regionale e all’ammodernamento della sanità pubblica.
Una situazione quella dell’estremo ponente ligure che tra i presìdi di Imperia, Sanremo e Bordighera arriva a coprire 490 posti letto per acuti, a fronte di un fabbisogno, secondo il coefficiente 3×1000 su una popolazione di circa 200 mila abitanti, di 600 posti letto (ne mancano almeno 100 all’appello).
In un territorio estremamente complesso, costretto tra mare e monti, con un entroterra profondo e privo di adeguate comunicazioni, dove i lunghi tempi di percorrenza possono determinare un aumento del rischio clinico.
C’è poi la questione delle tempistiche infinite che riguarda qualsiasi prestazione sanitaria, si tratti di esami strumentali, di visite specialistiche o di accessi al Pronto soccorso. Il programma Restart, introdotto per ridurre le liste d’attesa, dissangua da una parte le finanze pubbliche e rafforza dall’altra il modello privato, anche non accreditato.
La visione aziendalista e privatistica di Toti procede avanti tutta. Dopo aver dichiarato di voler privatizzare il 15% delle strutture pubbliche sanitarie ne fanno le spese i cittadini liguri, da Albenga alla Val Bormida, da Pietra Ligure allo spezzino tra reparti chiusi o a rischio di chiusura, servizi territoriali assenti o in forte difficoltà, esami e prevenzioni in ritardo. Intanto la regione Liguria spende 115 milioni in meno nella sanità destinandoli altrove e assegna un costo del ticket pro capite di 43 euro contro una media nazionale di 38 (dati della Corte dei Conti).
Non basta tagliare i fondi e porre tetti di spesa come limiti invalicabili per impedire la privatizzazione della sanità. È in atto uno snaturamento del Servizio Sanitario Nazionale, senza modificarne l’impianto normativo, che sta conducendo a grandi passi verso il collasso la sanità pubblica. Su una cosa sono d’accordo sindacati, ordini, comunità scientifica e cittadini: la vera emergenza del sistema sanitario pubblico coincide con la carenza cronica di personale, una emergenza silenziosa. Ce ne siamo resi conto con la diminuzione dei medici di medicina generale e la continua perdita di posti di lavoro negli ospedali. Se gli operatori sono il capitale umano essenziale e insostituibile, allora di questo passo, non è possibile non compromettere l’esistenza stessa dei servizi. Neanche la pandemia è riuscita a rimuovere il vero ostacolo che sono i tetti alle assunzioni imposti alla sanità dalla grave miopia politica (Dl 35 del 2019).
MG
Essere donne a Savona
Recentemente mi sono soffermata a riflettere sulla presenza delle donne nella società savonese dopo aver letto un articolo ANSA che recitava: “Savona è la provincia italiana con più donne che amministrano un’impresa, il 29,8% del totale, al secondo posto Imperia con il 29,1% rispetto alla media nazionale del 25,1%. Lo rileva la seconda ‘Indagine sull’indice della qualità di vita delle donne’ in Italia condotta nell’ambito della 33ma ‘Indagine sulla qualità della vita’ del Sole 24 Ore”.
In effetti nella politica ed in alcune aziende le donne savonesi già da tempo hanno preso spazio soprattutto negli ultimi anni.
Abbiamo avuto anche un sindaco donna la passata legislatura ed oggi abbiamo un vicesindaco ed una giunta con una forte presenza femminile, ruoli di spicco nell’azienda trasporti TPL ed anche in alcune cooperative di servizi sociali. Il questore di Savona è una donna.
Quello che per un periodo di tempo non è stato pro donna a Savona è stato il supporto alla famiglia; e purtroppo proprio durante il periodo in cui il sindaco era donna. Se è vero che ci siamo conquistate posti al sole, dall’altra parte spesso lo abbiamo fatto con fatica senza poter avere servizi dedicati ai nostri figli. A volte la scelta è stata, come si legge anche dal dato nazionale, tra famiglia e carriera.
