Numero 40, 30 novembre 2022


PILLOLE

Good news: la Fondazione Luzzati trova casa a Palazzo Ducale

Il 3 giugno 2021 la mostra “Sipari Incantati. Atto I” ha inaugurato Casa Luzzati, lo spazio dedicato al

Maestro Emanuele Luzzati presso Palazzo Ducale di Genova, promosso e sostenuto dal Comune e dalla Lele Luzzati Foundation. La volontà è quella di consolidare il nuovo polo di cultura legato a Emanuele Luzzati per Genova e per il mondo, come merita un protagonista del ‘900, attraverso esposizioni, pubblicazioni, incontri, giornate studio, borse di studio oltre a un importante progetto di attività didattiche e formative. Apre Casa Luzzati a palazzo Ducale - la Repubblica

Dal 2 ottobre al 27 novembre scorso è già partita l’iniziativa Domenica in Casa Luzzati: brillanti conversazioni informali sui temi più disparati In più è prevista l’istituzione di un Premio Luzzati per l’illustrazione e uno per il cinema d’animazione.

E ora ci beccheremo pure la Gronda

La Gronda si farà, progettata quasi sei anni fa e pronta tra 10 (secondo i costruttori). Non meno di 12 per lo scrivente, con un 40% di aumento dei prezzi. Pura statistica. Servirà a ben poco, perché nel giro di 15/20 anni il traffico su ruote sarà in diminuzione. Pazienza, questi miliardi potevano essere spesi meglio. Ma le mie sono bubbole, pinzillacchere, utopie. Però a essere preso per i fondelli non ci sto: 50 km su 65 tra viadotti e gallerie, e mi devo sentir dire dal ministero delle Infrastrutture, dei Trasporti, Regione, Città metropolitana, Comune di Genova, Autorità di sistema portuale e Autostrade per l’Italia che la Gronda “ha un impatto migliorativo in ambito ambientale nonché di tutela e salvaguardia del paesaggio”! Facce di bronzo. Altre facce sono da querela.

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Bad news: assessore Grattarola, ogni occasione è buona per rilanciare la truffa Galliera?

Il 17 novembre infermieri e lavoratori del Galliera hanno aderito allo sciopero, promosso da Cgil e Uil, per manifestare contro le carenze del personale e i conseguenti maxi turni cui sono sottoposti. Condizioni di lavoro che determinano disservizi mortali e altrettanto gravi rischi professionali. Ma l’assessore regionale alla Sanità Angelo Grattarola in tutto questo vede solo l’opportunità di spezzare l’ennesima lancia a favore del progetto speculativo denominato ironicamente “Nuovo Galliera”, che da anni si tenta di far passare a danno dei cittadini e dei residenti nel quartiere di Carignano (nonché contro la stessa magistratura) all’insegna di una modernizzazione ingannatrice, avvallata da un business plan che prevede ulteriori tagli di letti e del personale.

EDITORIALI

Festival della Scienza: vediamo di capirci, su colpe e responsabilità di un declino

La denuncia della perdita di spinta propulsiva del Festival della Scienza genovese, apparsa sugli scorsi numeri de la Voce del Circolo Pertini, ha suscitato un putiferio di lamentele da parte dei diretti interessati; che si sono ritenuti ingiustamente attaccati. Una critica che ci sentiamo di ribadire nella – a nostro avviso – palese simmetria con un’altra vicenda genovese: la parabola della Fiera del Mare, nata all’inizio degli anni ’60 da un’intuizione di Giuseppe De André, che avrebbe dovuto garantire a Genova una stabile posizione di primazia nel panorama fieristico nazionale, anche grazie alla prestigiosa dotazione di partenza: le esposizioni nautiche e floreali. Capitale gradatamente dissipato da amministratori che “covavano uova di pietra” mentre altre realtà sino ad allora marginali (come Bologna) conquistavano posizioni rispetto ai quartieri fieristici di Piazzale Kennedy. Fino all’attuale morte per consunzione. Mutatis mutandis una grave dissipazione di patrimonio civico a cui sembra avviata l’esposizione di Palazzo Ducale e dintorni: perdita di capacità attrattiva con conseguente anemia di finanziamenti, calendari largamente riempiti con risorse locali nella logica – per dirla in dialetto – del “tapullo” e delle nozze con i fichi secchi, giochi di prestigio sulle presenze (i 30mila paganti 2022 diventerebbero 220mila per un’ipotetica moltiplicazione delle presenze a eventi da parte delle stesse persone. Che sempre 30mila restano).

Ma se fai presente tutto questo agli organizzatori, parte subito il disco rotto all’unisono “non è colpa mia”. Che probabilmente corrisponde al vero, visti i salti mortali a cui sono chiamati. Fermo restando che la critica di un declassamento in atto di un’eccellenza cittadina non viene minimamente inficiata dallo scaricabarile di responsabilità: comunque il Festival rimane ormai un’occasione mancata. Prime Video: Will Hunting - Genio ribelle

Will Hunting genio ribelle: non è colpa tua

E qui salta fuori l’altra simmetria, con l’IIT di Morego. L’Istituto Italiano di Tecnologia fa capolino grosso modo con il Festival e l’operazione Erzelli all’inizio del Terzo Millennio, a fronte di una weltanschauung scientista come opportunità di fuoriuscita dalla crisi del modello di sviluppo novecentesco genovese; in tilt dagli anni 80. Senza ritornare su denunce già argomentate su questa news, il fatto che l’IIT rinnegasse la sua missione costitutiva – il trasferimento tecnologico – per dedicarsi agli effetti speciali e all’incetta di pubblico denaro (con la regia di Cingolani) aveva un solo responsabile: la mancanza di un indirizzo strategico e del relativo controllo da parte del soggetto politico. Ossia quel ruolo di regia, che gli studiosi di organizzazione chiamano “amministrazione catalitica”, in cui l’istituzione coordina soggetti pubblici e privati svolgendo la funzione del catalizzatore (che non fa, ma fa fare). Lo stesso vale per il Festival della Scienza, a cui i nostri amministratori (certificati dissipatori) non forniscono la necessaria sponda, ricercando soltanto vantaggi in termini di visibilità. Stato dell’arte di cui – abbiamo motivo di credere – chi si è offeso alle nostre critiche è ben cosciente. Ma preferisce non affrontare una pubblica discussione che faccia emergere la verità. E così finisce per funzionare da foglia di fico. O se vogliamo – con le parole del Vangelo – da sepolcro imbiancato.

