PILLOLE
Quiz: la Regione senza piano di adattamento al cambiamento climatico?
È la Liguria; che non ha un Piano di adattamento al cambiamento climatico: il documento strategico su come intervenire, prevenire e mitigare il rischio di fronte all’emergere della crisi climatica. Di fronte allo sgretolamento dell’entroterra, alle difficoltà estreme dei piccoli comuni, serve un’azione diversa da parte della Regione. In questi anni si è sostituita la difesa del suolo con la protezione civile: il ruolo di intervento è diventato successivo all’evento – coi fondi nazionali, che hanno toccato la quota record di 1 miliardo di euro in cinque anni. I soldi ci sarebbero, basterebbe un nuovo utilizzo del fondo strategico regionale — il bancomat di Toti, che gestisce a piacimento, a favore di suoi sindaci o pubblicità personale — in un fondo strategico regionale contro il dissesto idrogeologico.
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Toti contro Cingolani (parco di Portofino)
Chi lo avrebbe mai detto? Fino a pochi mesi fa incensava Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica e per molti anni direttore dell’IIT di Genova. Ora, improvvisamente, presenta un ricorso al TAR contro la nuova perimetrazione del Parco predisposto dal Ministero. Perché? Quella è unica possibilità per ottenere il passaggio del Parco a Parco Nazionale attraverso l’allargamento dei confini; che — in questo modo — riduce gli spazi a disposizione per operazioni affaristiche. Sicché Toti ricorre contro, compiendo un voltafaccia che ha persino vergogna ad ammettere in pubblico. Per giustificarsi è solo capace di insultare le associazioni ambientaliste “Amici del Monte di Portofino” e “Verdi, ambiente e società”, nonché i consiglieri di opposizione.
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Ultime nuove dalla Carige: ridere per non piangere
Risarcimenti per 1,25 miliardi richiesti a causa cessione della compagnia di Assicurazione Amissima. Contenziosi per circa 600 milioni da vari azionisti. Altri 875 pendono davanti alla Corte di Giustizia Europea, 10 milioni e rotti di lite con il fondo di liquidazione del celebre Madoff, forse il più grande truffatore di tutti i tempi, e qualche milioncino con il Comune di Milano e l’Agenzia delle Entrate. E il valore delle nuove azioni? Chi aveva 1.000 euro nominali, con il riparto dello scorso anno si è trovato con meno di 100 euro nominali che ora valgono circa 33 euro. E pensare che un tempo Carige era considerata la Banca dei liguri: vien da dire che si stava meglio quando si stava peggio, Ma forse era quando si stava peggio che sono cominciati i guai. Il fatto è che nessuno lo sa.
EDITORIALI
Qui di seguito la prima parte del Manifesto per la manifestazione su Sanità e Beni Comuni
che si terrà sabato 27 novembre alle ore 14 a Genova, in piazza De Ferrari
Per un nuovo modello condiviso di Salute Pubblica

Il degrado del Servizio Sanitario Pubblico è strettamente connesso alla cultura e al modello che ci
stanno proponendo.
Un modello che privilegia l’IO e l‘interesse privato al posto del NOI e del bene comune. Un modello che, da tempo, ha portato alla mercificazione di beni essenziali alla nostra vita collettiva: Salute, Acqua, Istruzione, Ambiente, Lavoro. Un modello che ha contribuito ad eliminare le relazioni tra le persone e tra queste e i servizi pubblici, creando disaffezione per la politica e favorendo quindi decisioni di pochi nel loro esclusivo — e non collettivo — interesse.
È un processo di depauperamento scientifico dei beni comuni e dei servizi pubblici (cui tutti noi abbiamo contribuito, anche economicamente) per aprire una prateria di conquiste a favore di interessi privati.
La nostra Regione e il nostro Servizio (trasformato, non a caso, “in sistema) hanno dato l’esempio “migliore” di questo processo: riduzione di risorse al Servizio Sanitario pubblico (a partire dal personale): privatizzazioni di funzioni e addirittura di interi plessi ospedalieri: decisionismo tecnico, affidato a cdl. Manager, che taglia in radice la partecipazione e i1 confronto politico sul le scelte.
Dal 2008 abbiamo assistito (e l‘abbiamo contestato senza discriminazioni politiche — tanto a destra che a sinistra) prima a processi di privatizzazione strisciante con le c.d. esternalizzazioni di servizi e di lavoro, ora a un processo di privatizzazione evidente (l’intento manifesto di questa Regione è sempre stato, fin dal suo primo insediamento, quello di privatizzare il 15% dei posti letto figuri).
Tutte operazioni fallimentari, con disonorevoli retromarce (tipo quella sulla privatizzazione degli ospedali del ponente) e con costi soci ali ed economici enormi.
È ora di fermare questi processi.
Siamo stufi delle accuse reciproche, a seconda di chi governa, che la colpa è “di quelli di prima”. Ora, l’attuale Governo regionale è in carica da 6 anni e non c’è stata alcuna inversione sui processi di depauperamento del servizio sanitario pubblico. Al contrario, ci sono chiari segni di un indirizzo costante verso la privatizzazione del servizio sanitario.
Quello che pretendiamo è esposto nei nostri pilastri per un nuovo modello condiviso di sanità pubblica regionale.
Un nuovo modello di salute pubblica che parta dalla valorizzazione dei territori (maggiore coinvolgimento nelle scelte che ricadono sui cittadini) e dalla valorizzazione della prevenzione e dell’assistenza territoriale.
Non bastano i soldi del PNRR per le Case di Comunità — sui quali è già evidente una corsa dei privati per il loro utilizzo — è necessario un nuovo modello.
La nostra scelta è chiara.
La nostra scelta è chiara.
È una scelta di campo contro la rassegnazione comoda, contro l’indifferenza, contro la fiducia nelle sole soluzioni tecniche ed economiche.
La scelta è tra vivere di diritti, oppure essere una variabile dipendente dei profitti.
I NOSTRI 6 PILASTRI
Primo pilastro: La salute è diritto, non merce. No ai profitti sulla salute, Siamo cittadini non clienti
Secondo pilastro: Contrastare i processi di depauperamento della sanità pubblica
Terzo pilastro: Prevenire è meglio che curare
Quarto pilastro: Potenziare l’assistenza di territorio. No al solo modello ospedale-centrico
Quinto pilastro: Pretendiamo ciò che ci spetta. Basta fughe in altre regioni
Sesto pilastro: accentramento e tecnocrazia decisionisti uccidono democrazia e partecipazione
La Rete di SOS Salute Pubblica Liguria: ATTAC Genova, Imperia, Savona; Cittadinanzattiva Andora, Genova, Imperia, La Spezia, Tigullio; ANPI Provincia Sanremo; Fieui di Caruggi Albenga; Vecchia Albenga; SOS Società Spezzina Arcola; Circolo Culturale Diano Gorrieri; Circolo Zenzero Genova; Rete Sanità Valpolcevera; Tribunale del malato Genova; USB Vigili del Fuoco Genova; ARCI Imperia; Circolo Ricreativo Caramagna Imperia; Gruppo Teatrale l’Atrito Imperia; Centro Sociale la Talpa Imperia; Comitato Difesa Ospedale Cairo Montenotte; Casa dei circoli culturali culture popoli Ceriali; Coordinamento Ligure Movimenti per l’Acqua.
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Eppur (qualcosa) si muove? Le elezioni amministrative in Liguria
Dalle recenti elezioni amministrative il Pd è uscito vincitore. Non tanto per i consensi ottenuti, quanto per la capacità di guidare un “campo largo”. Ha agito da magnete, verso forze civiche e politiche alla sua sinistra e alla sua destra. Anche quando non ha fatto alleanze con il M5S, ha intercettato buona parte dei suoi voti (sia pure di molto diminuiti) al secondo turno. Rimangono tuttavia, per il centrosinistra, enormi problemi aperti.
