PILLOLE
Galliera: i topini scappano ma gli zampini restano
Il C.d.A. del Galliera, il 4 novembre scorso, ha accettato le dimissioni del D.G. Adriano Lagostena, per 18 anni “uso a obbedir tacendo” – come un vero carabiniere – ma non “a tacendo morire” impiccato alle mattane dell’Ente. Ora arriva il sostituto; Francesco Quaglia, tecnico che gode di
generale considerazione. Si spera porti un po’ di buon senso nel suddetto C.d.A. dopo tutte le torte in faccia ricevute dalla magistratura per il modo sconsiderato con cui promuove i suoi programmi speculativi (con l’avvallo del Presidente, il vescovo francescano, affarista a propria insaputa). Non induce ottimismo la conferma per 3 anni del Vice Giuseppe Zampini, uno cresciuto nel culto liberista del disprezzo dei poveri e del privatismo, nonostante fosse il boss di un’azienda pubblica, l’Ansaldo. | ![]() Il vescovo Tasca in buona compagnia |
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Tasca intasca?
San Lorenzo, la cattedrale trasformata in schermo da TV commerciale che proietta spot pubblicitari. Per chi o cosa? L’8xmille alla Chiesa Cattolica (si spera evitando l’attico romano dell’ex arcivescovo Bertone)? I senza tetto o le vittime di abusi sessuali? No. Ora fa bella mostra un tonno; non la metafora di un noto politico, ma sott’olio: una scatoletta dal nome napoletano. Con la scritta, ovviamente religiosa, “creato dal mare”. Un messaggio biblico subliminale, vista la collocazione. Ora il tonno fa i suoi interessi, ma chi intasca i proventi pubblicitari? Un altro arcivescovo nostrano, come il tonno: Tasca, nomen omen quasi un presagio. Anni fa decisi di non comprare prodotti pubblicizzati in maniera impudente. Questo è uno di quei casi. E anche un suggerimento ai lettori.
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La Liguria a cui i poveri danno fastidio
Questa è la Liguria degli alloggi per ricchi al Waterfront, e Renzo Piano padre nobile e putativo. Che si vende gli ospedali ai privati (Cairo & C.) e specula sui vecchi (Galliera & C.), con la benedizione dell’arcivescovado retto dal francescano che fece voto di povertà. Verso una sanità all’americana, dove se non hai un’assicurazione privata ti lasciano morire per strada. Eppure una volta la Chiesa diceva che l’”oppressione dei poveri” era peccato che gridava vendetta agli occhi di Dio. Questa è la Liguria, dove trecento famiglie (l’1% della popolazione), nella ricca Rapallo dai bilanci dorati (vedere per credere), è in condizioni così misere da dover chiedere aiuto a empori solidali del cibo. L’ultimo creato, Op Shop, dona vestiti. E il Comune non sborsa un centesimo.
EDITORIALI
Il Rixi slinguazzato
Mio padre mi disse una volta che è meglio portare un unguento al ferito che una corona d’alloro al vincitore. Frase che gli ho rubato inserendola in uno dei miei romanzi che hanno fatto il giro del mondo. È una massima di vita che ho cercato di fare mia, per quanto possibile. Non sempre ho portato l’unguento al ferito ma la corona d’alloro al vincitore, quella no. Questa corona è a volte così pronuba al potente di turno da chiamarsi leccata di deretano, e così palese da diventare ridicola. E se il destinatario non è stupido, perfino imbarazzante. Andate a cercare sul Secolo XIX del 31 ottobre l’articolo di Sergio Menduni (una singolare rassomiglianza con l’ex ministro socialista Gianni de Michelis) che fin dal titolo “Edoardo Rixi, l’enfant prodige della Lega torna a scalare le vette romane” ricorda veline fasciste dai titoli roboanti per magnificare le gesta dei ras del partito.
![]() La foto incriminata sul Secolo XIX del 31 ottobre |
Anche la foto scelta è tutto un programma: mascella volitiva, sguardo truce e fiero, capelli stile ufficiale ariano SS (absit iniuria, Rixi non è colpevole, ma il suo parrucchiere sì), paludato ovviamente in total black. L’articolo sembra un manifesto a pagamento, e se così fosse sarebbe legittimo. Anche Luciana Littizzetto riceve compensi per esaltare le doti di una scopa, non lo fa perché ci |
crede. Ma se non è così, allora inviterei Rixi a smentire con una risata delle sue il contenuto dello stesso: non per i fatti, ma per i toni. Riporto: 1) “…appassionato di montagna…che sottintende un’attitudine alla vita: a scalare si soffre, si patisce, si è obbligati anche alle rinunce, ma l’importante è conquistare la vetta”. Eia Eia Alalà (che poi è un motto non fascista, ma inventato da D’Annunzio, monco, perché il Vate lo concludeva con Viva L’Amore) 2) “…sbanca alle regionali dello stesso anno con 2.621 preferenze. Prima rinuncia: addio Montecitorio, sceglie la sua regione”. Che uomo, che eroe, che spirito di sacrificio: Lancillotto al suo posto è una ciofeca. Le slinguazzate producono anche errori di grammatica: 3) …seconda rinuncia: il passo indietro per far posto a Giovanni Toti. Sarà assessore allo Sviluppo Economico. Ce la rifà nel 2018”. Ce la rifà? Magari, nell’enfasi adulatoria all’estensore sfuggono le regole dell’italica lingua. Avrei suggerito “ci riprova nel 2018”. 4) …si dimette e il partito decide di non andare al braccio di ferro, alle barricate per lui, pur di garantire la (traballante) continuità dell’esperienza di governo”. Braccio di ferro, barricate: anche il linguaggio rimanda alla memoria del ventennio. 5) Last but not least: “Si butta giù? Nemmeno per sogno. La lezione della montagna è ormai interiorizzata. Si ricomincia a scalare”. Nel leggere quest’ultima frase il buon Rixi deve aver fatto un gesto apotropaico. Parlare di montagna e usare la frase “si butta giù”, non è proprio adatta per chi è uso arrampicarsi su pareti rocciose e affini. Insomma, vorrei dire una parola all’onorevole (anche se lo siamo tutti, come dice Antonio nell’orazione funebre per Cesare) Edoardo Rixi. Stia attento, lei (spero che rimanga quest’uso e non sia costretto per il futuro a usare il voi, a parte quando sono a Napoli) non ha bisogno di questi florilegi agiografici: ha i suoi sostenitori sinceri, delle foto molto più significative, meno truci, ha le sue idee che porta avanti (anche se sono distanti dalle mie sono tutte rispettabili, finché restano idee e non diventano imposizioni) con determinazione. Prenda le distanze da chi usa più la lingua della penna, non le fa bene: il ridicolo è l’arma più distruttiva di ogni immagine.
CAM
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L’asimmetria di potere tra amministratori e cittadini minaccia la libertà civica
Cosa ne sarebbe del racconto biblico se Davide fosse mandato ad affrontare il gigante Golia munito di fionda ma sprovvisto di proiettili da lanciare? Avrebbe la benché minima possibilità di vittoria?
La condizione dei cittadini che intendano far valere un diritto collettivo nei confronti di amministratori pubblici o para-pubblici assomiglia molto a quella dell’eroe ebraico disarmato, specie in questa epoca di freni inibitori saltati e di corse a perdifiato all’accaparramento affaristico da parte di chi ci governa. Si veda il caso dello scontro in corso da decenni tra gli abitanti del quartiere di Carignano e il C.d.A. dell’Ospedale Galliera, intenzionato a sovvertire assetti urbani e condizioni di vivibilità in tale zona, promuovendo progetti di cementificazione spinta, attacco al verde pubblico e attrazione di flussi automobilistici. In una logica bassamente speculativa.