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Ancora sui rapporti sbilanciati tra cittadino e istituzioni locali. Il parere del giurista

‘Soyez partiaux’!’, ‘Siate parziali!’ fu la provocatoria esortazione rivolta anni orsono da un famoso giudice francese a un pubblico di suoi giovani colleghi sul punto di prendere servizio. La frase suscitò scandalo. Eppure: come può, un giudice, mantenersi imparziale rispetto a vistose differenze tra le parti in campo? È vera imparzialità quella che si limita a governare uno scontro processuale che vede da una parte Davide, con la sola sua fionda, e dall’altra il gigante Golia, armato di tutto punto? Ha ragione Pierfranco Pellizzetti a ribellarsi alla palese disparità di forze tra il comitato dei cittadini di Carignano e il CDA dell’ospedale Galliera: ma non è un caso isolato. La stessa evidente disparità si riscontra ogni volta che un gruppo di cittadini (e a maggior ragione un singolo) scelgono di affrontare in campo aperto, in un’aula di tribunale, una multinazionale o qualche altro soggetto, pubblico o privato, dotato comunque di un potere economico prima di tutto ma non solo, che clamorosamente sbilancia il rapporto tra le parti. È nota la condizione di inferiorità processuale in cui si trovano i vari ‘comitati’ o le associazioni di cittadini che decidono di opporsi a iniziative reputate nocive o addirittura pericolose per la salute, la sicurezza, i più che leciti interessi di un’intera comunità? Gli esorbitanti costi processuali, lo stesso sistema dell’appello e del ricorso in Cassazione, la possibilità di prolungare la durata ‘ragionevole’ del giudizio con vari pretesti ed espedienti, finiscono spesso per scoraggiare i cittadini che hanno destinato al giudizio parte delle loro già limitate risorse.

L’eguaglianza, si sa, è un dato formale che spesso non corrisponde alla realtà.

Soyez partiaux !’ dunque ? Il giudice può fare poco, in questa direzione. È vincolato dalla legge, dalla capacità del soggetto più forte e autorevole di ricorrere a tutti gli espedienti, a tutti i cavilli che la legge mette generosamente a sua disposizione. Solo in certe situazioni ed entro molti limiti egli può indursi – per essere davvero imparziale – a modesti gesti di favore verso la parte clamorosamente più debole. Anche le soluzioni adombrate da Pellizzetti (individuare forme di coinvolgimento dei singoli amministratori; subordinare la partecipazione alla causa a una cauzione destinata a essere incamerata dalla parte risultata vincente, e simili) non sembrano praticabili sul piano normativo e sarebbero comunque avviate a un rapido destino di incostituzionalità. Quella che può proporsi, piuttosto, è la possibilità di un intervento del Pubblico Ministero – come si dice – ad adiuvandum. Il Pubblico Ministero, infatti, non si limita a esercitare l’azione penale. L’articolo 69 del Codice di Procedura Civile prevede che il PM eserciti l’azione civile ‘nei casi stabiliti dalla legge’. La norma è pensata per garantire la tutela di situazioni di interesse collettivo che non sempre possono essere adeguatamente affrontate dai privati. Nei casi c.d. di intervento facoltativo, il PM è legittimato a intervenire ove ravvisi un eventuale interesse pubblico. Un’alternativa – anche se di meno facile attuazione – potrebbe essere la costituzione di un ‘fondo’ speciale cui ammettere la parte ‘debole’ che abbia adeguatamente giustificato la propria iniziativa in termini di interesse pubblico.

Funzione analoga potrebbe essere svolta, nel processo amministrativo e in presenza di un preciso interesse pubblico (ambiente, sanità, tutela del patrimonio culturale), dall’Avvocatura di Stato.

MM

La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”

Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Mauro Giampaoli, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Pierfranco Pellizzetti, Getto Viarengo.

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Hanno scritto per noi (tra gli altri):

Andrea Agostini, Marco Aime, Franco Astengo, Arnaldo Bagnasco, Enzo Barnabà, Giorgio Beretta, Marco Bersani, Sandro Bertagna, Marco Baruzzo, Pierluigi Biagioni, Pieraldo Canessa, Alessandro Cavalli, Riccardo Degl’Innocenti, Roberto Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Luca Gazzano, Antonio Gozzi, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Maddalena Leali, Giuseppe Pippo Marcenaro, Antonella Marras, Fioriana Mastrandrea, Andrea Moizo, Anna Maria Pagano, Paola Panzera, Marianna Pederzolli, Roberta Piazzi, Enrico Pignone, Bruno Piotti, Paolo Putrino, Bernardo Ratti, Adrano Sansa, Ferruccio Sansa, Carla Scarsi, Sergio Schintu, Mauro Solari, Piera Sommovigo, Giovanni Spalla, Angelo Spanò, Giulio A. Tozzi, Gianmarco Veruggio, Moreno Veschi.

POSTA

Riceviamo dall’amico Agostini questa accorata denuncia dell’ennesimo attacco al Parco dell’Acquasola, il più importante polmone verde del centro cittadino genovese. Indecente operazione che rivela ancora una volta la cultura del nostro sindaco, americanista avendo fatto l’impiegato negli States (in Kodak, poi fallita): l’obbrobrio liberista secondo cui un bene comune che non abbia il cartellino del prezzo non vale niente. Vergogna!

Nuove minacce per l’Acquasola. Il vandalismo dei nostri amministratori non conosce limiti

Ci stanno riprovando. In barba alla legge 394 del 1991 e al regolamento dei parchi storici di Genova e senza dire nulla alla sovrintendenza, hanno permesso agli automobilisti che frequentano il tribunale di parcheggiare dentro al parco dell’Acquasola.

Noi non intendiamo fargliela passare liscia e abbiamo indetto una manifestazione presidio venerdì mattina alle 8 al parco dell’Acquasola. Se vuoi difendere il parco e il verde in città e non vedere bambini e anziani circondati dalle auto vieni a darci una mano.

L’Acquasola è un parco, non un parcheggio.

Associazione comitato Acquasola, Circolo Nuova Ecologia, Italia nostra

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Il nostro CAM invia alla redazione questa diapositiva di una Genova underground, ignota ai più

Genova a luci rosse

Qualche buona notizia. C’era una volta un cinema a luci rosse in via Balbi. Poi venne il porno di Internet e l’onanismo tra le proprie mura iniziò il suo trionfo mentre per gli incontri tra centro storico, salon de massage e periferie varie è rimasto l’imbarazzo della scelta. E il cinema Gioiello chiude. Poi una coppia di geniali scalmanati decide di comprarlo all’asta e di farne uno strano club, il Play Hard (Gioca Duro) dove ci si può trovare davanti di tutto, da un evento di musica e letteratura a Gola Profonda: hip hop, cultura underground e vintage. Spero che resista, Genova si meriterebbe un po’ di sana bizzarria. Tra queste, come seconda notizia, non può essere trascurato il tampone solidale che è in funzione ai Giardini Luzzati. Non quello del Covid, ma proprio quello del ciclo mestruale. Una tampon box dove chi ne ha uno lo lascia e chi ne ha bisogno lo prende. E chi lo ha ideato ha detto che partendo da lì, vuole “riempire la città”. Credevo fosse una goliardata, ma se c’è proprio bisogno di un’iniziativa del genere, chi sono io che non ne uso? Però sommessamente suggerirei che sarebbero più utili i pannoloni, quelli per anziani incontinenti e indigenti; meno rosa, più equi e trasversali.