Il primo riguarda la competizione con il centrodestra. Nei 118 Comuni sopra i 15 mila abitanti il Pd ha guadagnato 18 Sindaci, ma il centrodestra ne ha persi solo due. Il successo del centrosinistra è avvenuto quindi a spese del M5S o di coalizioni varie. Il centrodestra ha sbagliato l’impostazione politica e la scelta dei candidati, ma è presto per dire che la sconfitta segna l’inizio del declino.
In Liguria il campanello d’allarme ha suonato più forte: uno dei due Comuni sopra i 15 mila abitanti perduti è Savona. Non solo: Toti ha perso nella “sua” Ameglia. Hanno pesato le divisioni: a Savona la Sindaca uscente non è stata ripresentata; ad Ameglia la presenza di una terza lista — appoggiata da Liguria popolare del Sottosegretario Costa e da Forza Italia — ha fatto vincere il centrosinistra (con il doppio turno, non in vigore nei piccoli Comuni, forse sarebbe andata diversamente). Due “sconfitte dolorose”, per dirla con Toti, che hanno scatenato la lotta nel centrodestra: Lega e Fratelli d’Italia accusano il “governatore” di protagonismo e lo vorrebbero più “federatore”. Tuttavia, in vista delle prossime comunali, Bucci a Genova appare abbastanza solido. Un poco meno Peracchini alla Spezia, che non ha alcun “ponte” da vendere, e ha la stessa fronda che ad Ameglia ha fatto perdere Toti: ma comunque ci sarà il secondo turno. Nel complesso, attorno al centrodestra si compatta ancora gran parte del mondo imprenditoriale, mentre il mix “liberismo-sovranismo”, sia pure in crisi, attrae ancora parte dell’elettorato popolare e di ceto medio.
Il secondo enorme problema, per il centrosinistra ma soprattutto per la democrazia, è l’astensionismo. Rischiamo una democrazia senza popolo: una democrazia vuota o, meglio, occupata da un potere senza più legame con la società. In Liguria ha votato il 55,2%, a Savona il 52,4 al primo turno, il 46% al secondo. Quando tanti atti individuali convergono c’è da pensare a un “clima” collettivo: di indifferenza se non di fastidio verso la politica e il potere. Questa società che non vota è un “mondo di sotto”, abitato da classi popolari e ceti medi impoveriti, che esprime stanchezza e rancore, e che è in cerca di una rappresentanza. Potranno offrirla il centrodestra o il centrosinistra, ma solo se ripenseranno la propria politica, o una nuova offerta politica che oggi non immaginiamo nemmeno. Lo scenario è aperto a ogni soluzione, perché il voto “fedele” è stato rimpiazzato dal voto “liquido”.
Circa il centrosinistra, sia il “nuovo” Pd di Letta che il “nuovo” M5S di Conte sono ancora ben lontani da rappresentare queste forze. Scavando alla radice, dietro il distacco c’è l’abbandono di un progetto di società fondato sulla democrazia sociale. La sinistra non può adattarsi all’idea che basta il sostegno di chi vota, e se qualcuno resta escluso, pazienza. No, la sinistra non esiste se non sa fare degli esclusi i “protagonisti della storia”.
Con il nostro “Manifesto”, pubblicato il 31 ottobre, ci siamo proposti come supporto per coordinare la passione civica esistente in Liguria. Certo, sappiamo che alle straordinarie manifestazioni in difesa dei beni comuni se ne affiancano altre all’insegna dell’inimicizia sociale. E sappiamo anche che non possiamo fare a meno della rappresentanza politica e istituzionale, perché l’alternativa è l’autocrazia, oggi ben visibile.
Dobbiamo quindi attrezzarci per una doppia battaglia: dentro la società, perché le persone siano consapevoli, e dentro le istituzioni, per tradurre le istanze per i beni comuni in scelte e norme politiche. La prima battaglia è quella fondamentale: perché solo da una spinta sociale e culturale possono rinascere forze politiche con un pensiero e un’azione ben più radicali, che rimettano finalmente in circolo parole come classe, conflitto, ideologia, giustizia sociale e giustizia ambientale.
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti
Hanno scritto per noi:
Andrea Agostini, Franco Astengo, Enzo Barnabà, Maddalena Bartolini, Giorgio Beretta, Sandro Bertagna, Pierluigi Biagioni, Pieraldo Canessa, Roberto Centi, Comitato Nessuna discarica in Val di Vara, Comitato per la Salvaguardia del Territorio della Vesima, Comitato Palmaria Sì – Masterplan No, Comitato spontaneo amici del Tariné, Cooperativa Il Ce.Sto, Riccardo Degl’Innocenti, Battistina Dellepiane, Egildo Derchi, Marco De Silva, Erminia Federico, Maura Galli, Italia Nostra La Spezia, Legambiente La Spezia, Libera La Spezia, Lipu La Spezia, Luca Garibaldi, Luca Gazzano, Valerio Gennaro, Antonio Gozzi, Santo Grammatico, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Giuseppe Pippo Marcenaro, Maurizio Michelini, Anna Maria Pagano, Paola Panzera, Marianna Pederzolli, Enrico Pignone, Bruno Piotti, Paolo Putrino, Bernardo Ratti, Rinascimento Genova, Rete di SOS Salute Pubblica Liguria, Ferruccio Sansa, Mauro Solari, Giovanni Spalla, Angelo Spanò, Gianfranco Tripodo, VAS La Spezia, Gianmarco Veruggio, Moreno Veschi, WWF Liguria, Franco Zunino.
FATTI DI LIGURIA
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Riceviamo dal Coordinamento Provinciale di Articolo 1 La Spezia
Insensati attacchi alla salute dei cittadini nel porto della Spezia
Articolo 1 ritiene sbagliata la scelta di localizzare a calata Paita l’ubicazione della Stazione Marittima adibita al traffico crociere.
Nonostante i numerosi incontri con il Presidente Sommariva, il Piano Triennale 2022-2024 dell’Autorità Portuale continua a insistere sull’ipotesi della precedente presidenza; sbagliata e discutibile in quanto l’incremento crocieristico potrebbe essere perseguito con altre soluzioni.
Consentire l’attracco simultaneo addirittura a quattro gigantesche navi da crociera nella prima darsena portuale è come immaginare quattro ippopotami che sguazzano nella vasca di Piazza Brin… Ma al di là dell’estetica urbanistica, qualcuno può spiegarci – sotto il profilo ambientale e sanitario – la congruità di localizzare tale traffico nel punto più inquinato di Spezia? Non solo Viale Italia che costeggia calata Paita, ma tutta la zona retrostante è quella dove il traffico, di terra e di mare, tocca i massimi livelli. Ossia, l’ossido di azoto prodotto dai motori accesi, delle automobili come delle navi. Il limite di legge impone di non superare la soglia critica di 40 mg. a metro cubo d’aria come media annuale registrata dai rilevatori. La centralina di Via San Cipriano dice che in quella zona e nelle adiacenze le varie e successive medie annuali sono appena al di sotto di tale limite. Però dice anche che nei due anni più recenti l’inquinamento da No2 (biossido di azoto) è andato oltre i 40mg, per poi scendere a 39,7 nel 2020. Tutto ciò in un lungo periodo in cui le navi da crociera nella prima darsena erano una o al massimo due.