L’esame delle risorse a disposizione delle due parti in campo rivela la presenza di squilibri tali da configurare una condizione di vantaggio dominante a favore del soggetto pubblico; da rendere assolutamente problematica la possibilità di resistere e far valere le proprie ragioni per la controparte. Se così non è stato e il Movimento Indipendente Cittadini per Carignano continua con Italia Nostra a resistere sul campo e in giudizio (magari ottenendo significative sentenze a proprio favore) dipende dall’incrollabile volontà di non arrendersi del piccolo Davide di quartiere e dell’incredibile maldestraggine del Golia insediato nell’ospedale. Eppure i vigenti rapporti di forza parlano chiaro e proclamano la palese ingiustizia nella vicenda: ad esempio il sistema mediatico locale, asservito al partito dell’affarismo, da anni spiega che le devastazioni del Galliera vanno rubricate come ammirevole opera di modernizzazione, mentre i contestatori non sarebbero altro che biechi oppositori reazionari del progresso. Ma ciò che pesa di più, nel momento in cui lo scontro giunge nelle aule dei tribunali, sono le riserve finanziarie per sostenere le spese. Stando alle informazioni disponibili, gli esborsi dell’Ospedale hanno raggiunto dieci volte quanto versato dai cittadini. Ma con una differenza decisiva: questi ultimi hanno finanziato la difesa del quartiere attraverso l’auto-tassazione, i boss del C.d.A. attingono al pozzo senza fondo dei bilanci pubblici senza rischiare in proprio (a parte irregolarità gestionali, come incauti acquisti penalizzati dal Tar). Sicché la tattica di politici e affini per far subire agli abitanti i propri diktat è diventata standard: tirarla per le lunghe in modo da prosciugare le disponibilità dei comitati di resistenza.
Ci si chiede: è giusto tutto questo? Risponde ai criteri di una partecipazione civica democratica? No di certo. Quindi andrebbero escogitate regole che pareggiassero l’asimmetria tra contendenti. Magari stabilire in modi da definire che il board di persone alla guida del soggetto pubblico rischino anche in proprio per i danni procurati all’Ente e alla società dalla loro azione temeraria. Tema su cui il dibattito resta aperto, per cominciare ad affrontare un vulnus democratico ad oggi secretato.
Intanto si dice che gli abitanti di Val Bisagno temano di non poter fare valere le proprie ragioni contro il progetto Skymetro proprio per le disparità economiche tra loro e l’amministrazione Bucci.
Ma la democrazia non è quel regime in cui la maggioranza riequilibra col proprio numero e regole adeguate il denaro e il peso contrattuale dei pochi?
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Mauro Giampaoli, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Pierfranco Pellizzetti, Getto Viarengo.
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Hanno scritto per noi:
Andrea Agostini, Marco Aime, Franco Astengo, Arnaldo Bagnasco, Enzo Barnabà, Giorgio Beretta, Marco Bersani, Sandro Bertagna, Pierluigi Biagioni, Pieraldo Canessa, Alessandro Cavalli, Riccardo Degl’Innocenti, Roberto Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Luca Gazzano, Valerio Gennaro, Antonio Gozzi, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Maddalena Leali, Giuseppe Pippo Marcenaro, Antonella Marras, Fioriana Mastrandrea, Andrea Moizo, Anna Maria Pagano, Paola Panzera, Marianna Pederzolli, Roberta Piazzi, Enrico Pignone, Bruno Piotti, Paolo Putrino, Bernardo Ratti, Ferruccio Sansa, Carla Scarsi, Sergio Schintu, Mauro Solari, Piera Sommovigo, Giovanni Spalla, Angelo Spanò, Giulio A. Tozzi, Gianfranco Tripodo, Gianmarco Veruggio, Moreno Veschi.
POSTA
Il collega Caprioni ci gira questa lettera
Ancora a proposito del Festival della Scienza 2022 – il commento di Silvano Fuso
Caro Nicola, seguo sempre con estremo interesse i tuoi interventi su FB e leggo con piacere la newsletter “La voce del Circolo Pertini”. Generalmente mi ritrovo inoltre in perfetta sintonia con molte delle vostre posizioni. Permettimi quindi di manifestare appieno la mia sorpresa, dopo aver letto il vostro intervento “Festival della Scienza, l’ennesimo sperpero genovese” (in calce copio l’intero pezzo), apparso sulla vostra newsletter arrivata
oggi (Numero 38, 31 ottobre 2022).
Io sono membro del Consiglio Scientifico del Festival e mi ha molto stupido leggere certe vostre affermazioni del tipo: “banalizzato rimuovendo quanto ne aveva fatto un appuntamento nazionale”, “grandi scienziati sostituiti dall’IIT del fumista Cingolani”, “il profilo internazionale abbassato a fiera di Sant’Agata”, “le sale riempite con scolaresche precettate”, “lo scippo del brand da parte di altre piazze”, “Ieri ha chiuso i battenti l’edizione 2022 nella generale indifferenza”. Mi chiedo il perché di tanto accanimento gratuito. Il Festival ha festeggiato quest’anno il suo XX compleanno con uno straordinario successo di pubblico: 220mila presenze e 30mila studenti provenienti da 14 regioni. Il programma ha visto ben 300 eventi, articolati in 133 conferenze, 84 laboratori, 31 mostre, 10 spettacoli, 17 eventi speciali e 25 eventi online solo per le scuole. Sono stati ospitati 424 scienziati e personalità illustri provenienti da tutto il mondo. Oltre 500 i giovani coinvolti tra animatori e studenti del progetto OrientaScienza. 378 gli enti, le associazioni, le aziende e gli editori che hanno partecipato alla composizione del programma. 49 le location cittadine coinvolte nel programma del Festival. 1.300 classi prenotate da tutta l’Italia. Tra i relatori abbiamo avuto premi Nobel e una medaglia Fields (paragonabile al Nobel per la matematica). Mi chiedo cosa avremmo dovuto fare di più per evitare le vostre critiche. Spero vivamente che vogliate rivedere la vostra posizione in merito, alla luce di quanto comunicato.
Un caro saluto.