CAM

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Riceviamo dai movimenti del Ponente Ligure:

Territori della Cura

I movimenti e molti gruppi di cittadine e cittadini sono impegnati sull’urgenza e sulla necessità di “prendersi cura” del territorio: un’attività ecocompatibile strutturale e ordinaria insieme, contro fenomeni di dissesto ambientale, sociale e relazionale, ma anche per attuare una conversione ecologica del sistema produttivo ed energetico, che deve colmare anni di sviluppo insensato.

Un territorio quello del Ponente ligure, fragile e ferito, soffocato da una crescente urbanizzazione, attaccato sempre più frequentemente da emergenze climatiche. Per questo lembo di Liguria prendersi cura del territorio è occuparsi delle persone che lo abitano o che lo attraversano in cerca di un domani migliore, è aver cura dell’ambiente, del paesaggio, delle infrastrutture, della storia e della bellezza che ci circonda!

Una ricchezza collettiva costituita da territorio, patrimonio, servizi e beni comuni da sottrarre alla ‘valorizzazione’ dei mercati finanziari e dell’economia del profitto.

Ne parleremo, martedì 6 dicembre alle 17:30 alla Federazione Operaia Sanremese, con Francesco Scopelliti, scrittore e attivista del centro sociale ‘La Talpa e l’Orologio’ e Marco Bersani di Attac Italia e fra i promotori del percorso Società della Cura, per comprendere quali prospettive per le comunità territoriali.

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ECO DELLA STAMPA

Pubblichiamo un’ampia sintesi dell’intervento dell’ex senatore Andrea Ranieri nel dibattito elettorale in svolgimento a Sarzana, apparso sul Secolo XIX il 16 novembre.

Guccinelli si faccia nobilmente da parte

Ho preso il solenne impegno con me stesso che non mi sarei più occupato di elezioni dopo il fallimento del tentativo del Brancaccio. Quando dovetti prendere atto che il momento peggiore sono le scadenze elettorali, in cui l’autoreferenzialità dei partiti raggiunge i suoi vertici. D’altra parte la grande manifestazione per la pace dello scorso 5 novembre mi ha convinto che il sociale- dalla CGIL, alle comunità di base laiche e cattoliche- è in grado di fare politica seriamente, più e meglio dei partiti.

Ma la situazione della città in cui sono nato, Sarzana, alla vigilia delle elezioni della prossima primavera, mi spinge a fare un’eccezione a tale impegno. Sento di doverlo alla storia di Sarzana. Dove nel 1921 carabinieri e popolo uniti respinsero l’attacco fascista al Comune socialista. E anche a mio padre, che di Sarzana fu sindaco dalla liberazione al 1972. Qui il PCI, alleato col PSI, ebbe a lungo una maggioranza schiacciante. Non mi fa dormire il pensiero che oggi vi governa la destra. Per cui è con grande piacere e qualche speranza che ho letto l’appello di oltre duecento giovani under 35 che si propongono di impegnarsi per ridare senso e valore alla politica, di riunificare la sinistra a partire da un programma con al centro l’ambiente, l’inclusione sociale, la lotta alle diseguaglianze, un futuro che faccia tesoro del meglio della storia civica. Hanno espresso persino un possibile candidato. Un giovane di 29 anni che politica l’ha fatta con Libera, a livello locale e in giro per l’Italia a contrastare camorra e mafia, impegnato contro la marginalità sociale e culturale.

Mi sarei aspettato che il PD, dove si parla di rinnovamenti radicali, e i 5S per cui l’unità può nascere solo sui programmi, dessero a questa proposta l’attenzione che merita. 200 giovani appassionati e consapevoli, disposti a un impegno in prima persona, dovrebbero essere considerati da una politica che ripensasse la propria identità, la propria missione. E invece… Il PD discute se ricandidare il sindaco di 20 anni fa, già assessore regionale nella non certo esaltante giunta ligure di Burlando, e i 5stelle sembrano orientati a presentarsi da soli; scelta comprensibile se il PD presentasse quel candidato, incomprensibile se riuscissero ad affermarsi le proposte dei giovani. Aprendo in questo modo la strada a un’altra vittoria della destra. Nel tragicomico teatrino in cui i candidati rifondatori hanno la stessa faccia degli affondatori.

Nella mia vita politica mi sono quasi sempre trovato in minoranza. Nei DS, nel PD fino a quando non me ne sono andato perché incompatibile con Renzi e il renzismo dilagante, persino in Sinistra Italiana, e tuttavia mi sento corresponsabile, in Italia come a Sarzana, di ciò che avrebbe reso ancora più angosciante gli ultimi anni di vita di mio padre, morto nel 2011 a 98 anni: vedere i post fascisti al governo dell’Italia e della nostra città.

Renzo Guccinelli, il candidato verso cui il PD pare orientarsi, non è stato fra i peggiori di quelli che hanno contribuito a disperdere il grande patrimonio di cultura e di lotta della mia città. È stato anzi un buon sindaco. E tuttavia non può non sentirsi anche lui, come me, fra i responsabili del disastro. Si faccia nobilmente da parte. Lasci siano nuovi quelli che provano a ridare senso all’azione politica ed amministrativa. Sono disposto a dargli il posto che merita in una associazione che penso di fondare, simile a quella degli “alcoolisti anonimi”, che si propone di mostrare agli intossicati della politica politicata che ci sono tanti altri modi per vivere bene e persino fare politica.