Cosa accadrà quando saranno quattro? Quando, oltre al loro inquinamento diretto, crescerà del doppio anche quello veicolare indotto dalla Stazione Marittima? Nel Piano dell’Autorità Portuale su questi problemi non abbiamo trovato neppure un accenno. Nel precedente libretto propagandistico all’epoca della Presidente Roncallo ci si consolava ipocritamente parlando delle brezze del golfo della Spezia. Fingendo di non sapere che quelle brezze per un terzo della giornata soffiano verso la città, per un altro terzo spingono i fumi verso Lerici e Portovenere e alla fine l’inquinamento ristagna dove si produce.
Diamo atto che almeno l’attuale dirigenza sull’argomento venti tace e non prende in giro. Parla d’altro. Soprattutto di elettrificazione delle banchine. Bene, finalmente! Ma l’elettrificazione dei moli non sarà del tutto congrua con quattro gigantesche navi nella prima darsena. Ce ne sarà sempre qualcuna in manovra. Quindi con le macchine accese ed inquinanti. Inoltre, il Presidente sa che le navi, enormi o piccole, non sono come le automobili in cui giri la chiave e parti. I motori delle navi si accendono ore prima della partenza, restando all’ormeggio. E in queste ore si inquinerà, anche a banchine elettrificate.
Ci si dilunga nel rapporto su ipotetici combustibili del futuro, senza dire quando arriveranno. Intanto e per molti anni le navi useranno combustibili fossili. Sono le stesse compagnie di navigazione a prevedere zero emissioni non prima di trent’anni. Ma intanto, fra pochi mesi, si dovrebbe avviare la costruzione della nuova Stazione Marittima a calata Paita.
In sostanza, la nostra città ha bisogno di un’altra politica, di donne e uomini migliori di chi oggi la dirige, possibilmente più giovani e più accorti. Sulla Stazione m
Marittima noi riteniamo vi siano soluzioni alternative. Su questo problema e altri di rilevante impatto sociale, così come sulla questione dell’urgenza politica di cambiare questa maggioranza comunale, occorre aprire un vero confronto pubblico democratico. E forse siamo già in forte ritardo.
Luca Gazzano, Sandro Bertagna, Moreno Veschi, Paolo Putrino
FATTI DI LIGURIA
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Salvati da Striscia la Notizia
Le leggi esistono ma il modo di farle applicare, qualora ciò non sia fatto secondo le regole, sembra sia rivolgersi ai mezzi di comunicazione. A maggiore visibilità corrisponde la possibilità che la legge venga applicata. Nel nostro caso c’è voluta la trasmissione di Striscia la Notizia del 25 Ottobre, dopo che i mugugni (altro mezzo per cercare di far osservare le norme, ma del tutto inefficace, si sappia) avevano da tempo stigmatizzato che a Genova i percorsi per biciclette erano stati fatti velocemente e senza criterio apparente. Grazie a Striscia di cui abbiamo la paternità (tutti del ponente ligure i suoi autori) è venuta fuori non solo la pericolosità ma anche l’illegalità dei percorsi dedicati alle biciclette. In primis il rosso con cui alcuni percorsi sono colorati: l’art. 49 comma 4 del Codice della Strada recita testualmente: “occorre altresì evitare che il colore rosso utilizzato nei cartelli, nelle insegne di esercizio e negli altri mezzi pubblicitari costituisca sfondo di segnali stradali di pericolo, di precedenza e d’obbligo, limitandone le percettibilità”. E uno. Come facilmente dimostrabile, inoltre, mettere i posteggi delle auto alla destra della pista ciclabile, con le fermate degli autobus sempre sulla stessa corsia, significa rendere questa un percorso a ostacoli di estrema pericolosità. E due. In più sarebbe quasi divertente andare in bicicletta per la città di Genova sulle corsie dedicate e accorgersi che d’improvviso spariscono, come inghiottite dall’asfalto, senza alcun preavviso. E tre. Sempre il codice della strada a proposito delle piste ciclabili contigue al marciapiede, prevede che qualunque tipo di percorso possa essere separato da un’aiuola o da un piccolo cordolo. Qui la colpa è del legislatore: la legge può dire è permesso o non è permesso, è vietato o è obbligatorio: il verbo potere è ambiguo e permette a chi combina guai, di essere esente da colpe. E quattro. Ma fino a ora ho sbagliato tutto, perché (confesso, in modo volontario) ho confuso pista con corsia, che il Codice Stradale distingue. A Genova per esempio non esistono piste ciclabili (strade escluse ai mezzi motorizzati) ma solo corsie che devono essere a destra e contigue ai marciapiedi, non — santo Cielo! — a posteggi auto o fermate del bus. Tipo la trafficatissima genovese Corso Italia, alla quale i geni del traffico comunale hanno levato la doppia corsia. Così la circolazione è rallentata e i ciclisti o gli appassionati di jogging respirano un’aria molto più malsana di prima. Non solo, gli scooter sono “obbligati” a utilizzare la corsia ciclabile, come si può vedere giornalmente, a rischio multa e pericoli vari. Come quando l’autobus in fila si sposta a destra per permettere la discesa dei passeggeri. Così, prima che le cose peggiorino, imploro l’Amministrazione comunale di Genova e di tutti gli altri Comuni della Liguria di fare un esame delle proprie corsie/piste ciclabili (occhio alla differenza) e di fare in modo che la circolazione “verde” sia non solo in regola con la legge ma anche con i criteri di prudenza che stanno alla base del Codice della Strada. Ma ci vuole proprio Striscia la Notizia per farsi ascoltare?
CAM
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Il piccolo Napoleone di Piazza De Ferrari
A quale futuro politico aspira Giovanni Toti, ora impegnato nel secondo mandato in Regione Liguria?
Costui è una scoperta di Berlusconi: lo aveva promosso da bagnino di uno stabilimento balneare versiliese a direttore di Rete 4; sostituto del mitico Emilio Fede, che rendeva servizi vari al padrone, non solo giornalistici.
Scelto da Berlusconi come capo della destra alle regionali liguri, vinceva contro quella Raffaella Paita che imprudentemente dichiarava mesi prima al Secolo XIX: “mi spiace vincere così a man bassa, in assenza di avversari”. Con scarso senso di gratitudine, appena insediato pensava bene di mollare il vecchietto Berlusconi, dato per rincitrullito, fondando il partito personale “Cambiamo”.
Le (in)capacità amministrative di Toti sono acclarate. Ciò che molti trascurano è la sua potenza di comunicazione. Se digiti su Google qualsiasi voce riguardi Regione Liguria, apparirà Toti o comunicati del suo ufficio propaganda. Compare quotidianamente sui Tg delle maggiori reti televisive nazionali, pubbliche, private e satellitari. Eppure rappresenta una regione tra le più piccole d’Italia ed è a capo di un partitino da 1% dei voti. Neppure è molto popolare tra i cittadini liguri. Ne sono prova le ultime elezioni comunali. La più importante era Savona, dove si è speso in prima persona e ha perso sonoramente: la lista che appoggiava Russo ha riportato il 62% dei voti. Idem negli altri comuni: non ne ha conquistato nessuno ed è riuscito persino a perdere giocando in casa: nel Comune di Ameglia dove risiede e dove ha speso milioni clientelari di euro della Regione.
In realtà a Toti tutto questo non importa. Né del suo partito “Cambiamo”, che non può offrirgli prospettive nazionali. Il vero interesse è “Change”, la sua fondazione finita nel mirino della Finanza. Toti sta indubbiamente perdendo popolarità di massa, però mantiene il consenso dell’imprenditoria e della finanza locali. Un mondo che lo sostiene senza risparmio e solo grazie ad esso può rimanere sulla cresta dell’onda.