Silvano Fuso
Caro Dottor Fuso, non la conosco, però ho per lei rispetto visto i giudizi che le riservano comuni amici, così come nutro la massima considerazione per il CICAP (la sua associazione, fondato da Piero Angela, il più stimato divulgatore scientifico italiano). Leggo del suo sconcerto per il giudizio sul Festival della Scienza pubblicato lo scorso numero della Voce, di cui mi assumo l’intera responsabilità. Simmetricamente è per me motivo di sconforto verificare come persone certamente per bene si lascino coinvolgere nel ruolo di garanti e fiori all’occhiello da spregiudicati mestatori. I fumisti che pretendono di abbindolarci nascondendo le dissipazioni del civico patrimonio sociale da loro perpetrate. Nel caso, un evento che diede a lungo lustro al nostro territorio e che ora conosce un palese declassamento. Veniamo al concreto: quando nacque, il Festival aveva un evidente profilo nazionale (forse sarebbe più giusto parlare di “respiro internazionale”, visto l’asse Genova-New York su cui allora si muovevano gli organizzatori), oggi l’appuntamento riceve minimi riscontri dal sistema mediatico italiano; come potrebbe confermare la rassegna stampa dedicata, se qualcuno si prenderà la briga di stilarla. Non a caso. In questi anni la capacità innovativa della cabina di comando è stata pari a zero: le modalità, obsolete al tempo di internet e dell’online, del solito trittico conferenze-laboratori-mostre. Inevitabile conseguenza della composizione di tale cabina di comando, che un tempo coinvolgeva personaggi come Luigi Cavalli Sforza e ora – oltre al solito prezzemolo IIT – si riempie di rispettabilissimi quanto insignificanti operatori locali. Difatti il Festival di Genova non ha saputo presidiare la sua specificità e ora assiste impotente al fiorire di manifestazioni concorrenti in tutta la penisola: nella sola Liguria abbiamo il Festival della Comunicazioni a Camogli e quello della Mente a Sarzana, che spesso ripropongono gli stessi temi e gli stessi relatori genovesi. E questa perdita di immagine si riverbera nel crollo di interesse dei grandi finanziatori, ormai desaparecidos; tanto che i 2,5milioni del fund raising nei primi anni – a quanto è dato sapere – ora si riduce a meno dell’apporto allora erogato dalla sola Telecom (800mila euro). Ma – lei dice – siamo stati accreditati dalla presenza di 425 illustri personalità scientifiche internazionali. Di star io ne ho contate una manciata (la Medaglia Fields Viazovska, il premio Dirac 2008 Cumrun Valfa, il Nobel presente in remoto Michel Mayor…), se non vogliamo intorbidare il tema conteggiando come celebrità insegnanti o funzionari, molto spesso reclutati in sede locale.
Ultima cartuccia a favore della qualità “eccezionale” dell’evento nel Ducale (non più disponibile per intero, ma solo in parte) e dintorni: i 220mila visitatori dell’ultima edizione. A parte il fatto che riempire le sale di scolaresche precettate e i loro insegnati in gita premio non è la massima conferma di attrattività; il vero dato significativo sarebbero le presenze paganti, su cui continua a persistere il mistero; da quantificare con report rigorosamente “certificati”, stanti le risapute tendenze illusionistiche del soggetto politico beneficiato dal trionfalismo festivaliero: il duo Bucci e Toti, cantori ingannevoli di “Genova meravigliosa”.
Cordiali saluti
Pierfranco Pellizzetti
Riceviamo dall’amico Matteo Viviano, Coordinatore Genovese del Comitato Nazionale Scuola e Costituzione
Giustizia e Libertà avranno sempre i loro partigiani
La lettera sul comunismo, inviata dal Prof. Valditara [Giuseppe Valditara è il nuovo ministro dell’Istruzione, ndr] agli studenti, agli insegnanti e ai loro dirigenti, oltre a palesare il vero volto ideologico dei nostri attuali governanti, è una inammissibile violazione della Costituzionale libertà di insegnamento. Del resto, le prime preoccupanti avvisaglie delle reali intenzioni dei nuovi inquilini di Viale Trastevere si erano già rivelate nella decisione di cambiare nome al ministero della pubblica istruzione con la dicitura “ministero dell’istruzione e del merito”, facendo finta di non sapere che la scuola della Repubblica, con buona pace del dettato Costituzionale e all’insegna di una pseudo meritocrazia, non è sempre stata capace di costituire quell’ascensore sociale in grado di rimuovere gli ostacoli che hanno impedito a milioni di giovani di raggiungere adeguati risultati formativi e i scolastici. A tal proposito, basta pensare ai tre milioni e mezzo di studenti (in massima parte provenienti da famiglie culturalmente e socialmente deprivate) che negli ultimi vent’anni non sono riusciti a conseguire un diploma di scuola superiore. C’è quindi da sospettare che lor signori, come purtroppo han fatto molti dei loro predecessori, vogliano utilizzare il merito come strumento di selezione, per creare sudditi piuttosto che cittadini, vanificando totalmente il nobile monito di Piero Calamandrei sull’assoluta necessità di considerare la Scuola come un vero e proprio “Organo Costituzionale”. Venendo infine alla condanna del totalitarismo comunista, non posso che dichiararmi assolutamente concorde, ma, al tempo stesso devo ribadire che. pur non essendo mai stato comunista, non sono mai stato anticomunista, per il semplice motivo che in questo Paese, a partire dalla Resistenza alla storia di personaggi come Enrico Berlinguer, ho conosciuto un altro volto del comunismo. Pertanto, mi permetto di ricordare al Prof. Valditara e a gran parte dei componenti del Governo Meloni che se possono democraticamente esercitare il potere. lo devono soprattutto allo storico indulto voluto da quel trinariciuto comunista di Palmiro Togliatti. Fraterni saluti.
Matteo Viviano
ECO DELLA STAMPA
Il tema della rifondazione della democrazia dal basso – dalle città e dai territori – è stato rilanciato a livello nazionale da questo articolo apparso su il Manifesto del 15 ottobre. E ora comincia a ispirare iniziative anche in Liguria.
Riprendiamoci il Comune
Ha preso il via in queste settimane una serie di incontri fra reti, comitati, realtà associative e di movimento, organizzazioni sociali, finalizzati alla progressiva costituzione del comitato promotore della campagna, percorso che durerà fino a tutto il mese di novembre, mentre la campagna in quanto tale partirà a metà gennaio del prossimo anno.
Di cosa si tratta? Come insegnano le crisi plurime di questo modello -dalla pandemia, alla crisi climatica, dalla povertà all’emergenza sociale- per uscire dall’economia del profitto e costruire la società della cura occorre partire dai territori e dalle comunità locali, là dove le persone vivono e possono essere partecipi dirette della costruzione di un altro modello sociale, ecologico e relazionale. Decenni di politiche liberiste e di austerità hanno profondamente squassato le comunità locali, ingabbiando i Comuni dentro la trappola del patto di stabilità e del pareggio di bilancio finanziario e minando la loro storica funzione pubblica e sociale. La cementificazione dei suoli, la mercificazione dei beni comuni, l’esternalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici locali, i tagli alle risorse sociali sono tutte dirette conseguenze di un’idea di Comune non come luogo della democrazia di prossimità, bensì come motore della penetrazione degli interessi privatistici e finanziari dentro le comunità territoriali. Il risultato di questi processi è lo spaesamento (letteralmente, la perdita del paese, delle radici) delle persone e la trasformazione delle comunità territoriali in luoghi anonimi di individui brulicanti e rancorosi.
La campagna Riprendiamoci il Comune vuole invertire la rotta e, attraverso la proposta di due leggi d’iniziativa popolare, vuole costruire un percorso di consapevolezza diffusa e di coinvolgimento dal basso per trasformare Comuni e comunità territoriali in fulcro di un nuovo modello in grado di rispondere alla drammaticità della crisi sociale e della crisi eco-climatica.
La prima proposta di legge si propone una profonda riforma della finanza locale, sostituendo al pareggio di bilancio finanziario il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere, eliminando tutte le norme che oggi impediscono l’assunzione del personale, re-internalizzando i servizi pubblici, difendendo il suolo, il territorio e il patrimonio pubblico e dando alle comunità territoriali gli strumenti di autogoverno partecipativo.
La seconda proposta di legge si propone la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, trasformandola in ente di diritto pubblico decentrato territorialmente e mettendo a disposizione dei Comuni e delle comunità territoriali le ingentissime risorse del risparmio postale (280mld) come forma di finanziamento a tasso agevolato per gli investimenti partecipativamente decisi.