Andrea Ranieri

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FATTI DI LIGURIA

Disarmo e natura, per un’economia di pace

I cambiamenti climatici sono un tema esistenziale per l’intera umanità, una emergenza quotidiana ad ogni latitudine e longitudine del pianeta. Le guerre sono indissolubilmente intrecciate con la catastrofe eco-climatica in corso e sono guerre contro la terra perché minacciano la vita e producono emissioni destinate ad avere un profondo impatto sul clima, peggiorando una situazione già tragica (si stima che gli apparati militari e bellici, non regolamentati in nessun accordo sul clima, siano responsabili del 5% di emissioni di anidride carbonica). Il recente 21 ottobre si è svolto a Sanremo l’incontro sul tema “Disarmo e natura per un’economia di pace”. Le relazioni hanno evidenziato che le emissioni del settore militare sommate agli effetti dei conflitti armati, si intrecciano con più di cento guerre che hanno all’origine le ragioni climatiche. Gli eventi estremi che avvengono in ogni angolo del mondo (la siccità, le inondazioni, le erosioni dei ghiacciai, ecc.) insieme ai fenomeni di cementificazione dei suoli, di sovrapproduzione e sovra estrazione delle risorse, impattano tragicamente con il degrado dei servizi eco-sistemici ospitati nei territori, causando erosione dei redditi, dei diritti, della salute e della dignità umana. I cambiamenti climatici divengono moltiplicatori di instabilità, conflitti e migrazioni, che producendo il collasso della coesione sociale e relegando l’ambiente in secondo piano incidono sul peggioramento dei cambiamenti climatici. Siamo immersi in un’economia di guerra anche prima del conflitto in Ucraina. La guerra che si combatte già da tempo in Europa è quella contro i migranti, nell’Est, nel Mediterraneo, sulle coste spagnole e nelle mille rotte seguite per il diritto a migrare. Nelle nostre economie occidentali, apparentemente di pace, sono presenti tutti i semi di un’economia di guerra. Un’economia, strangolata dalla trappola del debito e che si nutre di rapporti commerciali asimmetrici, di dipendenza nei beni e servizi essenziali, di rapporti subordinati. Nulla può essere difeso in una logica di corsa agli armamenti, mentre tutto può essere perso nella dialettica di un confronto armato. È necessario utilizzare una nuova lente di osservazione che metta al centro un’economia della cura e della pace. È possibile farlo a partire dalla conversione ecologica delle industrie belliche e di tutte le produzioni ad impatto ambientale. Non comprendere nel calcolo del PIL le produzioni degli armamenti in quanto funzionali alla belligeranza. Orientarsi totalmente verso le energie rinnovabili e potenziare l’economia pubblica che non concepisca il lavoro come costo da abbattere, ma ricchezza da valorizzare. Un’economia orientata al benvivere. I nuovi processi sociali dovranno sempre più fare i conti con disarmo, natura e accoglienza: il DNA di una società futura.

MG

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FATTI DI LIGURIA

La sorte di Acciaierie d’Italia preoccupa Cornigliano

La VdCP si è già occupata in passato delle problematiche connesse alle Acciaierie d’Italia (ex ILVA) di Cornigliano; ora i recenti (15.11.22) avvenimenti di Taranto sono degni di essere esaminati per le loro ricadute negative sullo stabilimento di Cornigliano (ma anche di Novi). Questi avvenimenti riguardano lo stop operativo imposto dalla Direzione a 145 aziende subappaltatrici. Tralasciando il gravissimo aspetto occupazionale locale, è preoccupante pensare che le ditte operavano prevalentemente nelle manutenzioni e nella sicurezza. Possiamo immaginare il degrado conseguente a questa situazione. Le responsabilità sono peraltro anche dell’azionista pubblico (per il momento sotto il 50%) che a giugno 2022 ipotizzò una ricapitalizzazione di un miliardo di euro mai erogato. Tipica presbiopia italiana: si traguarda cosa accadrà di qui a 10 anni ma non si riescono a fare cose che servano la settimana prossima.

Come noto Cornigliano (ma anche Novi) produce rotoli di lamierino (coils) rivestiti (zincati, verniciati, latta, etc.) utilizzando rotoli prodotti a Taranto e trasportati via mare a Genova. La mancata ricapitalizzazione, il prevedibile futuro degrado dovuto a quanto sopra contribuirà a fare diminuire la produzione tarantina, inoltre i problemi di cassa di Acciaierie d’Italia la spingono a mettere direttamente sul mercato i coils non rivestiti prodotti a Taranto (i cosiddetti coils neri), infatti il tempo di produzione del “nero” è molto più breve del ”reivestito”; quindi, vendendo il non rivestito, la fatturazione della vendita avviene con anticipo migliorando i conti. Vale la pena di citare che Taranto “potrebbe” essere in grado di produrre, se correttamente aggiornato tecnologicamente, circa 8 milioni di tonnellate di acciaio mentre ora ne produce da tre a tre e mezzo. Parimente, la linea latta di Cornigliano potrebbe produrre (e vendere) circa 200.000 tonnellate all’anno ma è ferma a non più di 150.000 t/a per carenza di rotoli da Taranto.

La lunga premessa qui sopra per inquadrare il problema e per concludere che, salvo interventi risolutivi, Cornigliano (ma anche Novi) andrà a breve in asfissia produttiva per mancanza di materia prima. Il mitico e troppe volte invocato Accordo di Programma stipulato nel 2005 (17 anni or sono – sic) aggiornato poi nel 2014 (8 anni or sono – sic) non è in grado da solo di risolvere i problemi industriali e occupazionali. Se non si “produce” non c’è occupazione che tenga, e senza materia prima non si produce. Quindi, non solo i lavoratori attualmente in forza (seppur in parte in CIG) andranno via via a spasso, ma anche il recupero di quelli ora (ma da anni) destinati ai cosiddetti “impieghi socialmente utili” non potranno essere riassorbiti. Ecco, dopo le vicende Ansaldo, la prossima bomba occupazionale e produttiva genovese potrebbero essere le Acciaierie di Italia. Inutile e demagogico che le nostre amministrazioni locali (Comune e Regione) si divertano a dissertare, guardandosi l’ombelico, su fantasmagorici progetti di funivie, skymetro e tunnel sottomarini. Come sono “fantasiose” le ipotesi del Comune circa l’installazione di realtà produttive da Silicon Valley “se solo l’ex ILVA lasciasse libere le aree”. Se la città non produce, creando valore, la città muore. I politici genovesi/liguri recentemente eletti a Roma faranno qualcosa per Genova?

Roberto Guarino

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FATTI DI LIGURIA

Palazzo San Giorgio ha dato i numeri

Port Authority di Genova e Savona pubblica finalmente i dati dei traffici sino a settembre: sommando Savona con Genova si riesce a confermare la solita conclusione che il sistema portuale del Mare ligure occidentale comunque cresce e prospera. Ciò che manca a tali analisi è la prospettiva, sia nell’esame della serie storica, sia nelle proiezioni su cui basa gli investimenti strategici per il futuro, sia uno sguardo comparativo sui porti concorrenti nell’Alto Tirreno.

Partiamo dall’andamento 2007-2022. La Tabella 1 riporta i traffici di Genova secondo il tasso annuo di crescita composto (CAGR) e coglie lo stentato andamento delle merci.

Tabella 2: confronta con il resto dei porti nello stesso bacino di utenza, assumendo i teus movimentati come unico indicatore usato da Palazzo San Giorgio per giustificare i propri orientamenti. In 5 anni il traffico dell’alto tirreno è rimasto immutato, ma con una crescita cospicua di Savona-Vado a fronte di un decremento pressoché pari di La Spezia e Genova. E rispetto al totale nazionale la quota complessiva diminuisce sensibilmente.