Così ha rivoltato anche le procedure di funzionamento della Regione, esautorando il Consiglio, cioè l’organo eletto dai cittadini, assegnando alla Giunta — quindi a se stesso — una destinazione discrezionale della spesa senza precedenti; né in Liguria né altrove. Ha creato il “fondo del presidente” indirizzabile a suo piacimento verso amministrazioni “amiche” o a spese personali.
Assistiamo a investimenti ingiustificabili in comunicazione e pubblicità, sempre con i colori arancione del suo partitino però pagati con soldi pubblici, ai tappetti rossi che hanno infestato la regione, bandierine, mascherine griffate, regate, eventi mondani e, ora, sponsorizzazioni delle squadre liguri di calcio in serie A (finché dura!). In un anno Toti spende 2 milioni di euro in promozione, moltiplica lo staff (leggi cortigiani) da 8 a 32 persone, si porta dietro un Segretario Generale dalla natia Massa, premiandolo con l’auto blu e uno stipendio più alto di quello del Presidente Mattarella.
Veniamo da una lunga pandemia. Le indicazioni UE e di ogni persona raziocinante sono di potenziare la rete sanitaria sui territori. Toti che fa? La smantella, taglia la spesa per il personale sanitario, determina la fuga di medici e infermieri, prova a vendere gli ospedali di Albenga, Cairo Montenotte e Bordighera, affitta un piano dell’ospedale di Rapallo, svuota quello di Sarzana sperando di cederlo al privato. Ma non dimentica di aprire nuovi centri commerciali. I sostenitori sono soddisfatti.
NC
FATTI DI LIGURIA
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Illusionismo portuale sotto la Lanterna
Il noto piantagrane Riccardo Degl’Innocenti ha gettato il sasso nella palude del ‘tout va bien madame la marquise’ dello scalo genovese, con un post su Fb da scorticare i signori delle banchine. Poi ha moderato i termini per la pagina di Repubblica curata da Massimo Minella, cultore del già poeta di Arcore Sandro Bondi, di cui pubblicò l’indimenticabile peana dei Malacalza salvatori di Carige. Pubblichiamo il tutto:
L’intemerata Fb
Anche a settembre i traffici del porto di Genova piangono. Cosa aspetta Palazzo San Giorgio ad ammettere la crisi e a cercare soluzioni, invece di mistificare la realtà? La crisi è aperta e grave. Tre milioni di tonnellate di merce in meno rispetto al 2019, di cui un milione nei container.
A Vado Maersk arriva a 165.000 teus (in buona parte “rubati” a Genova), dato ridicolo per un porto progettato e pagato dallo Stato per 800mila teus.
Signorini chieda conto immediatamente dei piani d’impresa dei terminalisti e pubblichi immediatamente il piano dell’organico del porto, con lo stato e le previsioni occupazionali dei terminal e dell’impiego dei lavoratori della CULMV.
Porto, la crisi c’è, inutile nasconderla (la Repubblica 7 novembre)
Si intuisce che la domanda di trasporto deriva dalla domanda dei beni che vengono trasportati. Per questo i trasporti per crescere necessitano di una certa vitalità dell’economia servita. Il porto di Genova opera per l’economia del Nord-Ovest, la regione più ricca e dinamica del Paese, dove si produce la quota maggiore in assoluto del PIL nazionale. Tuttavia, di fronte alla stagnazione o al declino dell’economia di riferimento, consegue il rallentamento o la perdita di traffici da parte dei porti. Nel 2019 il PIL in volume del Nord-Ovest era cresciuto appena del 0,4%, nel 2020 è precipitato a causa della pandemia del 8,9%. Con il “rimbalzo” in atto nel 2021 alla fine si prevede una risalita del 5% circa.
I porti di Genova e Savona, riuniti nell’Autorità di sistema portuale con sede a Palazzo San Giorgio, hanno comunicato i rispettivi dati di traffico alla fine del 3° trimestre 2021. Per giudicarne la capacità di recupero occorrerà pertanto confrontarli con lo stesso periodo del 2019. L’Autorità di sistema ha titolato il suo comunicato stampa con “Prosegue la crescita del traffico commerciale”. Questo è scontato rispetto al 2020, ma non rispetto al 2019. Infatti, rispetto al principale parametro che è il tonnellaggio di merci movimentate, Genova rispetto al 2019 perde 3,3 milioni di tonnellate (-8,1%). Guardiamo al futuro dicono a Palazzo San Giorgio, il calo è dovuto principalmente al declino dei traffici petroliferi, si guardi piuttosto ai container. Ma mentre a Savona i container nel nuovo terminal di Vado crescono (anche se ben lontano dalle previsioni), a Genova un terzo della perdita, oltre 1 mil di tons, è proprio di merce in container, la “regina” a cui Palazzo San Giorgio ha legato l’unica visione di futuro e oltre 2 miliardi di investimenti pubblici in infrastrutture, per raggiungere il traguardo di 6 milioni di teus di cui parla da oltre 10 anni. La proiezione per quest’anno dei due porti assieme è di 2,85 mil di teu. A un tasso di crescita annuo del 5% (per niente scontato) bisognerà aspettare almeno 15 anni per raggiungere 6 mil, nel 2036, e chissà quale sarà il mondo di allora. Genova a dire il vero perde poco in numero di teus (-0,5%) anche grazie al nuovo terminal Bettolo, in cui lo Stato ha investito aumentando ulteriormente l’offerta, senza evidente riguardo per la domanda. Genova perde tanto invece in tonnellate (-5,5%), che significa che si movimentano molti contenitori vuoti oltre al motivo che è in atto uno spostamento graduale di merce da Genova a Savona, per cui cantare vittoria a Savona è davvero inutile.
A questo giro di trimestre, si è detto che a Genova hanno fatto il boom le rinfuse solide, la cenerentola genovese delle merci, destinate forse all’estinzione. Il terminalista Spinelli, per sostenere la richiesta di proroga della concessione, ha indicato nelle rinfuse secche un nuovo successo di traffici. È vero: le rinfuse sono cresciute dal 2019 del 22,9%, ma pari appena a 100mila tons e alla fine contano l’1,5% del totale del porto. Peraltro, nello stesso periodo a Savona le stesse rinfuse secche sono crollate del 35% perdendo 700mila tons. A riprova di una crisi profonda a cui Palazzo San Giorgio come responsabile del sistema e della pianificazione strategica dovrebbe dare da tempo delle risposte in termini progettuali, non lasciandole solo ai terminalisti alle prese con i loro interessi particolari e contingenti, per non perdere una specializzazione che conserva un precipuo valore aggiunto.
Se dunque il porto non può sorridere è perché l’economia da cui dipende soffre. Non l’economia del mondo bensì, tanto per Genova che per Savona, quella del Nord-Ovest dove quasi la totalità delle merci in import è destinata e da dove originano quelle in export. Inutile allo stato attuale sognare navi giganti cariche di merce da e per tutto il mondo, a meno di non aspirare a fare il semplice casellante per fare correre le merci sino in Svizzera o Germania, a esclusivo vantaggio e reddito degli operatori e degli utenti di quei traffici, tutto fuorché liguri o genovesi o savonesi e nemmeno italiani. Occorre smettere di sbrodolarsi addosso celebrando le grandi opere e traffici in perenne crescita, e rimboccarsi invece le maniche per uscire fuori da questa crisi, a cominciare da smettere di nasconderla o peggio mistificarla da progresso.