Due proposte complementari, in grado di intervenire in maniera sistemica su tutti i nodi che oggi svuotano i Comuni di ogni significato e costringono la vita delle persone dentro la dimensione della solitudine competitiva. Due proposte capaci di parlare ai diritti sociali, ecologici e relazionali delle comunità territoriali, ai diritti e ai saperi del lavoro pubblico, alla capacità di ascolto e permeabilità di quella parte di amministratori e amministratrici locali che ancora collocano la propria funzione dentro la dimensione del prendersi cura. Due proposte in grado di far convergere tutte le vertenze territoriali nel comune obiettivo di trasformare alla radice il ruolo della partecipazione, dell’autogoverno e della democrazia di prossimità. Perché non è la resilienza a cambiare il mondo, ma comunità di cura capaci di lotta e trasformazione.
Marco Bersani
FATTI DI LIGURIA
Marinella, speculazione o risanamento?
Rapido il succedersi di notizie che riguardano la parte più pregiata del territorio comunale di Sarzana, quelle aree di Marinella con la loro grande piana agricola ancora non devastata dal cemento, il vecchio borgo fatiscente eppure ricco di un enorme patrimonio immobiliare da recuperare e la lunga spiaggia.
La prima notizia riguarda la clamorosa ricusazione da parte di Marinella Spa dei curatori fallimentari. Con questa decisione le vendite, date per già fatte, sono saltate e non si sa che fine faranno. Sembra l’ennesimo colpo di scena che inibisce l’acquisto di una vasta porzione della ex tenuta del Monte dei Paschi da parte degli imprenditori dell’olio imperiesi i Fratelli Merano, che avevano progettato di realizzare a Marinella il più grande oliveto d’Italia.
La seconda notizia, propagandata con ampia enfasi con tanto dell’immancabile selfie della sindaca fotogenica, dell’avvenuta messa in sicurezza degli argini del torrente Parmignola, che già aveva i suoi argini, ma che in questo modo, con i soldi messi totalmente dalla Regione Liguria, può affrontare anche piene millenarie e soprattutto può far togliere i vincoli di costruzione in un terreno che era dichiarato esondabile.
Il terzo lo aggiungiamo noi. Ed è il ritardo altamente sospetto nella presentazione del nuovo Piano Regolatore. Come è noto, tale Piano regolatore era stato affidato nel lontano 2018 al prestigioso studio dell’arch. Boeri e del suo collega Giuliani. Cinque anni di silenzio assoluto. Del Piano Regolatore non si parla più.
Perché? Il sospetto è grave. La domanda che sorge spontanea è: non sarà che qualcuno vuole approfittare della messa in sicurezza del torrente Parmignola e della conseguente rimozione del vincolo idrogeologico in assenza di Piano Regolatore per dare campo libero a operazioni di speculazione immobiliare?
Si spiegherebbe così la contemporaneità del buttare a gambe all’aria un progetto comunque agricolo come quello dell’oliveto dei Fratelli Merano, la mancanza del Piano Regolatore e la sbandierata operazione di nuova arginatura del Parmignola?
Qualcuno crede davvero che la giunta Toti spenda 10 milioni di Euro per evitare che un po’ d’acqua allaghi le cantine dei palazzi vicini al torrente? O ci sono mire molto più consistenti?
Ci piacerebbe che chiunque avesse intenzione di candidarsi alle prossime elezioni comunali spendesse parole chiare su questa vicenda e si impegnasse contro ogni aumento di cubatura edificabile a Marinella.
NC
FATTI DI LIGURIA
Perché il porto non dà i numeri?
Il Porto in numeri è la sezione del sito web dell’Autorità portuale Genova e Savona dedicata ai dati del traffico commerciale. Sito ridondante di grafica, filmati, interviste al Presidente-Commissario Signorini e news celebrative dei suoi grandi successi; specie sul versante cemento e bitume con cui si “rivoluziona” la topografia dei due porti. Con una coorte di millenials arruolata da Palazzo San Giorgio per comunicare. E poco importa che manchi personale per il Piano regolatore, l’atto che giustifica l’esistenza di Port Autority.
Una magnifica vetrina multimediale che trascura i dati su produzione e produttività del porto; ossia le “fonti dei ricavi” che ne documentano la funzionalità verso il territorio servito dallo scalo. Quando poi saltano fuori, ci sono squilli e titoloni sui record raggiunti e veline che intasano le redazioni di media condiscendenti, che le rilanciano senza fare domande; confidando nelle imprese private e nell’ineluttabile sviluppo dei mercati. Il pubblico “spende”, il privato incassa, ma quanto vada a remunerare lavoro e investimenti dell’hinterland e quanto ai capitali quasi totalmente esteri e offshore delle imprese armatrici e terminaliste, non è tema che interessi Palazzo San Giorgio.
Oggi, a quasi 100 giorni dagli ultimi dati forniti, stiamo ancora aspettando che Palazzo San Giorgio comunichi l’andamento dei traffici nei primi 8 mesi dell’anno. Quali le ragioni del ritardo? Si suppone non siano positivi, che esauriti gli alibi del Ponte Morandi e del Covid non si sappia come giustificare un trend negativo, che stride a fronte della spesa faraonica di soldi pubblici in nuove opere che promettono – secondo Commissari e i Governi che li hanno insediati – milioni di container in transito per i porti liguri.
Nell’attesa, per consolarci abbiamo utilizzato altre fonti e ricavato i dati dei movimenti nel porto di Genova: un confronto a inizio novembre con lo stesso periodo 2021. Ebbene, le navi crescono del 4% solo grazie al traffico passeggeri e crocieristico. Ma le navi merci continuano a calare e non basta l’aumento di stazza a compensarne il peso portuale. Le “provvidenziali” per Signorini & Co – vedi le portacontainer – calano del 5,6% e i roro-ferries merci addirittura del 19%. Solo in parte compensate dalla nave che due volte a settimana porta pietre da Carrara a Sestri Ponente. È questo il modello di sviluppo: il porto che importa pietre e cemento per i tombamenti. Dovremo aspettare le pietre della nuova diga per parlare di ulteriore crescita dei traffici? Infine si guardi cosa succede a Prà, nel più grande terminal container gateway italiano, e a Calata Sanità dove lo stesso PSA ha una succursale. A Prà, il numero di navi è calato del 18% e a Calata Sanità del 10%. Infine, Bettolo di MSC resta al palo del 2021. In l’attesa della fantomatica diga?
Concludiamo su un aspetto trascurato. Ogni nave che approda richiede servizi, burocratici, commerciali, tecnici, di personale ecc. a un’agenzia marittima che l’assiste nel porto. Per servire gli oltre 5000 approdi annui operano a Genova 50 agenzie, componente importante del cluster marittimo-portuale sotto il profilo occupazionale. Ma di queste, oltre 2/3 sono sotto la media di 100 accosti (meno di 2 navi a settimana), mentre le prime 5 si spartiscono la metà dei servizi; ribadendo anche a terra la logica della concentrazione oligopolistica in corso tra compagnie di navigazione. Conferme del declino portuale, che l’attuale classe dirigente politica evita di affrontare dissipando il patrimonio di lavoro e intelligenza sociale che lo resse per secoli. A favore dei nuovi oligarchi della logistica globale.
Riccardo Degl’Innocenti
FATTI DI LIGURIA
Energie rinnovabili in Liguria. Confindustria boccia la Regione
“Siamo ultimi in Italia”
Il commento in testa a questo articolo non è affatto originale. È stato ripreso dal quotidiano “La Repubblica” nella sua edizione genovese. Sottolinea come la Regione Liguria, sotto la guida della destra di Giovanni Toti non solo abbia completamente fallito gli obiettivi assegnati dal PNRR per il Piano Energetico Ambientale, ma che sia ultima tra le regioni italiane rispetto a quell’obiettivo.