Quello che ancora non vedo è una rete si supporto adeguata, orari non compatibili con le scuole, mancanza di servizi per supporto alle famiglie e di conseguenza alle donne.
La mia percezione è che nel savonese ci sono stati dei passi avanti e ci sono molte figure femminili di indubbio valore che sono ottimi esempi anche per le ragazze che si apprestano decidere del loro futuro (e ci sono uomini che offrono opportunità e spazi), ma la strada per arrivare ad eliminare le discriminazioni, soprattutto salariali, è ancora lunga e faticosa. Infatti a pari livello le donne prendono uno stipendio che mediamente è inferiore.
Sarebbe bello poi che questo percorso fosse al di la delle quote rosa ma per meriti e per un cambio di mentalità, così come per il doloroso problema dei femminicidi e della violenza sulle donne.
Ognuna di noi deve insegnare ai propri figli maschi il rispetto al di là del genere e questa è la più grande sfida per il futuro, nella speranza che mentre noi insegniamo questi valori i nostri compagni ne diano l’esempio sostenendo le nostre carriere e aiutandoci nella gestione dei figli e della casa. Comportamenti che sicuramente migliorerebbe la qualità della vita delle donne e delle famiglie.
Susie Bandelli
Continua il girovagare per le nostre città d’arte
Il Grechetto ci fa riscoprire uno strumento musicale dimenticato: la dulciana
La Chiesa di San Luca, che si trova nel cuore dell’omonima Via e precisamente in una piazzetta dove è quasi sovrastata dagli alti palazzi che la circondano, è una piccola, deliziosa bomboniera barocca al cui interno sono contenute importantissime opere pittoriche e scultoree. In realtà le origini della Chiesa sono assai precedenti, infatti il primo edificio sorse nel XII secolo come cappella gentilizia delle famiglie Spinola e Grimaldi, ma proprio nel Seicento venne ricostruita ex novo.
Osserviamo per un momento la facciata, che è detta “a salienti”, cioè con numerosi spioventi posti a diverse altezze, ed è ornata con motivi marmorei, al di sopra dei quali si apre una importante lunetta e ammiriamo anche il campanile a torre.
L’interno della Chiesa ha una sola navata che termina con un abside molto sviluppato e a forma semicircolare, che ospita una serie di affreschi raffiguranti episodi della vita di San Luca e scene mariane; tra le quali, nella volta della cupola, l’Incoronazione della Vergine di Domenico Piola.
Sull’altare si fa notare per bellezza e movimento l’Immacolata con Angeli di Filippo Parodi e nella nicchia di destra rispetto all’entrata commuove il ligneo Cristo deposto dello stesso autore.
Ma il nostro sguardo viene rapito da quello che è considerato, a ragione, uno dei capolavori di Giovan Battista Castiglione detto il Grechetto, che nel 1645 dipinse la Natività; senz’altro una delle opere pittoriche più interessanti del centro storico di Genova. Molto si è scritto circa questo quadro, sul significato delle figure che vi appaiono, a cominciare dal pastore-satiro con la corona di Dioniso che si staglia prepotente in primo piano e suona uno strumento a fiato. Ma di quale strumento si tratta? Proprio di una “Dulciana”, strumento molto usato nel Cinquecento e nel Seicento, ma andato rapidamente in disuso già a partire dal Settecento: nel quadro del Grechetto per la precisione appare una “Dulciana basso”. Questo strumento aveva un suono dolce e al tempo stesso vigoroso che lo rendeva molto versatile, adatto sia a composizioni di carattere liturgico, sia a danze e brani di genere arcadico/ pastorale di carattere amoroso e sensuale. Non sappiamo se Grechetto abbia scelto di dipingere questo strumento solo per ragioni figurative o perché lo trovava più adatto di altri a rafforzare il concetto di omaggio a Gesù da parte della istintiva naturalità e sensualità dell’umanità intera, identificata nella religione pagana e simboleggiata appunto dal bacchico pastore -satiro, in quanto non ci sono fonti al riguardo. Per chi avesse la curiosità di sentire il suono della Dulciana basso, il consiglio è di regalarsi 5 minuti di solitudine e silenzio nei quali ascoltare il brano “Vestiva i colli” del compositore spagnolo Bartolome’ de Selva y Salaverde: il brano ha una bella melodia molto appassionata e sensuale (l’autore era un monaco agostiniano, ma si sa come andavano queste cose…Aramis diventa prima Abate e poi Vescovo). |
Orietta Sammarruco
A proposito delle minacce incombenti sul Parco di Portofino
Ennio Flaiano diceva che gli italiani odiano la natura: appena possono la sommergono di cemento oppure la ‘addomesticano’. La tormentata vicenda del Parco di Portofino è l’ennesima conferma della verità di questa affermazione.