Infine, il futuro. Nell’analisi costi-benefici allegata al progetto della diga foranea si prevede la crescita dei container nel bacino di Sampierdarena con l’arrivo delle mega-portacontenitori grazie alla nuova infrastruttura (nel 2026 è prevista l’entrata in funzione della diga e quindi il salto di rendimento). Secondo le stime conclamate da Palazzo San Giorgio da qui al 2045 i teus movimentati a Sampierdarena

cresceranno a una media annua di 2,7% con un valore finale di 2,4 mil di teus. Ma la partenza nel 2022 a 1,3 mil. è già contraddetta dalla attuale proiezione di 1,08 mil.: la crescita del Terminal Bettolo è annullata dal calo costante del Terminal PSA Sech; che abbassa a -8,3% le stime ottimistiche dell’AdSP su cui basava il Piano Organico di un anno fa.

Insomma, un futuro che si presenta in salita, altro che 6 milioni teus.

Ma il Presidente Signorini si è compiaciuto in un’intervista dell’interesse per Genova degli oligarchi dello shipping (MSC, Hapag, PSA), spiegandone la presenza col fatto che il porto dà “evidenti segnali di crescita e affidabilità”. Nessun dubbio sulla crescita, ma solo degli investimenti pubblici. In pochi anni lo Stato ha speso tra Genova e Savona oltre il doppio di quanto le imprese hanno fatto in quasi 30 anni dalla privatizzazione delle banchine. Sarebbe interessante calcolare il valore restituito nel frattempo e in tasca a chi è andato. Ma sono numeri sui quali non c’è la volontà politica di fornire. Dati reali ignorati per non gettare ombre sulla strategia di autocelebrazione a fronte di una spesa pubblica abnorme; a favore di un modello rigido e univoco di sviluppo, basato sull’equazione infantile diga grande = grandi navi = grandi player = grandi volumi di trasporto. Come se i noli imposti dagli oligarchi dell’armamento in questi anni non dimostrassero che si possono ottenere profitti maggiori anche con meno volumi: ciò che conta è la redditività grazie alla posizione egemone di oligopolisti, che ora si estende sui terminal portuali e la logistica inland. Quando i dati storici e le tendenze indicherebbero la necessità che gli investimenti pubblici, insieme ai conseguenti privati (la ratio del patto concessorio), siano messi al servizio di un modello di porto polifunzionale e polispecialistico, come è sempre stato nella sua storia, sviluppando così anche il relativo cluster dei servizi e delle professioni. Per cui, se i volumi di container crescono a ritmi blandi e incostanti, tanto più occorre ricavarne il massimo utile sociale per il territorio. Che non è farli transitare celermente.

Riccardo Degl’Innocenti

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FATTI DI LIGURIA

Genovese, antico idioma di un crocevia mediterraneo

Il Mediterraneo è un mare piccolo, abbracciato da terre e continenti che portano le culture del mondo verso i più distanti punti cardinali, ma l’idiozia di alcuni lo vorrebbero blindato, chiuso: dove ognuno resti a casa sua! Eppure per secoli ci siamo parlati e non poche parole della nostra lingua ligure sono la più bella rappresentazione di questi scambi culturali. Una nota trasmissione televisiva provocava un acceso dibattito, ponendo una semplice domanda a tanti intervistati casualmente per strada: siete favorevoli ad utilizzare i numeri arabi? La repentina domanda non avviava una pacata riflessione storica, ma cancellava in un sol colpo i pitagorici e i millenari calcoli per incolonnare i numeri e fare tutti i conti di cui siamo oggi capaci. È grazie agli arabi che possiamo contare, sottrarre, moltiplicare e dividere! Coi numeri romani, quasi nessuno riesce a indicare la data su un’epigrafe, eravamo inchiodati ad una poco razionale classicità che ci avrebbe impedito qualsivoglia calcolo. Quel grande mare, i luoghi più lontani dove i liguri si spingevano per commerciare, riportavano altrettanti prodotti e parole nuove, innovative. Dalla Turchia ci giungeva una parola, forse un po’ contradittoria per noi genovesi, giabba: avere senza pagare, gratuito; giaba etmck: dare gratis. Chissà nei tanti depositi di frontiera, di porto franco come era considerato dagli attenti contabili della Serenissima il donare a gratis, forse parola poco raccomandata, ma così attraversava il mare e giungeva nei vicoli di Genova. Dai più lontani approdi giungevano tele stampate, drappi che adornavano le nostre case, spesso finivano abilmente plissettati a decorare le nostre donne genovesi: erano i Meizao, dall’arabo mizar che significa velo, drappo, quadrato di stoffa. Queste tipologie commerciali erano talmente apprezzate da divenire un oggetto di culto e gli abili artigiani riproducevano nuovi soggetti: l’albero della vita, u macaccu (la scimmia), i rami fioriti, soggetti da rimanere sino ai nostri giorni per decorare e arredare i soggiorni e letti nunziali. C’erano poi i mitici camalli, braccia possenti e ganci per acchiappare i più pesanti sacchi di juta e scaricarli in banchina. La dizione deriva dall’arabo hammal che significa facchino, da noi diventava un termine-mito per quanti operavano nel porto di Genova. Non posso dimenticare uno dei più belli dei fonosimboli della parlata dialettale ligure: ramadan! Ancora oggi, durante le sparate di luglio a Rapallo, i fuochi terminano col ramadan, una sequenza abilmente posizionata di migliaia di mortaretti, tiracannone e cannoni, in un crescente e travolgente scoppio: u ramadan! L’uso di questo termine non ha mai voluto creare polemiche col periodo di digiuno e preghiera musulmano, ma solo prenderne in prestito una parola così rumorosa per affidarle il termine che tuttora le indichiamo. Se poi ci sediamo a tavola, oggi indicato come luogo alimentare d’assoluta sovranità, siamo travolti da termini buonissimi e capaci di rappresentare appieno la nostra cultura: itryah (le trenette), u scucussun (tutt’oggi prodotto per cuocere nel minestrone), zabīb (o zibibbu per il pandolce). Per concludere una citazione sulle origini del basilico, il migliore è quello dop di Prà, ma i botanici ci rammentano che è giunto dalla lontana India.

GV

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FATTI DI LIGURIA

La grottesca vicenda dell’appalto per l’ospedale Felettino

È stata effettuata la prima seduta pubblica con l’apertura delle buste per la verifica delle offerte per quanto riguarda l’appalto del nuovo ospedale Felettino della Spezia.

L’offerta pervenuta è quella della Guerrato spa, società specializzata in edilizia ospedaliera nata nel 1935 con sede a Rovigo. Ancora una volta una sola offerta come 7 (sette) anni fa, durante la prima gara indetta dalla giunta Burlando, aggiudicata allora alla ditta Pessina.

Appalto che Toti fece saltare per motivi mai ben chiariti e per i quali è in piedi una causa per la richiesta di risarcimento contro la Regione Liguria.