Non riesce neppure ad arrivare al 50% dei 600 Mw richiesti. La cosa clamorosa è che a bocciare l’operato di Toti e della sua giunta è Confindustria.
La Liguria è la regione d’Italia che dal 2016 ad oggi, è andata peggio rispetto al raggiungimento degli obiettivi. Anche Lazio e Sicilia non li hanno raggiunti, ma di qualche decimale, mentre invece la nostra Regione la distanza è enorme (siamo fermi al 7,9% rispetto al 14,1 previsto). I ritardi accumulati in questi anni rischiano di rendere la transizione energetica più complicata per famiglie e imprese, nonostante le potenzialità in Liguria siano notevoli e le competenze consolidate.
Efficienza energetica degli edifici, comunità energetiche, portuali verde e un patto per la ricerca e l’innovazione nella transizione energetica verso le rinnovabili sono punti centrali dell’agenda politica, che in questi anni la destra in Regione ha lasciato da parte.
Le altre regioni si muovono, usano fondi europei e fondi di rotazione. A livello nazionale ci sono 2,2 miliardi di euro per le comunità energetiche nei piccoli comuni.
In Liguria non si fa nulla e anzi l’Assessore all’Energia Andrea Benveduti, rispondendo al documento di Confindustria, ha dichiarato che non tocca al pubblico occuparsene, ma che è colpa dei privati che non investono se non ci sono progetti.
Secondo una indagine tra le imprese associate a Confindustria – dichiara Vittoria Gozzi, – ci sono 120 aziende, oltre il 10% del totale, potenzialmente interessate all’installazione di impianti fotovoltaici all’interno dei propri siti». Un numero che porterebbe un potenziale incremento di energia del 27% rispetto al 2021, passando da una produzione annua di 122 GW/h a 155 GW/h.
Oggi il prezzo dell’energia – ha spiegato la dottoressa Gozzi – spinge un gran numero di aziende ad avvicinarsi al fotovoltaico, ma manca una regia pubblica da parte di regione e comuni che porti a una semplificazione delle procedure.
NC
FATTI DI LIGURIA
La nostra terra conosce il fenomeno dell’ibridazione culturale sin dall’alto medioevo, con influssi arricchenti le cui tracce persistono nell’idioma (dal “mandillo” greco medievale alla maghrebina “darsena”: dar el sennah, casa delle costruzioni). Diverso il caso della colonizzazione, non contenuta da strategie di recepimento selettivo e critico, all’opera dal secondo dopoguerra: quell’americanizzazione, attraverso l’imposizione mediatica di immaginari, che induce stili di vita e consumo; che aggredisce soprattutto l’età infantile, diffondendo gusti (vedi l’insapore polpetta nel panino) e rituali avulsi dalle tradizioni locali. E l’arricchimento vira nel suo contrario: l’impoverimento imitativo.
Halloween, la festa voluta dal marketing
La zucca traforata è diventata una delle attività più attese, ma è bene domandarsi quale sia l’origine di questa ricorrenza e di come sia rientrata nella nostra cultura attraversando diversi continenti per cancellare le nostre più antiche tradizioni. Le ritualità culturali sono ancora visibilmente presenti e caratterizzano non poco la nostra quotidianità: il nascere e il morire, ne segnano i punti diametralmente opposti. La festa di Halloween è proprio legata al giorno in cui i defunti ritornano a farci visita, a proporre segni della loro presenza, quasi a ricambiare il nostro cordoglio per la loro scomparsa. Le origini di queste funzioni si perdono nella notte dei tempi con molteplici testimonianze del momento della morte, pratiche presenti in tutte le culture. Un momento drammatico, un passaggio segnato da ritualità complesse, da liturgie che vedevano la presenza organizzata delle collettività per portare l’estremo saluto. La conservazione e il trattamento del corpo, con funzioni successive che prevedono diversi momenti di “ricongiunzione”, di riflessione e di possibili contatti tra il mondo dei vivi e l’aldilà. Se ricerchiamo nel mondo popolare avremo delle straordinarie sorprese e rivelazioni. Nei giorni d’autunno, in cui il buio si allunga, s’individuano nell’oscurità le migliori condizioni per l’incontro col mondo dei morti. Quest’occasione diventava una necessità per confermare la cultura ciclica del mondo rurale: i vivi hanno bisogno dei morti per ottenere buoni raccolti, i defunti trovano nell’attività agricola dei vivi la metafora del ritorno alla vita e la rigenerazione. Si tratta perciò di un’attiva collaborazione, della certezza che i morti fossero gratificati e non avessero nessun motivo di astio nei confronti dei vivi. Ancora ai nostri giorni le credenze popolari segnano il momento del passaggio con la morte: si devono coprire gli specchi e un velo cela le superfici riflettenti perché l’anima non si possa rispecchiare. Questo rischio potrebbe generare un “non passaggio” e far diventare quel luogo un posto “dove si vede e si sente”. In questi giorni si cucinavano le fave e si disponevano nella notte dei morti in cucina: i nostri cari sarebbero venuti a cibarsi, a riposarsi del lungo viaggio, trovando la riconferma del nostro cordoglio e una rinnovata accoglienza. Nelle Confraternite, a Genova le antiche Casacce, si tiene il rituale della “chiamata”: un lento scandire di tutti i confratelli trapassati, un appello dei vivi in memoria dei morti. Il grande rito coreutico della “Menada”: un ballo rituale con fiaccole accese, una tradizione dell’estremo Levante ligure, quando le donne danzavano in cerchio agitando i loro fuochi purificatori. Il lento tremore della fiammella dell’öfizieû acceso, composizioni in cera con la forma della torre, del libretto, con la cera multicolore, per salutare i nostri morti. Il canto dell’ufficio dei morti ci spiega il significato e l’origine di questo gioco rituale diffuso per secoli in tutta la Liguria. Queste poche riflessioni per ribadire che la festa di Halloween non è che il rivisitare nostre tradizioni che non conosciamo più, che il moderno marketing ci impone come un’occasione commerciale; una delle tante, dove il significato storico e culturale della tradizione appare definitivamente sconfitto.
GV
FATTI DI LIGURIA
Liguria: la sanità di Toti perde i pezzi e Alisa si svuota
Alisa la potente, costosa e inutile (per i cittadini, non per chi ne trae redditi) superASL ligure, voluta da Toti sin dall’inizio della sua avventura alla guida della Regione, si sta sgonfiando. Dopo le elezioni politiche del 25 settembre che hanno registrato un clamoroso insuccesso personale di Toti e della sua lista “Noi moderati”, ridotta al un misero 1,5% persino in quella che almeno in teoria doveva essere la sua “roccaforte”: la Liguria.
La sconfitta personale di Toti ha avuto immediate ripercussioni sugli equilibri interni della coalizione di destra. Sicché Fratelli d’Italia, il partito vincente della coalizione di destra, ha preteso che si nominasse un assessore regionale alla sanità; mentre, carica di cui, sino a quel momento, Toti aveva trattenuto la delega per sé. Così è’ stato nominato il professo Angelo Gratarola, un tecnico d’area. Toti ha subito cercato di piazzare dei “paletti” al nuovo assessore, comunicando che le linee strategiche della Regione non sarebbero cambiate in materia sanitaria e che Gratarola doveva solo occuparsi della gestione tecnica della sanità ligure.
Ora, improvvisamente, il nuovo assessore mette mano ad Alisa, la struttura data di fatto in gestione a Giovanni Profiti, il manager calabrese coinvolto nello scandalo del superattico del cardinal Bertone, posto alla guida della struttura di missione sulla sanità e vero “assessore ombra”.