FATTI DI LIGURIA
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Lettera aperta a ragazze e ragazzi di Liguria
Cari nipotini,
settimane fa, dopo la clausura Covid-19, ritrovavo l’antico piacere dell’incontro partecipando a un convegno sul futuro della nostra regione. E scoprivo entrando in sala che nulla era cambiato: il solito assembramento di nuche grigie o candide. Il tema era importante, ma la partecipazione anagrafica vedeva l’assenza di quanti avrebbero davvero dovuto interessarsene.
Certo, “su questo piccolo pianeta siamo tutti solo di passaggio”; come su questa striscia di terra ligure, stretta e compressa tra la montagna e il mare. Però il tempo della permanenza di quelli come me si presume assai più corto di quanto a vostra disposizione. E dunque: perché tale disinteresse? Mentre noi vecchietti continuiamo ad appassionarci.
Ormai la partecipazione al discorso pubblico è diventato un rito che i più giovani rifiutano a priori. Eppure ancora pochi anni fa vi incontravo a lezione e percepivo in maniera lampante quanto grande fosse il vostro bisogno di orientamento; sia per quanto concerne la prospettiva individuale che per la complessità generale in cui dovete vivere la vostra età; gli anni delle scelte decisive.
Mi piacerebbe capirlo e – penso – a voi converrebbe farvi capire per capirvi.
L’idea che mi sono fatto è che siete vittime di una sottrazione e – insieme – di qualche trappola.
Nel primo caso in quanto privati di ciò che un tempo si chiamavano “agenzie di socializzazione”: noi vecchi eravamo accompagnati alla vita pubblica nei luoghi in cui apprendere a muoversi in una società strutturata (l’associazionismo giovanile di partito e delle organizzazioni para-religiose). Ma prima ancora – pur con tutti i loro limiti – trovavamo nella famiglia e nella scuola i canali di accesso al mondo. Strutture primarie oggi disarticolate dalla crisi della genitorialità (probabilmente noi, ingombrante generazione del ’68, abbiamo destabilizzato la successiva, quella dei vostri padri) e dallo smarrimento dell’idea di educazione alla cittadinanza; persa nei meandri della formazione aziendalista (ridotta alle tre “I” semplicistiche e conformistizzanti “inglese, impresa, internet”).
In quanto alle trappole, mi riferisco a insidie sia ideologiche che tecnologiche. Nel primo caso, la predicazione ingannevole tanto del possesso (l’idea che l’identità discende dal consumo) che del successo (la falsa convinzione che il fine giustifica i mezzi. “E chi giustificherà i fini?” si chiese un grande del secolo scorso). Mentre le tecnologie “indossabili” (smartphone, tablet e altri gadget) favoriscono il rendezvousing, la reperibilità, ma inducono solitudine. Di più: hanno aumentato il divario tra fasce anagrafiche, a rischio d’incomunicabilità: noi siamo l’ultima generazione del libro, perciò dotati di mentalità sequenziale portata all’astrazione; voi siete la prima generazione della schermata, addestrata alla simultaneità che tende a pensare per esempi e immagini iconiche. Sicché siamo diventati due specie umane con grosse difficoltà a comunicare e intendersi. Eppure avremmo estremo interesse a farlo. Magari scambiando la vostra attitudine a parlare il linguaggio delle innovazioni al silicio, noi a consolidare sicurezza relazionale. Come farlo?
PFP
FATTI DI LIGURIA
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Prove di democrazia bucciana in Val Bisagno
L’occasione è ghiotta. Incontro con sindaco, assessori, presidente della commissione trasporti della camera per parlare di skytram il nuovo vettore veloce per unire Prato a Brignole. Molto strombazzata questa assemblea, tanto che era prevista la partecipazione di solo 80 persone causa capienza e Covid. Inizio ore 17.30 solo su prenotazione. A quell’ora si comincia senza sindaco e presidentessa della commissione trasporti, Lella Paita. Presenti 40 persone e per riempire la sala si fanno entrare tutti i passanti non prenotati e si chiamano gli amici degli amici. Il presidente dell’assemblea detta le regole: prima i tecnici per illustrare il progetto, parleranno dieci minuti l’uno, poi i politici 5 minuti l’uno per ogni partito, poi i cittadini che potranno parlare per fare una domanda per un minuto, infine il sindaco parlerà all’ultimo senza possibilità di replica. Inizia l’illustrazione, dopo un po’ arriva il sindaco che si presenta alle sei senza aver sentito le relazioni del gruppo di lavoro della associazione di Prato e poi dei tecnici. Intervengono i politici che a parte i 5 stelle e il presidente di municipio sono tutti uniti e insieme nel santificare l’opera che non c’è e lo sanno bene, conclude il sindaco con una sequenza di balle che fanno luce e ovviamente senza contradditorio. In sostanza lui era favorevole al tram quando l’ha proposto in campagna elettorale dove, evidentemente tecnici di sua fiducia glielo avevano suggerito. Diventato sindaco si mette a studiare con altri tecnici di sua fiducia e scopre che ci sono i sotto-servizi da spostare, cosa già nota ai tempi della Vincenzi che fissò allora il costo, ovviamente su input dei tecnici in 30 milioni al km, ma comunque da fare. Dieci anni dopo i costi sempre ispirati dai tecnici sono lievitati: 80 milioni e il blocco della val Bisagno per anni (non prevista dai tecnici ai tempi della Vincenzi), in un contesto in cui le tecnologie costruttive hanno fatto passi da giganti il triplicamento dei costi è una balla, come il blocco della val Bisagno già esclusa ai tempi della Vincenzi. Ma il sindaco non si ferma, dopo aver rifiutato di presentare il progetto al Municipio ha anche deciso che lo skytram si fermerà a Molassana, e in questo senso è partita la richiesta a Roma. Alle rimostranze dei Pratesi e dei residenti di Struppa ha detto che non c’è problema, come se si potesse scrivere al ministero: mo’ scusate ci siamo sbagliati costa 500 milioni aggiungete gli altri per 4 km.
Il punto è che non ci sono i soldi stanziati dal governo, non c’è un progetto esecutivo e come da orientamento classico di questa amministrazione lo skybus passerebbe in sponda sinistra, cioè dove ci sono le aziende e non sul percorso del 13 dove ci sono le residenze e i numerosi interscambi collinari. Basti pensare che la prima fermata a partire da Brignole sarà a Decahtlon un chilometro e mezzo dopo, saltando scuole, palestre e stadio, tutti soggetti che notoriamente non sostengono la campagna elettorale di sindaco e presidente della giunta regionale. In sostanza, non c’è un soldo, non c’è un progetto esecutivo, non c’è alcun parere preventivo sull’opera data dai municipi attraversati e meno che meno da cittadini e associazioni del ricco tessuto sociale del territorio.
Un ultimo rilievo per la stampa, che si limita al compitino senza informare i lettori delle balle assolute del progetto, del percorso escludente, dei soldi che non ci sono. È’ facile capire perché gli abitanti di Prato chiamati a partecipare alla assemblea se ne siano strabattuti; e smettano di comprare i giornali che smettono di dare quelle informazioni per cui erano chiamati “il Quarto Potere”.
Andrea Agostini
FATTI DI LIGURIA PONENTE
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Il Passo della Morte, la strage continua
Siamo sul costone di roccia che divide Ventimiglia da Mentone, l’Italia dalla Francia, frontiera vera e travagliata.
Montagna e bosco, sentieri impervi, da sempre luogo carico di storia, di passaggi clandestini nelle varie epoche: i contrabbandieri, gli antifascisti, gli ebrei in fuga dalle leggi razziali, i migranti di ieri e di oggi. Si cerca il passaggio verso la libertà, molto spesso si è incontrata la morte.