L’area del Monte di Portofino è un miracolo della natura, come pochi altri al mondo, come pochi altri meritevole di una tutela gelosa e severa. Stupisce che non sia ancora inclusa nell’elenco dei beni ambientali ‘patrimonio dell’umanità’. Eppure (come aveva ragione Flaiano!) il tentativo di garantirne la migliore difesa contro l’avversione italiana per i miracoli della natura, sottraendo il Parco alla Regione e affidandolo allo Stato, sembra destinato al più inglorioso dei fallimenti: almeno sino a quando Toti e la Lega saranno al governo.
“Quel Parco nazionale non s’ha da fare, né oggi né mai”, sembra il loro motto. Vi si oppongono soprattutto alcuni comuni, che temono possa derivare – dall’ampliamento dell’area protetta – una significativa riduzione delle aree edificabili e ‘urbanizzabili’, nonché una limitazione per l’attività venatoria, essendo notoriamente i cacciatori una specie ‘protetta’ per ragioni elettorali.
Per loro quello di Portofino deve rimanere un ‘parco’, ma nel senso tutto italiano che ne vede un’occasione di profitto più che di conservazione di un bene collettivo di valore inestimabile. Anche la natura può essere ‘gentrificata’, con piste ciclabili, zone da pic-nic, ristorantini, comodi parcheggi e – naturalmente – un congruo numero di residence. Il parco, per molti, dev’essere soprattutto un ‘parco divertimenti’ per il “famigerato” tempo libero.
Da ambientale, la questione è diventata, come si può immaginare, squisitamente politica. Il ‘parco nazionale’ è stato voluto da un senatore del PD: è ‘di sinistra’ e – quindi – va per questo combattuto da destra. Tanto più che la cultura locale (e la sua proiezione elettorale) non sembra preoccuparsi troppo dei problemi legati all’ambiente e alla difesa del paesaggio.
Come spesso accade, tuttavia, le ragioni politiche amano spostarsi sul piano legale, che offre – allo stesso tempo – un comodo alibi e un percorso pieno di ostacoli e tranelli procedurali in cui l’iniziativa ‘avversaria’ finisce per smarrirsi. Si cercano compromessi, si aprono i famosi ‘tavoli’; sindaci (di sinistra) favorevoli, sindaci (di destra) contrari, e anche sindaci all’oscuro di tutto questo farraginoso andare e venire dal Tar al Consiglio di Stato.
Il Tar della Liguria, nel marzo dello scorso anno, aveva annullato la perimetrazione provvisoria del Parco Nazionale, per una superficie di 5.363 ettari, che estendeva grandemente (con divieto anche di esercizio della caccia) la superficie originaria del parco ‘regionale’, di soli 1.056 ettari.
Ora, con una recentissima sentenza (n.625 del 18 gennaio 2023, quarta sezione), il Consiglio di Stato ha accolto i ricorsi presentati dal Ministero dell’Ambiente nei confronti di diversi comuni rientranti nella nuova perimetrazione del Parco, annullando la sentenza del Tar Liguria cui ha rinviato nuovamente, per ragioni formali e per l’integrazione del contraddittorio, la questione sui confini – allo stato solo provvisori – del futuro Parco Nazionale di Portofino.