Il direttore di ALISA professor Filippo Ansaldi si è dimesso con la motivazione che si sarebbe trasferito a Siena, dove gli è stata offerta la cattedra di igiene. A quel punto il nuovo assessore ha deciso di inglobare Alisa nella struttura dell’assessorato di via Fieschi.
Si sta scatenando una guerriglia in Regione?
ALISA (Azienda Ligure Sanitaria) è stata istituita nel 2016 per volere di Toti e dell’allora assessore regionale alla sanità Sonia Viale non senza dure polemiche in consiglio regionale, tanto che fu approvata per un solo voto di maggioranza. Così la nuova azienda ha ereditato le funzioni che prima competevano ad ARS, struttura di coordinamento a livello regionale delle 5 ASL liguri. Ma, a differenza di ARS, ha assunto un ruolo dirigistico: una sorta di doppione burocratico delle singole ASL, che pure di burocrazia ne hanno sin troppa. Teoricamente il compito era quello di eliminare gli sprechi e centralizzare gli acquisti. In realtà la struttura si è rivelata troppo costosa, appesantita da un numero eccessivo di personale e ha finito per privare le ASL di quell’immediatezza decisionale che spesso è necessaria in campo medico.
Alla fine, fallito l’obiettivo di ristrutturazione delle ASL, è iniziata la svendita di ospedali ai privati. Abbiamo già parlato dei casi di Bordighera, Cairo Montenotte, Rapallo, Sarzana, lo scandalo legato al nuovo ospedale del Felettino alla Spezia e quello del Galliera. Il dramma del San Martino, costretto a bloccare per tre mesi gli interventi ordinari. Si è trasferito a privati ogni servizio extra ospedaliero, mentre si fa ogni giorno più drammatica la mancanza in organico di medici, infermieri e OSS, affrontata appaltando a ditte private i turni di servizio. Né sono state realizzate le “case della salute” territoriali. Su tutto questo si è calata una sovrastruttura costosa, inutile e d’intralcio al lavoro quotidiano sul territorio, ma funzionale alle politiche di ammiccamento a i privati di Toti.
NC
FATTI DI LIGURIA
Disarmo e natura, per un’economia di pace
I cambiamenti climatici sono un tema esistenziale per l’intera umanità, non si tratta più di una minaccia all’orizzonte, ma di una emergenza quotidiana ad ogni latitudine e longitudine del pianeta. Le guerre sono indissolubilmente intrecciate con la catastrofe eco-climatica in corso e sono guerre contro la TERRA perché minacciano la vita e producono emissioni destinate ad avere un profondo impatto sul clima, peggiorando una situazione già tragica (si stima che gli apparati militari e bellici, non regolamentati in nessun accordo sul clima, siano responsabili del 5% di emissioni di anidride carbonica). Il recente 21 ottobre si è svolto a Sanremo l’incontro sul tema “Disarmo e natura per un’economia di pace” promosso dal comitato locale Attac Imperia per la 17° edizione di “ottobre di Pace” dal titolo “Costruire la pace”, con i contributi di Pietro Pizzo di Fridays For Future, di Antonio De Lellis di Attac Italia e delle molte persone intervenute, non solo attiviste ed attivisti delle realtà associative locali, dei movimenti sociali e cristiani.
Le introduzioni hanno evidenziato che le emissioni del settore militare sommate agli effetti dei conflitti armati, si intrecciano con più di cento guerre che hanno all’origine le ragioni climatiche. Gli eventi estremi che avvengono in ogni angolo del mondo (la siccità, le inondazioni, le erosioni dei ghiacciai, ecc.) insieme ai fenomeni di cementificazione dei suoli, di sovrapproduzione e sovra estrazione delle risorse, impattano tragicamente con il degrado dei servizi eco-sistemici ospitati nei territori, causando erosione dei redditi, dei diritti, della salute e della dignità umana. I cambiamenti climatici divengono moltiplicatori di instabilità, conflitti e migrazioni, che producendo il collasso della coesione sociale e relegando l’ambiente in secondo piano, incidono drasticamente a loro volta sul peggioramento dei cambiamenti climatici. Siamo immersi in un’economia di guerra anche da prima del conflitto in Ucraina. La guerra che si combatte già da tempo in Europa è quella contro i migranti, nell’Est, nel Mediterraneo, sulle coste spagnole e nelle mille rotte seguite per il diritto a migrare. Nelle nostre economie occidentali, apparentemente di pace, sono presenti tutti i semi di un’economia di guerra. Un’economia, strangolata dalla trappola del debito e che si nutre di rapporti commerciali asimmetrici, di dipendenza nei beni e servizi essenziali, di rapporti subordinati. Nulla può essere difeso in una logica di corsa agli armamenti, mentre tutto può essere perso nella dialettica di un confronto armato, per tentare di risolvere i conflitti. È necessario utilizzare una nuova lente di osservazione che metta al centro un’economia della cura e della pace. È possibile farlo a partire dalla conversione ecologica delle industrie belliche e di tutte le produzioni ad impatto ambientale. Non comprendere nel calcolo del PIL le produzioni degli armamenti in quanto funzionali alla belligeranza. Orientarsi totalmente verso le energie rinnovabili e potenziare l’economia pubblica, un’economia di comunità basata sulla tassazione del tempo che non concepisca il lavoro come un costo da abbattere, ma una ricchezza da valorizzare. Un’economia orientata al benvivere non fondata solamente sul lavoro retribuito, ma anche su attività riconosciute da un corrispettivo sotto forma di beni e servizi. I nuovi processi sociali dovranno sempre più fare i conti con disarmo, natura e accoglienza, che sono il DNA di qualunque forma di società futura.
MG
FATTI DI LIGURIA
E Bucci disse: “donne, fate più figli”
Mentre stavo preparando queste poche righe a proposito del Manifesto di Attac sul “Riprendersi il Comune”, (iniziativa che mi trova non concorde ma di più, se possibile, è davvero “ora di aprire una nuova stagione ribelle”), è arrivata la notizia della simpatica uscita del Sindaco Bucci che – mentre si apprestava a inaugurare piazza Rizzolio, a Cornigliano – con la cerimonia del taglio del nastro, ha invitato i genovesi a fare più figli.
«…la nostra città – avrebbe detto infatti il paternalissimo Sindaco – ha bisogno di dare sempre più importanza agli spazi dedicati ai più piccoli. Ed è anche un invito a tutti i genovesi a fare più figli. Sapete che non è un problema solo genovese ma italiano, a tutto tondo, e va affrontato».
Affrontato come? E da chi, da noi? Dalle donne? Partorendo un po’ di più? O non piuttosto dal welfare pubblico, Sindaco?
Se l’emergenza sociale, la riduzione dell’occupazione, la povertà, potrebbero essere ben affrontate (o comunque meglio di adesso) grazie alle due proposte di Legge del Manifesto “Riprendiamoci il Comune”, è indubbio che una lettura al femminile di queste proposte debba passare attraverso la consapevolezza che il carico di lavoro portato prima nel corso degli anni dalle liberalizzazioni spinte di qualunque servizio (ex) pubblico e poi dall’emergenza Covid, è ricaduto in maggior parte sulla schiena delle donne. Consultori, asili, doposcuola, medicina territoriale, residenze per anziani… Chi tira la carretta quando questi servizi vengono a mancare o diventano un lusso per i pochi che se li possono permettere? Chi ha lo stipendio più basso e quindi rinuncia più facilmente al lavoro per prendersi cura? L’abbiamo ben visto! Perché tutto questo impegno a curarsi degli altri è ricaduto pesantemente sulle donne. La pandemia ha amplificato tutte le disuguaglianze esistenti, e uno degli effetti più immediati del Coronavirus è stato quello di far tornare molte coppie indietro di decenni, perdendo una faticosa indipendenza.