Nel 2020 Toti mette a punto una nuova tipologia d’appalto attraverso un project pubblico-privato: un’opera da oltre 264 milioni, coperti per 104 milioni da risorse statali, 74 mila euro dalla Regione e 86 milioni dal privato: risorse che dovrebbero essere riconosciute in 25 anni al privato dalla Asl5 con un canone di circa 16 milioni all’anno, comprese le manutenzioni. Nella nuova gara, a differenza della precedente, non è compresa la permuta dell’attuale ospedale Sant’Andrea.

La perdita per la ASL 5 e per la comunità locale è enorme. La ditta non ha, a differenza di quanto previsto da “quelli di prima” l’onere di accettare il vecchio S. Andrea in permuta come pagamento, ha un appalto molto più alto e finanzia l’opera con 86 milioni, che però la ASL (cioè le tasche dei cittadini) dovranno risarcire all’incredibile interesse dell’8% per 30 anni.

Quindi 480 milioni a fronte di un prestito di 86 milioni con un utile di circa 400 milioni. Chi non farebbe volentieri un simile prestito? Tra l’altro la Regione di Toti non prevede l’utilizzo di contributi del PNRR che pure ci sono, come non pensa a un prestito con Cassa Depositi e Prestiti al tasso dell’1%. Alla società aggiudicatrice dell’appalto, Toti, generosamente, aggiunge un gentile omaggio, impegnando la Regione e la ASL a garantire alla società stessa la gestione dei servizi non sanitari (Mense, pulizie, manutenzione impianti, guardianaggio, ecc.)

Qualcuno dovrà pur spiegare ai cittadini e – ci auguriamo – alla magistratura perché preferisce pagare l’8% di interessi a un privato invece di accendere un mutuo all’1%? Persino un normale mutuo bancario sarebbe molto più convenienti dell’operazione di Toti. La Liguria di Giovanni Toti ha rinunciato a parte di 178 milioni di finanziamento pubblico. Questo dovrebbe essere spiegato pubblicamente. Perché la Regione Liguria ha deciso di rinunciare al contributo a fondo perduto dello Stato? A cosa servono quei soldi che i cittadini della provincia della Spezia dovranno sobbarcarsi per trent’anni?

NC

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FATTI DI LIGURIA

Ponente: parte la campagna Riprendiamoci il Comune!

Dopo decenni di politiche liberiste e di austerità che hanno impoverito le comunità locali, ingabbiato i Comuni dentro la trappola del patto di stabilità e del pareggio di bilancio finanziario minando la loro storica funzione pubblica e sociale, ha preso il via in queste settimane anche a Ponente la costruzione di un comitato per la Campagna ‘Riprendiamoci il Comune’. È il percorso di una serie di realtà associative, che attraverso la proposta di due leggi d’iniziativa popolare intende trasformare Comuni e comunità territoriali in un nuovo modello in grado di rispondere alle crisi sociale ed eco-climatica. Due proposte capaci di promuovere i diritti delle comunità territoriali, con una profonda riforma della finanza pubblica locale e la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per consentire l’accesso a finanziamenti a tasso agevolato.

Ad esempio: una comunità sceglie democraticamente le priorità d’intervento tra le opere da realizzare nel proprio territorio. Le opere scelte – un asilo nido, la messa a norma degli edifici scolastici, la sistemazione idrogeologica del territorio, la ristrutturazione della rete idrica ecc. – vengono finanziate attraverso il risparmio dei cittadini, affidato alla CDP territoriale. Poiché questi risparmi hanno un rendimento minimo, la CDP potrà erogare le somme a un tasso agevolato. La comunità, che ha operato le scelte delle opere e le ha finanziate con il proprio risparmio, avrà una naturale propensione a controllare tempi e qualità delle opere, evitando sprechi e corruttele.

Avremmo ottenuto: l’aumento della partecipazione e della democrazia; la realizzazione di opere d’interesse generale; la possibilità di finanziamento fuori dal circuito speculativo bancario e finanziario; l’aumento del controllo democratico sulle procedure e sull’esecuzione; la crescita della coesione sociale.

Un bisogno avvertito dalle cittadine e dai cittadini squassati anche a Ponente dalle tante questioni che investono il territorio. La vicenda di Rivieracqua, l’azienda erogatrice dei servizi idrici, ne è la metafora, con il tradimento dell’esito referendario e l’ingresso del privato nella gestione. Per non parlare della continua esternalizzazione di asili nido, con sempre più amministrazioni che dismettono la gestione diretta dei servizi educativi per aggirare i vincoli della spesa del personale. Il funesto tentativo fallito di privatizzare l’RSA Casa Serena, per finanziare il ripristino della rete fognaria, che ha creato sgomento nell’intera comunità sanremese e ha riproposto il tema delle svendite dei beni patrimoniali per fare cassa. La grande colata grigia che già in passato, in un territorio estremamente fragile, ha riguardato i centri urbani e più di recente le coste, continua a consumare suolo. A Taggia la realizzazione di un Ospedale che sostituirà i due esistenti, in un’area a rischio idrogeologico, completa un processo urbanizzativo in poli commerciali e di servizi per aree a naturali vocazioni agricole.

Non si può curare il territorio conferendo nuova edificabilità. Ancora una volta un progetto che contraddice le necessità messe in luce dall’emergenza sanitaria, dopo anni di tagli e la privatizzazione dell’Ospedale di Bordighera, che ha comportato il declassamento del Pronto Soccorso a Punto di Primo Intervento. Infine il tema dell’indebitamento degli Enti Locali, i cui oneri finanziari pesano in maniera rilevante sulla parte corrente dei bilanci, anche per i tassi di interesse bancari, a partire da quelli della CDP, molto superiori a quelli di mercato.

È tempo di cura, non di profitti!

MG

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FATTI DI LIGURIA

Un Covid di genere

“Ora basta! A chi evidenzia il lato buono dell’isolamento e dello smart working, ricordando che Shakespeare e Newton hanno realizzato alcune delle loro opere migliori mentre l’Inghilterra era devastata dalla peste, c’è una risposta banale: nessuno dei due doveva curarsi dei figli”, ha detto Helen Lewis in “The Coronavirus is a Disaster for Feminism

Articolo interessante, e certamente in ottima compagnia per quanto riguarda le botte in testa che le donne (o chi per loro si occupa della “cura”) si prendono perfino dal Covid.