Ancora nella notte di sabato 6 novembre è stato trovato un cadavere in un dirupo sottostante il cosiddetto “Passo della Morte”, il sentiero ricavato nella roccia più usato e più pericoloso, e solo la domenica mattina 7 novembre è stato possibile recuperare il corpo del giovane migrante, caduto nel tentativo di raggiungere la Francia.
Contemporaneamente, nelle stesse ore, i Vigili del Fuoco sono intervenuti per salvare tre migranti tunisini che stavano di nuovo tentando il “Passo della Morte” rischiando di precipitare nel burrone sottostante.
I tunisini, stremati, si erano persi nel bosco e rischiavano di precipitare — anche loro — in uno dei tanti precipizi della montagna.
La frontiera francese respinge tutti i migranti che vogliono raggiungere altri Paesi.
L’emergenza sociale è aumentata, il fenomeno dei passeur è aumentato enormemente da quando non ci sono più presidi istituzionali, da quando è stato chiuso il campo Roya dall’agosto 2020, dove i migranti, adulti e bambini, potevano trovare un ricovero provvisorio e gestito.
Ora i tanti migranti che si avvicinano alla frontiera per andare oltre si ammassano e si disperdono incontrollati, respinti e abbandonati a loro stessi, salvo una rete di volontariato che argina come può la situazione, con un pasto caldo, con un indumento pulito, una coperta. Precariamente.
Questa è la situazione ancora oggi, nonostante le cicliche morti proprio sul “Passo della Morte” o sugli altri passaggi non ufficiali (travolti sull’autostrada a piedi, annegati in mare, fulminati sul tetto dei treni…) che la CGIL Imperia ha ancora elencato pietosamente in questa ultima circostanza con una conclusione: “Ormai è chiaro a tutti che serve un campo di accoglienza, dove oltre al cibo siano disponibili anche le informazioni per evitare di affidarsi ai passeur e rischiare di morire.”
Il fenomeno migratorio è una responsabilità sovrannazionale.
Sulla nostra frontiera dal 2015 si vive una situazione inaccettabile, nel silenzio dei più.
Da una parte la Francia persegue la politica dei respingimenti.
Inutile scegliere la strada della militarizzazione, della repressione, della negazione di un’accoglienza di base, come sembra perseguire sul fronte italiano il Sindaco della Città di Ventimiglia Scullino.
Gli incidenti, le morti, il disagio sociale – dunque la sofferenza e l’insofferenza, entrambe tangibili — devono essere gestite e non taciute, restituendo dignità alle persone in transito e alla città tutta, nel più breve tempo possibile.
DC
FATTI DI LIGURIA
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Paita, l’audace colpo della solita nota
Assisto basita – prima di tutto come donna – all’ininterrotta sequenza di mosse con cui la deputata ligure di fede renziana Raffaella Paita si danna a dimostrare come una donna di potere possa essere più fallocratica degli ometti. Con questo intendendo una pervicace volontà di atteggiarsi a vestale di una visione tutta al maschile, per cui il potere non serve se non se ne abusa e l’unica cosa che conta è fare carriera. Sfrenata ambizione e cinismo senza limiti. Come il suo capo branco ormai pendolare tra le consulenze in Arabia Saudita e i business russi.
Non contenta di perseguire l’imbarco sul carro del presunto vincitore alle prossime amministrative genovesi – il destrorso sindaco uscente Bucci – approfitta della carica di presidente della commissione Trasporti della Camera per inviare un messaggio amoroso a quei padroncini confindustriali convinti – come il grossista di prodotti medicali e loro presidente Carlo Bonomi – che diritti e controlli tradiscano uno spirito anti-industriale. Intendendo regola primaria del fare impresa “non disturbare il manovratore”. Bastone e carota (molto bastone e poca carota) come il massimo per il governo d’impresa
Difatti la Lella-tespiezzoindue-Paita, moglie di quel Luigi Merlo parcheggiato in una poltrona dirigenziale in MSC Crociere dopo essere stato per otto anni presidente dell’Autorità Portuale di Genova (alla faccia del conflitto di interesse!), se ne è uscita con un emendamento al Decreto Infrastrutture che taglia ogni possibilità per Comuni e Sovrintendenze di interloquire nelle scelte portuali di uso del territorio. Questi porti che spesso vanno a innestarsi senza soluzione di continuità nel tessuto urbano
Già la riforma Del Rio aveva estromesso le categorie dalla governance portuale, secondo l’assunto che democrazia e partecipazione sono solo perdite di tempo. Ora si taglia le città e gli enti paesaggistici. Per quale motivo?
Sostanzialmente nella convinzione che così facendo si dimostra il proprio allineamento a quello che un provincialotto di Reggio Emilia e una ragazza in carriera della Val di Magra sono convinti essere il non plus ultra del mainstream. L’ortodossia al tempo della mercantilizzazione di ogni ambito della vita. Un grazioso dono al Moloch NeoLib per riceverne benevolenza e – appunto — qualche spintarella alla carriera. Ossia le ricette politiche di quella Terza Via, ormai raggrinzita, legata ai nomi di Bill Clinton e di Tony Blair; smascherata in tutta la sua pochezza dal crollo di Wall Street del 2008, dalle avventure afgane pedissequamente al seguito di Bush junior. Dal dolore inflitto ai lavoratori licenziati e alle famiglie impoverite. Ma chi se ne frega — pensa la Paita. In trepida attesa di essere cooptata nel Garden Club degli ottimati.
Maura Galli
FATTI DI LIGURIA
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Avere l’acqua alla gola
“Il livello del mare lungo le coste italiane sembra destinato a salire nei prossimi decenni, con conseguenti gravi problemi per le città costiere”, scrive Daniela Cassini in “Innalzamento marino, un tema per i Friday for Future liguri (e non solo)” nella newsletter del 30 ottobre, citando due studi sugli effetti del riscaldamento globale, uno della Nasa e uno intergovernativo Europa-Usa.
L’allarme è stato confermato da uno studio condotto da ricercatori di università USA (Princeton e Columbia) e della Germania (Potsdam), pubblicato su Environmental Reserch Letters. Le conseguenze del riscaldamento globale sono arrivate a un punto tale che, se anche si riuscisse a bloccare immediatamente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e a fermare l’incremento di temperatura a 1,5 °C sopra il valore del periodo pre-industriale, il livello dei mari continuerebbe a crescere per secoli a venire.
Sono destinate a essere sommerse grandi aree urbanizzate che, attualmente, ospitano mezzo miliardo di persone. Ma se non si riuscisse a fermare l’aumento della temperatura media globale e l’atmosfera dovesse riscaldarsi di un altro mezzo grado, al mezzo miliardo di persone se ne aggiungerebbero altri 200 milioni almeno: una popolazione complessiva di 700 milioni di individui si ritroverebbe disarmata di fronte alle nuove complessità di quell’ambiente mutato.
Tutte le aree del Pianeta sarebbero toccate dal problema, ma le conseguenze più devastanti sarebbero per alcune zone dell’Asia. Anche in Italia sarebbero coinvolte da qualche centinaio di migliaia fino a qualche milione di persone, che sarebbero costrette a fuggire dai propri luoghi di residenza. Tutte le città costiere liguri sono a rischio. Venezia è un caso limite, ma “l’acqua alle ginocchia” riguarderà molte altre città.