Se la manovra progettuale dei Governi nazionali e regionali che si sono succeduti in questi anni è stata quella di “Strangolare il pubblico per poter dire che non funziona”, come ha detto Marco Bersani, occorre che le due proposte di Legge vengano presentate in maniera appetibile soprattutto per gli asini (o meglio le asine) che di quella carretta sono i motori più tartassati. Gli asili nido, le scuole materne, i doposcuola, le biblioteche per gli studenti più grandi, le strutture di appoggio diurne per anziani “autosufficienti-ma-meglio-se-qualcuno-gli-dà-un’occhiata”, devono essere al primo posto. E non tanto per ricominciare a far figli (quelli sono fatti nostri, caro Sindaco!) anche perché non è certo che il mondo stia per terminare per scarsità di popolazione, quanto perché i pochi figli che possiamo permetterci vorremmo poterceli godere senza dover sacrificare metà o più dello stipendio per poterli “posteggiare” e tenerci quel lavoro semi-precario che abbiamo – forse – trovato. E perché è nostro diritto che i genitori che invecchiano siano solo un problema affettivo e non soprattutto logistico ed economico.
Le proposte per riprenderci i comuni-Comuni devono essere pratiche. Dovranno risolvere problemi quotidiani su come spendere quei soldi che potrebbero arrivare se la Cassa Depositi e Prestiti ritornasse ad essere un servizio rivolto al pubblico. E occorrerà raccogliere firme, per farle approvare. Mettiamoci delle donne, a studiare queste proposte. O perlomeno, mettiamoci TANTE donne, per favore.
Carla Scarsi
FATTI DI LIGURIA
Io sto con la Fondazione Gaslini (stavolta)
La Liguria (ultimi dati 2016) è la regione con il minor “parco veicolare” in rapporto alla popolazione e Genova è il comune ligure che detiene questo invidiabile primato. Ovvero 464 veicoli per mille abitanti. Il discorso cambia radicalmente, in particolare per il capoluogo, ma vale per tutta la Liguria, quando si parla di scooter e moto. Negli ultimi anni, mentre le auto sono diminuite le due ruote sono aumentate, e il divario è passato da poco più di un terzo a più della metà, in un continuo crescendo. Si parla di oltre 140.000 mezzi nella sola Genova. D’altra parte con il traffico impossibile, i lavori in corso, gli imbottigliamenti, le corsie preferenziali quasi inesistenti e comunque l’orografia del territorio, le due ruote, per chi può permetterselo per età e capacità, sono l’unica soluzione per potersi spostare in questa caotica città che manca di servizi pubblici adeguati. L’equazione più velocità meno inquinamento è conosciuta da quando esistono i gas di scarico, e moto e scooter sono anche un mezzo almeno per inquinare di meno. Un discorso a parte andrebbe fatto per le biciclette, ma Genova è tutta un saliscendi e i percorsi dedicati fanno ridere anche i cinghiali che passeggiano indisturbati: provate ad andare in bici in corso Italia verso oriente, una striscia dedicata a scapito di posteggi di auto e moto, ma se arrivate a Boccadasse e tornate indietro il ritorno è in mezzo al traffico. Aria fritta, modi per spendere inutilmente soldi dei cittadini (il percorso suddetto è stato fatto, poi sfatto, e rifatto ancora perché illegale e direi anche cretino). Perché è più glamour farsi fare la foto con le cicliste albarine piuttosto che sistemare le buche di Sampierdarena. Comunque, se questo è lo stato dei fatti, non sarebbe intelligente aiutare il traffico a due ruote, più veloce, meno intasante e quindi meno inquinante e che favorisce anche la rapidità dei mezzi pubblici? E non sarebbe equo favorire i posteggi? La risposta dell’amministrazione è no. Nel primo caso perché manca l’intelligenza, nel secondo perché si fanno più quattrini. È il caso poco conosciuto della Fondazione Gaslini che sta combattendo a colpi di TAR contro il Comune e la Genoa Parking (di proprietà del Comune) per evitare che venga creato un parcheggio sotterraneo in Piazza Dante. La Fondazione ha serie preoccupazione che gli scavi possano compromettere il grattacielo Gaslini. Dall’altra parte si sostiene di no, si promuove la realizzazione di un parco, dove ora c’è il più grande parcheggio per le due ruote della città. Gesto apparentemente nobile che nasconde la solita speculazione. Perché il garage sotterraneo sarà a pagamento: addio posti gratis. In buona sostanza: il Comune mette il mascara in Piazza Dante, ma sotto la belluria pullulano i vermi della speculazione, del menefreghismo verso i cittadini, l’idiozia urbanistica. Noi siamo, in questo caso, per la Fondazione, per i rischi che può mettere a rischio il grattacielo e per lasciare un po’ di respiro alle due ruote, libere, perché è un diritto non pagare, non una concessione.
CAM
FATTI DI LIGURIA
La medievalizzazione del centro storico
Chi, a Bologna, passeggiando lungo Strada Maggiore, guardasse in alto, potrebbe distinguere tre frecce conficcate nel soffitto del portico. Non è una trovata turistica: sono lì da secoli, testimoni di un’età medievale in cui ci si affrontava in città muniti di arco e frecce.
Ora, nel terzo millennio, succede anche a Genova, nel centro storico. Un esperto arciere trafigge un uomo colpevole di festeggiare in strada, con un amico, la nascita del figlio. Crudele, grottesca disavventura? Intolleranza razziale? Avventata protesta contro i rumori della movida (che, in quel caso, non c’entrava per nulla)? Messa in scena promozionale, finita tragicamente? Niente di tutto questo. È il centro storico che, abbandonato a se stesso nell’indifferenza – quella sì davvero rumorosa – delle autorità, va medievalizzandosi; nel senso peggiore con cui si rappresenta quell’epoca.
Come nel Medioevo, la vita vi conta poco o nulla: basta un alterco, una gelosia, una birra di troppo, un vicino rumoroso, a scatenare la belva che sonnecchia in noi.
Come nel Medioevo, si svuotano sulla strada i secchi delle immondizie.
Come nel Medioevo, si vive la notte asserragliati dentro edifici-torri.
Come nel Medioevo, ci si deve addentrare armati e ben protetti.
Come nel Medioevo, vi si è esposti alle angherie di sgherri vili con i potenti ma violenti con i deboli.
E così via. E se a Bologna le autorità hanno saputo pazientemente trasformare quelle antiche tracce in civili risorse turistiche, a Genova le autorità progettano di trasformare il centro storico più grande – e bello – d’Europa in un ghetto riservato a ‘underdog’ meno fortunati del nostro Presidente del Consiglio: sbandati, tossici, vecchi abbandonati alla loro follia, extra comunitari e altra varia umanità ‘borderline’, taglieggiata per di più ( come nel Medioevo ) da signorotti proprietari di ‘bassi’ e altri loculi affittati a caro prezzo per sonni miserabili e senza quiete.