Non avendo più i servizi essenziali, qualcuno ha dovuto fermarsi dal lavorare per accudire i bisognosi, minorenni o di terz’età. Ragionevolmente si è fermato chi guadagnava di meno. E Istat ci conferma che le donne guadagnano in media il 15% in meno degli uomini: “Nel 2018, nell’UE le donne hanno guadagnato il 14,8 % in meno degli uomini”. Nel 2020 il divario retributivo era sceso al 13%, (16% secondo il Parlamento Europeo…), ma è dal 1957 (con il Trattato di Roma) che aspettiamo di raggiungere una parità…

La differenza percentuale prende in esame soltanto i lavori di pari livello, ma “le donne sono più propense ad avere interruzioni di carriera: nel 2018, un terzo delle donne occupate nell’UE ha subito un’interruzione del lavoro per custodia dei figli, rispetto all’1,3% degli uomini”. Un terzo! Una su tre delle figlie che stiamo faticosamente aiutando a studiare non riuscirà a svolgere una professione perché dovrà occuparsi di “responsabilità famigliari”.

Il carico di lavoro portato prima dalle liberalizzazioni spinte di qualunque servizio (ex) pubblico e poi dall’emergenza Covid è ricaduto in maggior parte sulla schiena delle donne. Consultori, asili, doposcuola, medicina territoriale, residenze per anziani… Servizi che sono venuti a mancare portando l’impegno a curarsi degli altri ancor più pesantemente sulle donne.

La pandemia ha amplificato tutte le disuguaglianze esistenti, e uno degli effetti più immediati del Coronavirus è stato quello di far tornare molte coppie indietro di decenni, perdendo quel poco di indipendenza faticosamente conquistato.

Non vediamo l’ora di conoscere i dati del ricalcolo del divario retributivo Dopo il Covid!

Carla Scarsi

Spigolature1: Nel 2020, il divario pensionistico di genere era pari a oltre il 37% nell’UE, cioè invecchiando le donne sono infinitamente più povere. Sciocche! hanno perso tempo a occuparsi (gratis) degli altri!

Spigolature2: Il Parlamento Europeo ha approvato una Risoluzione sul divario retributivo di genere sono previsti interventi “ambiziosi” (i precedenti non hanno – ahimè – sortito l’effetto sperato).

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FATTI DI LIGURIA

Genova, pubblicità regresso

Purtroppo penso vi ricordiate dello spot di Elisabetta Canalis sulla Liguria. Dal suo attico newyorchese ciacolava di una regione inesistente, fatta di glamour, accoglienza e vita notturna. Oltre 200.000 euro dei cittadini presi e buttati nella spazzatura. Ma lei, giustamente, manco sapeva di che cosa parlava, l’hanno pagata profumatamente e avrebbe detto anche che a Boccadasse ormeggiano gli yacht e che Genova è una città zero waste, cioè libera da rifiuti in mezzo alla strada. A tale proposito, i nuovi contenitori, dal buco stretto e con bottone da premere agli orari corretti, hanno rotto “u belìn” a tutti. Infatti se prima si cercava almeno di buttare la rumenta nei bidoni, ora i più la lasciano fuori. Cinghiali e topi ringraziano. Ma torniamo allo spot dello scorso anno, dove tutta Genova era festosa, allegra e Briatore-dipendente con calici di champagne bevute da ridanciane modelle. Capisco che la pubblicità non possa far vedere le scempiaggini, come il parco dell’Acquasola diventato un posteggio di auto per i dipendenti del ministero della Giustizia. Tutto regolare (si fa per dire) grazie a una semplice ordinanza del Comune, in spregio all’unica zona di verde nel centro del capoluogo, dove i bambini e mamme trovavano un’oasi pulita per camminare e giocare. Si è perfino opposto il Municipio del Centro-Est, tra l’altro dello stesso colore del Sindaco, quel verde-nero-marrone, il pot-pourri della destra attuale. Capisco che la pubblicità non mostri le serate, ben poco glamour, di Sampierdarena, dove dopo le dieci di sera vige una sorta di coprifuoco per le famiglie, a causa di bande di giovani gangster che si picchiano tra loro per divertimento o per controllare il quartiere a scopi di spaccio e altro. Capisco infine che si nascondano le famose buche dove inciampano pedoni e scooter, o i clochard che di notte dormono sotto i loggiati e i sottopassi della foce, senza che intervenga nessuno per aiutarli. È già tanto che non vengano presi a calci nel di dietro come auspicava nel 2019 il nobile Stefano Garassino, trombato alle scorse elezioni con sole 222 preferenze. Si vede che anche nei circoli leghisti esiste un limite. Non capisco neanche perché Genova si sia beccata una bella (ironia) pubblicità da parte della trasmissione Non è L’Arena, su La7, sull’uomo ucciso da una freccia. Con un Giletti esagerato che alla fine diceva “Non metterò mai più piede nel centro storico di Genova”. Ragioni opposte denunciate poi da parte di chi ci abita con richiesta di scuse al conduttore. Tutto legittimo, dalla denuncia della trasmissione alle proteste degli abitanti. Questo però dovrebbe far riflettere chi ci governa: basta spot idioti e ridicoli. Utilizziamo il denaro pubblico per il ripristino architettonico, per la pulizia, per il recupero sociale, per il fabbisogno culturale, di quello che è il più grande complesso medievale europeo. Il PNRR poteva servire anche a questo. Ma forse lasciarlo in questo stato di abbandono giova agli immobiliaristi speculatori, in combutta affaristica anche solo per gemellaggio ideologico con i nostrani sceriffi di Nottingham. Adesso capisco.

CAM

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FATTI DI LIGURIA

Gli scorsi due numeri della news avevano affrontato il tema del centro storico di Genova e delle minacce che incombono sul suo futuro. Oggi ospitiamo l’opinione al riguardo di Adriano Sansa, sindaco della città dal 1993 al 1997.

Centro storico, il cuore della città

Andarci, viverci. Girare le botteghe. Frequentare circoli culturali, conferenze, teatro. Librerie. Aprire spazi a chi ha idee, iniziative: il gioco degli scacchi, la musica. Sappiamo bene che non basta la polizia, per quanto sia necessaria di fronte allo spaccio dilagante e a una prostituzione invadente. Ma l’ordine nelle strade deriva soprattutto dai modi di vita diffusi, dai frequentatori, dalle relazioni con il resto della città.

Molto si può fare per correggere la decadenza in atto; naturalmente conoscendo il centro storico, ravvisandovi il cuore antico della città, credendo nella cultura che può rianimarlo.

Ed ecco: le botteghe chiudono anziché rivivere anche per il costo eccessivo dei locali, che taluni preferiscono tenere vuoti piuttosto che affittare a canoni contenuti. Perché non ricorrere a una tassazione che scoraggi queste condotte? Circoli politico culturali di lunga tradizione sono scomparsi: quello è il luogo per riaprirli, ritrovare il gusto della partecipazione convocando cittadini da tutti i municipi. Una sinistra languente dovrebbe essere la prima a cogliere l’occasione, giovando a sé stessa e alla città.