La ricerca ipotizza che entro la fine del secolo i mari si alzeranno da mezzo metro fino a poco meno di un metro, a seconda di quanto si riuscirà a contenere l’aumento della temperatura terrestre. A tutto questo si aggiunge la previsione che il livello degli oceani continuerà a salire per altre centinaia di anni dopo la fine di questo secolo, alimentato dal calore immagazzinato negli oceani, dalla dinamica del riscaldamento dell’acqua e dallo scioglimento dei grandi ghiacciai: tutto questo indipendentemente dalla dinamica del riscaldamento dell’atmosfera a venire.
«Non è dunque una questione di “se”, ma di “quando”», sostiene Benjamin Strauss, capo scienziato di Climate Central e coordinatore della ricerca. Secondo una serie di calcoli, sul lungo periodo la crescita del livello del mare potrebbe arrivare fino a 6/9 metri e costringerebbe città che attualmente ospitano quasi un miliardo di persone a costruire massicce strutture difensive o addirittura a “migrare” in luoghi più elevati. Conclude Strauss: «Non c’è dubbio che siamo messi male, ma non è mai troppo tardi per fare meglio». «Limitare comunque il più possibile il riscaldamento globale ci farebbe almeno guadagnare un po’ di tempo per adattarci», commenta il divulgatore scientifico Luigi Bignami. Adattarci: in Italia dovremmo dotarci di un apposito piano di resilienza, come ha fatto l’Olanda. Così in Liguria, dove continuiamo a progettare e a costruire sulla linea di costa senza pensare allo scenario più probabile: porti inutilizzabili e spiagge cancellate. Servirebbe, per usare le parole di Daniela Cassini, “lungimiranza”. Insomma, classe dirigente cercasi.
GP
FATTI DI LIGURIA
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Riceviamo dall’ufficio economico Liguria CGIL, responsabile Marco De Silva, il dato genovese, che completa il quadro regionale a livello provinciale. Di cui abbiamo già pubblicato il dato imperiese (15.9), spezzino (15.10) e savonese (31.8)
Occupazione nella provincia di Genova: analisi ragionata dei dati
Dall’inizio delle serie storiche ISTAT relative all’occupazione in Liguria (datata 1977) ricaviamo che solo due volte la regione è rimasta – come media annuale – al di sotto dei 600mila occupati; nel 1983, quando si toccò il fondo con 570.727, e nel 2014 con 599.147.
Il 2020, primo anno pandemico, segna un calo di 10.509 occupati rispetto all’anno precedente (- 1,72%) e addirittura un -5,42% (cioè -34mila posti di lavoro) rispetto ai massimi del lontano 2008.
Genova città Metropolitana cala dell’1,4% sul 2019 e vede avvicinarsi il suo minimo storico del 2014 di 325,500 occupati.
Calano tanto i maschi (-1,55%) quanto le femmine (-1,2%).
Rapporto occupazione di genere: maschile/femminile: 55% a 45%-
Comune di Genova: nel 2020 calo del solo 0,43% rispetto all’anno precedente, molto meno del livello provinciale. Rispetto ai minimi del 2014 Genova è ancora sopra del 2,4%; ma ormai si è lontani di 15.496 dai massimi del 2008 (-6,3%).
Però Genova ha il tasso di occupazione più basso (64,3%) tra tutti i grandi Comuni del Nord-Ovest, nonostante sia in lieve aumento sul 2019.
Disoccupazione genovese: cala nel 2020 di oltre 5mila unità (-20.6), ma il tasso di disoccupazione del Comune di Genova (8,4%) rimane il più alto del Centro-Nord.
Il tasso più basso è quello di Bologna, che tuttavia cresce dal 3,3 al 3,9%.
Inattivi: oltre 102mila persone – tra i 15 e i 64 anni – a Genova non lavorano né cerca lavoro: +3,5 sul 2019. Solo Venezia, con il 31,4%, ha un tasso di inattività più di quello genovese (29,8%).
Nuove assunzioni nella provincia di Genova: 17% va fuori regione; 55% contratti a 6 mesi, di cui 54% maschi e 46% donne;
Istruzione: il 59% al massimo con licenza media.
Tipologie mansioni prevalenti: 8,4% commessi, assistenza alla persona 7,6%, camerieri 7,3%;
Tipologie per genere: per maschi 12,1% facchini, per femmine 14,3% assistente.
Studenti in Genova: 85.308 (54% sul dato ligure), di cui 13,4% stranieri.
Demografia: sul saldo naturale 2020, –17.106 regionale. -9.770 città metropolitana, -6.822 Genova città. Al 31 luglio il Comune di Genova contava 554.277 abitanti (-4.653 sul gennaio 2021: -8,32 per mille)
CGIL Liguria, elaborazione Marco De Silva
FATTI DI LIGURIA
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Per gentile concessione di Piazza Levante pubblichiamo l’abstract del loro editoriale dell’11 novembre scorso, nonostante il diverso parere sul Parco di Portofino della redazione de La Voce del Circolo Pertini, che non apprezza minimamente l’affarismo totiano, per di più su un’area di tale pregio
Sommesse domande a Toti su parco di Portofino e Diga Perfigi
Giovanni Toti ha ingaggiato una battaglia di principio contro la realizzazione del Parco Nazionale di Portofino, calata dall’alto per decisione del TAR del Lazio. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso dell’associazione Amici di Portofino, ed hanno imposto al Ministero dell’Ambiente di dare attuazione alla Legge Finanziaria del 2018, che ha istituito il Parco di Portofino grazie ad un emendamento del Senatore Caleo, sarzanese del Pd.
Il ricorso era stato presentato contro l’inerzia della Regione Liguria e dei Comuni interessati.
Il Parco attuale, che esiste da moltissimo tempo, è un parco regionale ed ha un’estensione di circa 1000 ettari. È molto ben tenuto anche se soffre un po’ di mancanza di finanziamenti che la Regione Liguria non riesce a dargli.
La proposta del Ministro all’Ambiente Cingolani, prevede un’estensione di 5363 ettari, molto più vasta quindi di quella del parco regionale oggi esistente. Inoltre prevede anche un allargamento del numero dei comuni coinvolti.
Ora, è certamente vero che un tema così delicato come la perimetrazione di un parco nazionale e le implicazioni conseguenti per il territorio e le popolazioni non possono dipendere da una decisione della magistratura, che non ha come fine di istituto il governo del territorio.
Toti ha quindi ragione da vendere nel dire che su un argomento di questa importanza è imprescindibile ascoltare la voce dei Comuni coinvolti, della popolazione, delle associazioni e della società civile e che l’unico metodo da adottare è quello costituzionale della ‘leale cooperazione’ tra enti e istituzioni.
Vorrei però sommessamente sollevare almeno due questioni.
La prima è relativa alla colpevole inerzia di Regione Liguria sull’argomento. La sensazione è che sia stata messa la testa sotto la sabbia e che, interpretando come maggioritarie le lamentele e le opposizioni contro l’istituzione del Parco Nazionale provenienti da più parti (non sono infatti solo i cacciatori a non volerlo), si sia provato a far finta di niente, come se una legge nazionale non esistesse e non fosse in vigore.
A mio avviso si sarebbe invece dovuto utilizzare il tempo a disposizione e il peso politico di Regione e Comuni per lavorare a una proposta, e presentare un ragionamento capace di far percepire ai
La seconda questione sottende una domanda al Presidente Toti: Giovanni, ma perché nel caso del Parco di Portofino tu giustamente dici che è imprescindibile ascoltare i Comuni, il territorio, le associazioni, la società civile e invece a proposito della Diga Perfigli non fai altrettanto? Al riguardo tu, la tua Giunta, il Sindaco metropolitano Bucci (mai eletto dalla gente del Tigullio) siete completamente sordi alle indicazioni dei Comuni della piana dell’Entella, i quali hanno compiuto atti formali per scongiurare lo scempio della piana, alle proteste delle associazioni ambientaliste, con Italia Nostra e Legambiente in testa, al volere delle migliaia di cittadini che hanno raccolto firme contro il mega-muro di cemento. Anche in questo caso non dovrebbe applicarsi il sacrosanto principio costituzionale, da te giustamente richiamato per la vicenda del Parco di Portofino, della ‘leale collaborazione tra enti e istituzioni’?