Il destino del Parco tornerà così ad essere discusso davanti al Tar. Tenuto conto degli interessi in gioco e dei mutamenti politico-istituzionali intervenuti dopo le elezioni nazionali dello scorso settembre, non è difficile immaginare quali e quanti nuovi ostacoli stiano per frapporsi alla creazione di un Parco Nazionale dai confini più estesi e soprattutto affidato, quanto alla sua gestione, a organismi capaci di sottrarsi alle logiche politiche e agli interessi locali.
MM
Il turismo è una risorsa. Ma o si governa o se ne è governati
Tutto è partito dalla duplice constatazione sulle navi da crociera alla Spezia. Da un lato l’inquinamento derivante dai fumi di scarico delle grandi ammiraglie marine, dall’altro la grande invasione di massa di un turismo “mordi e fuggi”, che causa diversi problemi e genera ben scarso utile nel territorio. L’idea è partita dal Circolo Pertini, che ha messo insieme una vasta alleanza strutturata in una vera e propria rete – la rete Ambiente Altro Turismo – formata oltre che dal Circolo Pertini da Cittadinanza Attiva, Italia Nostra, Legambiente e VAS Verdi Ambiente e società.
Le associazioni hanno promosso un convegno nell’ex cinema Diana, oggi Sun Space. Un locale che appariva un po’ eccessivo come capienza e – invece – si è dimostrato quasi insufficiente, dato l’altissimo numero di partecipanti.
Di grande qualità gli interventi, dopo l’introduzione di Gino di Sacco, coordinatore del Circolo Pertini alla Spezia; interessantissimo il documentario sulle navi da crociera a Venezia, ad opera di Giovanni Berengo Gardin, presentato da un esponente del comitato veneziano contro le navi da crociera.
L’intervento della sindaca di Rio Maggiore ha gettato un grido di allarme dei danni del turismo di massa in un territorio delicato e limitato come quello delle Cinque Terre. Oggi gli abitanti, senza i quali non ci sarebbero le Cinque Terre, che sono un ambiente fortemente antropizzato (i terrazzamenti dei vigneti), sono sfrattati: o perché vendono le loro case a prezzi strabilianti o perché vengono sostituiti da strutture ricettive. Quando questo processo sarà compiuto le Cinque Terre potranno diventare forse una vetrina per uno shopping stile Disneyland, ma non esisteranno più.
Impressionati invece i dati sull’inquinamento rilevati da Arpal. Anche se la stessa agenzia, che impegna un numero di centraline limitato e non posizionate correttamente, fornisce dati “diluiti” nell’arco delle 24 ore e non nei momenti di picco dell’inquinamento.
Ora le compagnie e l’autorità portuale, nel silenzio di Regione e Comune, vorrebbero quadruplicare gli approdi delle navi da crociera. I visitatori, che non rimangono a bordo, sono accompagnati per il 90% a Pisa, Lucca, Firenze o alle Cinque Terre. In città rimangono solo spiccioli.
Questo tipo di turismo non è turismo. Nessuno dorme negli alberghi della zona, pochissimi mangiano in un ristorante, irrilevanti le cadute economiche, pesante l’inquinamento, il traffico e le moltitudini ingombranti.
Le alternative esistono. Sono nella valorizzazione del territorio, dai musei spezzini alla natura della Val di Vara, ai Castelli di Lunigiana, alla via Francigena; come alla valorizzazione di tipologie di turismo a basso impatto: quello delle escursioni, il cicloturismo, il turismo equestre, il diving, le arrampicate e poi il turismo enogastronomico e molto altro. Il professor Rossano Pazzagli dell’Università del Molise è stato molto chiaro: “Il turismo o si governa o si subisce”.
Sicché le cinque associazioni hanno lanciato il sasso nello stagno. La proposta è quella di un Piano Regolatore del Turismo realizzato su una scala come minimo provinciale; ma che non escluda contatti e sinergie con le aree vicine come la Lunigiana, la Garfagnana, La Versilia e il Tigullio.