Si sta ristrutturando l’Hennebique; trascurata l’occasione di mettervi l’università, restano molte alternative e possibilità che non siano la mania dei supermercati che stanno impoverendo le vie di tutta Genova: una colpa grave di questa amministrazione comunale, che non sembra avere davvero a cuore, anzi nel cuore, il centro storico e dunque la stessa storia e la cultura cittadina, se non la cultura tout- court.

Certo sarebbe più invitante un ambiente anche fisicamente più curato e pulito, quale da tempo non è; ma la trascuratezza di questo aspetto è figlia di quella più complessiva noncuranza che si coglie nelle parole e nei silenzi degli amministratori. A loro compete almeno di dimostrare consapevolezza e conoscenza, così che stimolino le iniziative di conservazione di ciò che vale come di innovazione coraggiosa.

Vi sono stati anni di grande interesse e di appassionate discussioni sul centro storico. Se pure la pandemia può avere diradato i contatti, spento attività e consuetudini, resta possibile reagire. Anzi, è assolutamente necessario per questa nostra splendida città che sembra ora un po’ confusa mentre declina demograficamente.

Adriano Sansa

P 12

FATTI DI LIGURIA

Parliamo di democrazia territoriale, ma senza fughe tra le nuvole

Sabato 19 novembre i ragazzi di Genova che osa hanno organizzato nella sala de La Claque in vico San Donato un convegno, presentato come internazionale, sul tema nientepopodimeno che “Le città vinceranno il Neoliberismo”. Iniziativa lodevole, seppure caricata di aspettative oversize. Anche perché i relatori, annunciati come “internazionali”, hanno rapidamente scantonato: chi parlava di cooperativismo, chi di well being, chi di riduzione a 4 delle giornate lavorative settimanali (ma non era John Maynard Keynes a predicare l’orario di lavoro quotidiano di tre ore già nel 1931?).

Nel frattempo dalle nostre parti viene totalmente disatteso il vero tema politico in controtendenza rispetto a questi anni di restaurazione oscurantista: come rifondare democrazia dal basso. Appunto dalla città, ma senza inseguire fantasie gruppettare più di interstizio che di nicchia.

Anche perché – a studiarli per imitarli – sono a disposizione casi urbani di successo che, applicati qui da noi, bonificherebbero significativamente lo spazio pubblico oggi saldamente nelle mani di due corpi estranei rispetto al nostro genius loci (se vi piace, agenti di un Neoliberismo in salsa berlusconiana) quali il sindaco Marco Bucci e il presidente della Regione Giovanni Toti.

Il tema è quello della pianificazione strategica di territorio: una metodologia per uscire dalla crisi da de-industrializzazione (la cosiddetta “afflizione fordista”) sperimentata per la prima volta a Barcellona e poi applicata da una cinquantina di eurocities europee (da Lione a Stoccarda, da Londra a Lisbona): una vasta operazione di coinvolgimento di tutti gli attori civici, pubblici e privati, sotto la regia di un soggetto promotore (nel caso catalano il comune retto dal sindaco Pasqual Maragall I Mira) per mettere a punto strategie partecipate di rilancio, trainate da scelte infrastrutturate per la specializzazione competitiva. Dunque, operazioni mirate alla coesione e – insieme – alla creazione di capitale sociale per potenziare il basket di servizi alla cittadinanza. Come si legge nel documento conclusivo della conferenza Habitat II (Istambul 1996) delle Nazioni Unite, «un piano strategico consiste nella definizione di un progetto cittadino che unifichi le diagnosi, specifichi le misure pubbliche e private, crei una cornice coerente di mobilitazione e cooperazione tra gli agenti urbani».

Nel lontano 2016, prima della normalizzazione con la presidenza del fantasmatico Luca Bizzarri, Palazzo Ducale aveva promosso un ciclo di conferenze sul tema; con interventi di grandi testimoni, come il professor Patrick Le Galés della parigina Science Po o il grande architetto catalano Oriol Bohigas. Forse un’iniziativa da riportare a nuovo, nel vuoto pneumatico in cui stiamo vagolando.

PFP

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FATTI DI LIGURIA

A Sarzana si parla di politica, a sinistra

Troppi cuori e una sola capanna? Le anime della sinistra discutono il futuro, tra “recupero del socialismo” e “ritorno al sociale”. Per il dibattito “apparecchiato” dal Circolo Pertini il 21 novembre si è ritrovato a Sarzana in Sala della Repubblica un pubblico di più di 100 persone: volti della sinistra “istituzionale” e dei partiti, militanti e attivisti di lungo corso, cittadine e cittadini. A fare gli onori di casa Nicola Caprioni insieme a Pierfranco Pellizzetti, docente universitario e saggista: nelle loro parole il richiamo al superamento degli equivoci ideologici che hanno condannato la tradizione della sinistra alla subalternità al pensiero neoliberista e alla nuova destra. Se c’è un futuro, occorre cercarlo o ancora meglio costruirlo fuori dalle secche della “terza via” e facendo i conti con la propria storia, recuperando prospettive internazionali (oltre la “fortezza Europa” che tradisce le sue premesse federaliste e democratiche) e un legame con la base della società. Hanno fatto seguito gli interventi di Andrea Ranieri, già senatore e sindacalista e dei giovani sarzanesi promotori di un appello per il rinnovamento e la discontinuità del centrosinistra locale. Impossibilitato a partecipare per ragioni personali Paolo Flores d’Arcais, da cui però arriva l’annuncio di un approfondimento sul “laboratorio” politico sarzanese sul numero di MicroMega in uscita a gennaio. Numerosi gli spunti dal dialogo: sul tavolo, per tutti, resta l’urgenza di ricucire il legame tra la sinistra “in crisi” dei partiti e la sinistra “viva” nelle piazze, nelle manifestazioni per la pace e per l’ambiente, nell’impegno sociale del volontariato laico e cattolico. Andrea Ranieri ha rievocato la figura di Bruno Trentin, la sua eredità civile e il suo impegno per l’autonomia del sindacato, delineando il ritratto di una sinistra ancora presente nelle urgenze di cambiamento e di movimento grandi e piccole, anche se spesso orfane di una proiezione politica in senso stretto. Tra le personalità citate come punti di riferimento di una sinistra “della società” da abitare e interpretare, ecco Maurizio Landini, e don Luigi Ciotti, in un significativo incontro tra cultura del lavoro e una certa Chiesa “della strada”, accomunati da un’attenzione non retorica alle realtà popolari e alla domanda di giustizia sociale e ambientale. Nel grande sta il piccolo: non sono mancati i riferimenti all’attualità sarzanese, dove a sei mesi dalle elezioni la comunità della sinistra fatica a trovare una casa comune e un profilo condiviso. Forte l’appello di tutti a non schiacciare la discussione su personalismi e alchimie elettorali, ripartendo invece dal coraggio, dalla partecipazione e da una buona dose di immaginazione per riportare a casa un elettorato stanco e deluso.

Marco Baruzzo