Antonio Gozzi
FATTI DI LIGURIA
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Sanac e la crisi industriale savonese
Le cronache savonesi stanno dedicando poco spazio alla difficile situazione SANAC, storica azienda vadese di materiali refrattari legata al ciclo siderurgico.Una vertenza complessa che dura da anni, con il rischio evidente di una riduzione dell’attività produttiva.
Il caso Sanac, partecipata di Invitalia con quattro centri produttivi in Toscana, Sardegna, Piemonte e Liguria, che nel sito di Vado Ligure occupa 85 lavoratori, continua a tenere banco; visto che da Taranto non stanno arrivando ordinativi da giugno. E, cosa più grave, Arcelor Mittal non ha ancora completato la promessa acquisizione degli stabilimenti, avendo fatto scadere le fidejussioni date in garanzia e non presentandosi all’audizione parlamentare del 4 novembre.
Nella realtà savonese la situazione della SANAC richiama, oltre alla drammaticità specifica, alcuni temi sui quali porre l’attenzione sul piano politico. I punti di fondo principali sono due:
1) l’esigenza del progetto di reindustrializzazione della zona compresa tra Savonese e Val Bormida;
2) L’avvio di un ripensamento strategico del concetto di “area industriale di crisi complessa”: dal decreto del 2016 a oggi i risultati dell’operazione non hanno fornito esiti tangibili.
Al momento sono disponibili 20 milioni di euro: a giugno 2021 erano state ammesse alla fase istruttoria 3 aziende (Cartiere Carrara, First Plast, Esso Italiana), per un totale di nuovi 61 posti di lavoro, e messe in graduatoria altre 7 aziende per 46 posti di lavoro. Ammesso l’esito positivo delle istruttorie e successivi reinserimenti, l’effetto occupazionale pare modesto.
D’altro canto si segnala la prospettiva di un investimento importante in Bombardier, per la realizzazione a Vado del nuovo capannone da 220 metri in cui realizzare la grande manutenzione sui treni e sviluppare almeno parte delle nuove produzioni di convogli a idrogeno; per i quali Alstom sta mettendo in campo investimenti e le più moderne tecnologie.
Sono due esempi — crisi SANAC e prospettive Bombardier — delle concrete opportunità di rafforzamento infrastrutturale e tecnologico presenti nel panorama industriale del comprensorio.
La questione infrastrutture resta delicata e il tema dell’isolamento senz’altro stringente: da affrontare sia sul piano della viabilità su gomma, sia rispetto al trasporto ferroviario.
Infrastrutture, rafforzamento tecnologico, crescita occupazionale: tre punti urgenti per tutti i soggetti coinvolti nel caso SANAC; da inquadrare in disegni di nuova industrializzazione. Dunque, oltre al già richiamato discorso sulle infrastrutture, anche l’utilizzo delle aree industriali dismesse; con l’inserimento del sito di Vado Ligure nel processo previsto dal PNRR di rinnovamento delle fonti energetiche e delle tecnologie digitali.
Il primo passo in questa direzione – almeno dal punto di vista istituzionale – sarebbe la creazione di un punto permanente di confronto tra Enti Locali, Regione, Governo. Una struttura in cui il Comune di Savona (finora spettatore pressoché passivo) assuma la posizione di vero e proprio capofila, avviando nel concreto una prima applicazione del concetto di “comprensorialità”; includendo gli enti del savonese e quelli della Val Bormida.
Ossia la redazione di linee di pianificazione, entro le quali si tengano assieme le questioni portuali, urbanistiche, della viabilità, della trazione ferroviaria, dell’utilizzo delle aree industriali dismesse, dell’innovazione tecnologica nell’ottica di un equilibrato concerto tra regia pubblica e iniziativa privata. Secondo un’effettiva progettualità strategica.
Franco Astengo
FATTI DI LIGURIA
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Questione energetica. La Spezia chiama Glasgow
Il risultato finale della Cop26 sul clima è stato un crac, del resto annunciato. L’era del carbone non è finita, tantomeno quella del gas. Nessuna decisione degna di rilievo è stata presa, nonostante sia chiara a tutti la drammaticità della crisi climatica. L’unica garanzia che abbiamo è la mobilitazione popolare permanente per scuotere davvero la politica.
Un piccolo segnale che le cose possono cambiare viene dalla Spezia, dove la pressione civile contro il progetto dell’Enel di realizzare una nuova centrale a turbogas – la nostra news ne ha scritto nei numeri del 15 aprile, del 31 maggio, del 15 e del 31 luglio – ha spostato sul no l’insieme delle forze politiche, anche quelle di centrodestra, al governo di Comune e Regione, inizialmente favorevoli.
Nelle ultime settimane sono intervenute novità importanti: dopo il voto unanime contro la nuova centrale del Consiglio Comunale c’è stato anche quello del Consiglio regionale. Mentre il Comune non ha poteri in materia, la Regione ne ha: la legge prevede infatti, per impianti di questa natura, l’intesa del Governo con la Regione. Se l’intesa viene negata, il progetto decade.
Ciò che è avvenuto finora in Regione tuttavia non basta, e la spinta democratica deve proseguire. Un ordine del giorno del Consiglio ha valore, ma ancor più lo ha un atto amministrativo: una delibera della Giunta regionale. Il no della Regione all’intesa con il Governo (se il Governo dovesse andare avanti) è a questo punto obbligato, ma va ben motivato con un atto amministrativo, fondato sia su considerazioni sulla specificità del sito spezzino – e quindi sull’inammissibilità di far insistere all’interno del perimetro edificato urbano, caso unico in Italia, tra case, palazzi e quartieri, una centrale elettrica a combustibili fossili – sia sul richiamo alla dichiarazione di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale, secondo cui i 500 MW previsti alla Spezia con il turbogas non sono più necessari nel quadro nazionale di produzione di energia (l’altra novità importante di questa ultima fase).
Ancora: c’è una procedura di VIA (Valutazione di impatto ambientale) in corso. La Regione dovrebbe intervenire per sostenere la sua nuova posizione, che renderebbe inutile la stessa procedura. Bene ha fatto la “Rete per la rinascita delle aree Enel di Vallegrande” a chiedere l’archiviazione della procedura, per iniziare subito una discussione sulla bonifica del sito e sulle prospettive di nuovo utilizzo dell’area. Regione e Comune dovrebbero fare altrettanto.
Nulla è scontato anche perché, sul gas come sul nucleare, le lobby non mollano. Sui tavoli della Commissione europea c’è un dossier da chiudere. Si chiama “tassonomia”, ed è un sistema con cui l’Ue definisce quali sono le attività economiche da ritenersi sostenibili. Ad aprile l’Ue era orientata a escludere il gas e il nucleare dalla “tassonomia”, ma da allora sono cominciate le pressioni degli Stati e dei potenti gruppi di interesse legati al gas e al nucleare. Pressioni che sembrano avere avuto la meglio: l’Unione europea sta vacillando, mentre il Governo Draghi vacilla fin dall’inizio, pressato da Eni e Enel. L’unica speranza è la marea umana per il clima che abbiamo visto nei giorni scorsi a Glasgow e in molte altre città. Che sia questa la nuova sinistra globale?
GP