NC
In questo numero Citizen Journalism affronta la travagliata vicenda di un gioiello dell’edilizia popolare agricola a Levante
Degrado, speculazione e rigenerazione del borgo storico di Marinella
Con l’approvazione fortemente contestata del piano di rigenerazione del Borgo Storico di Marinella in consiglio comunale si è conclusa una tappa del travagliato iter della frazione a mare del comune di Sarzana: Marinella è da sempre al centro degli interessi e delle polemiche politiche. Un’area di immenso pregio, costituita da un lato da quella che fu la più grande azienda agricola della Liguria, realizzata sulla vasta pianura alla foce del fiume Magra e ripartita tra i comuni di Sarzana e Ameglia, dall’altro da 4 chilometri di lunga spiaggia sabbiosa; proprio là dove finiscono le “coste iscoscese” della Liguria, per lasciar posto alle spiagge della Versilia. Infine il vecchio borgo agricolo. Un vero gioiello di edilizia popolare agricola, realizzazione all’avanguardia per l’epoca, edificato a inizio ‘900 dall’imprenditore Carlo Fabbricotti.
Oggi, fallita l’azienda agricola del Monte dei Paschi, si sta provvedendo a vendere l’area a privati, purtroppo suddividendola in grossi lotti, col rischio di inficiare l’unicum di una vastissima area agricola e verde, proprio alle spalle delle spiagge e della strada litoranea. Sul vecchio borgo, che presenta un enorme patrimonio immobiliare tra case, ex stalle, ex pollerie, fienili e capannoni, lasciato colpevolmente decadere e, oggi, abitato, da poche decine di residenti, l’amministrazione comunale di Sarzana ha presentato un piano di rigenerazione. Piano a lungo annunciato, ma rimasto del tutto sconosciuto nei suoi contenuti, sino a pochi giorni fa, quando è stato finalmente presentato in consiglio comunale. Al piano è allegato il PINQUA (Progetto Innovativo per la Qualità dell’Abitare), finanziato dal ministero con 15 milioni di euro e destinato al recupero per edilizia sociale di 28 appartamenti ricavati dalla ristrutturazione di alcune delle antiche cascine del borgo. Un’ottima iniziativa che non può che essere salutata positivamente, visto che riqualifica il borgo, genera investimenti e lavoro senza nessun consumo di suolo.
Il problema è che l’amministrazione di destra ha legato l’approvazione del PINQUA a quella del progetto di rigenerazione urbana, che prevede un nuovo e gravissimo vulnus al territorio con la realizzazione di edifici per ben 7.700 metri quadrati corrispondenti a 24.000 metri cubi, di cui 5.500mq destinati a una RSA di lusso proprio di fronte al borgo storico. Un vero scempio, dopo quelli gravissimi operati negli anni ’60 e ’70 dalle giunte di sinistra dell’epoca. A ciò si aggiunge inoltre la trasformazione della ex grande colonia Olivetti in un hotel di lusso da parte del gruppo Bulgarella.
La giunta comunale strumentalizza lo strumento del PINQUA, con la scusa che la proprietà non cederebbe gli edifici destinati a edilizia abitativa sociale se non gli si consente di realizzare il suo piano di cementificazione. Un’amministrazione dovrebbe saper bene che esistono altri strumenti per acquisire immobili, dalla confisca all’esproprio con l’occupazione d’urgenza. Nel frattempo si continua a latitare volutamente sugli strumenti di pianificazione urbanistica che dovrebbero offrire una soluzione definitiva ed equilibrata al territorio. Nel 2018 la vecchia amministrazione di Centro-Sinistra aveva affidato allo Studio Boeri-Giuliani la redazione del nuovo Piano Regolatore (PUC), sula quale è scesa una cappa di silenzio. Si preferisce sfruttare una ignobile legge regionale sulle ristrutturazioni, fatta da Toti, che consente un aumento delle cubature del 40% sulle ristrutturazioni degli immobili, con buona pace del territorio.
NC