No. Non sarà più così, proclamano quelle autorità. Entro pochi anni – grazie al progetto ‘Caruggi’ (un nome, un programma). Il centro storico si trasformerà magicamente in un quartiere degno dei più esclusivi ZTL. Allontanati i rumorosi giovani, che si progetta di trasferire sui Forti; resi i vicoli percorribili da monopattini , bici , silenziosi bus elettrici; restaurate e restituite al culto le ‘edicole’ , dotate vie e piazzette di una adeguata cartellonistica e di appositi ‘totem’ per i turisti; rese appetibili per i proprietari di yacht le meravigliose altane a ridosso del porto; instaurato un severissimo sistema di controlli e vigilanza; installati i fantastici ‘teli fonoassorbenti’ di cui si favoleggia , destinati a ridurre oltre al rumore anche quel poco di luce che riesce a filtrare nei locali più bassi: allora – finalmente – si potrà dire con soddisfazione che il problema è stato risolto e il centro storico – finalmente ‘riqualificato’ ovvero ‘gentrificato’ –costituirà una fonte di nuovi insperati profitti per i signorotti del nuovo medioevo , mentre stuoli di finti arcieri si faranno selfie con i turisti.
MM
FATTI DI LIGURIA
Si è acceso un fuoco a Ponente che non sarà facile spegnere. Sindacati all’attacco
Una fiaccolata per le strade del centro, con la partecipazione di un nutrito numero di persone, ha illuminato la notte di Cairo Montenotte per protestare contro le politiche sanitarie della Regione Liguria. Non a caso è stato scelto il 2 novembre, giorno dedicato ai morti, per sottolineare come la regione amministrata da Toti porti alla morte il servizio sanitario pubblico in Val Bormida.
Il Comitato Sanitario Locale Val Bormida è sceso nuovamente in piazza davanti all’ospedale San Giuseppe, chiedendo almeno la riapertura di un pronto soccorso funzionante 24 ore su 24.
“La sanità in Valbormida sta morendo e bisogna a tutti i costi tenere i riflettori accesi sulla situazione, soprattutto adesso che la Regione ha inteso trasformare il presidio cairese in ‘ospedale di comunità’, generando comprensibili proteste e malumori in tutti i comuni del vasto territorio”. Questo il contenuto dell’accorata lettera scritta giorni fa dal presidente del Comitato, Giuliano Asolato, all’assessore regionale alla Sanità ribadendo che il servizio ‘emergenza-urgenza’ in zona era praticamente inesistente: “Senza un pronto soccorso e un punto di primo intervento H 24, l’interventistica di emergenza è praticamente inesistente nella nostra Valle, già compromessa di per sé da una complessa morfologia, essendo area di criticità che in vari periodi dell’anno si trova isolata dalla costa, come purtroppo testimoniano le cronache degli scorsi anni”.
Alla manifestazione hanno aderito CGIL e UIL, i comuni della valle, diverse associazioni di cittadini, e militi delle pubbliche assistenze locali.
La Val Bormida ha conosciuto negli anni passati la presenza di imprese come l’ACNA di Cengio, la Montedison, le cokerie, che hanno lasciato tracce pesanti sulla salute dei cittadini, pagate con un alto tasso di tumori sulla popolazione residente, e sarebbe giusto offrire a molti di poter fare i cicli terapeutici necessari in zona. La smobilitazione della sanità pubblica in Val Bormida rappresenta non solo un pericolo e un disagio per la popolazione, vista anche la difficoltà e il tempo necessario per raggiungere Savona o Pietra Ligure, particolarmente nei mesi invernali, ma anche un costo, visto il sempre più alto numero di pazienti costretti a rivolgersi alle strutture sanitarie piemontesi, visto il mancato servizio di quelle liguri
Il segretario della CGIL savonese Andrea Pasa ha richiesto un incontro urgente con il nuovo assessore regionale alla sanita Gratarola “. “La Cgil di Savona c’è perché crediamo che il modello socio sanitario della regione Liguria vada cambiato, stravolto una volta per tutte, partendo dai territori in cui le decisioni politiche dell’amministrazione regionale hanno causato una drammatica diminuzione dei servizi e delle attività socio sanitarie”,
Le manifestazioni di protesta contro il veloce smantellamento della sanità pubblica e la cancellazione di servizi essenziali ai cittadini si moltiplicano in tutta la Liguria, da Levante a Ponente, e anche nell’entroterra. Forse è il momento che si uniscano e diano vita a un movimento unitario di livello regionale.
NC
FATTI DI LIGURIA
Questa volta il nostro Civic Journalism si sposta a Rapallo, per constatare i danni al patrimonio di beni civici che possono arrecare i maneggi di una politica di infimo livello
Rapallo: le mani della politica sulle ville storiche
Quando ci si spara addosso fra compari i casi sono due: c’è da spartirsi il bottino e non si è d’accordo fra le parti oppure qualcuno ha deciso di passare dalla parte dei “buoni”, o per interesse o perché si trova sulla via di Damasco. A Rapallo sta succedendo qualcosa di simile. Motivo del contendere la Villa Devoto, un immobile nel centro di Rapallo che la giunta ha deliberato di acquistare per far spazio alle poltrone degli assessori e per celebrare i matrimoni in un ambiente più glamour (così ha dichiarato il Sindaco). Oltre a farne sede di associazioni, circoli culturali, manifestazioni, feste e cottillons: cose, queste ultime, che già fa, pagando un minimo affitto. Quindi un acquisto inutile e dannoso, come ha stigmatizzato l’opposizione cittadina (non in consiglio comunale, perché lì c’è una maggioranza totalitaria o bulgara che dir si voglia). Molti sarebbero gli interventi da fare con quel denaro: per esempio aiutare le famiglie indigenti a pagare le bollette. Lo ha fatto il sindaco di Portofino, peccato che i destinatari, come abbiamo già scritto, siano anche i miliardari con villette. E fin qui nulla da dire. Il fatto è che la giunta di destra moderata – sindaco Carlo Bagnasco, coordinatore regionale di Forza Italia, figlio del senatore Roberto dello stesso partito – sta prendendo bordate ancora più a destra da parte dell’ex sindaco Armando Ezio Capurro, supporter di Raffele Fitto, già forzista e salito poi sul carro di Fratelli d’Italia. Indagato, condannato, assolto, con varie cause pendenti e alcuni risarcimenti comminati in via definitiva. Ma non basta: perché a tirare le bordate più pesanti è niente meno che il consigliere regionale Domenico Cianci, gruppo Toti. E se il primo propone di utilizzare il denaro per le bollette (v. sopra), imprese e società sportive, o altri investimenti, ma produttivi, il secondo dice chiaro e tondo che non gli sembra “il momento per questo tipo di spesa”. Ascoltando i parroci (sic!) ha compreso che ci sono necessità più urgenti per aiutare le famiglie bisognose, mentre Villa Tigullio va ancora meglio per i matrimoni. E aggiunge pure il timore che un altro immobile a carico del Comune comporti le già note difficoltà per altri che lo stesso ha in proprietà. Come il Teatro delle Clarisse, un tempo fiore all’occhiello della cittadina e ormai da anni chiuso per restauri che non sono mai stati fatti proprio per mancanza di palanche (però i soldi per villa Devoto si trovano…). O addirittura come il simbolo di Rapallo, il Castello sul mare, che doveva essere messo in sicurezza al suo interno, e che si è pure beccato un sequestro per un turista fulminato sulla spiaggia. Fu costruito per combattere i pirati, che però ora sembra si trovino sulla terraferma, e aspettano forse che crolli. Insomma, possibile che a Rapallo si buttino via i soldi che straripano dalle casse comunali per vendite (un milione e settecentomila euro sono già entrati con la cessione di Villa Riva) o per incassi dal PNRR per operazioni di facciata, invece di occuparsi del benessere dei cittadini, soprattutto quelli più indigenti?
CAM