Numero 11, 31 luglio 2021

PILLOLE

Le due colline del disonore

Nel corso degli anni ‘80 tre province liguri su quattro videro dissolversi il proprio modello di sviluppo basato sulla grande impresa partecipata dallo Stato. Invece di avviare nuove progettazioni sostitutive, le classi dirigenti s’inventarono due narrazioni consolatorie per deviare l’attenzione dalla loro inettitudine; in effetti due speculazioni mascherate da terapie salvifiche, entrambe in collina: Erzelli tempestata dai venti, presunta sede di un parco tecnologico che avrebbe fatto concorrenza a Silicon Valley, l’inselvatichita Morego dove sorgeva IIT, l’istituto privato al servizio del balzo tecnologico nazionale. E chi dubitava era immediatamente crocefisso. Ora l’operazione Erzelli è un buco nero finanziario; l’imbonitore Cingolani, ras IIT, viene smascherato agente dell’affarismo.

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Legambiente sui parchi liguri

Pessime notizie per i parchi liguri: la Regione Liguria ha appena nominato direttore del parco di Montemarcello Magra Vara il dirigente della Regione che già svolge questa funzione su altri tre parchi liguri. Ci si chiede come possa un solo direttore governare bene dal punto di vista amministrativo e progettuale quattro parchi regionali su sei. Qualche giorno fa Goletta Verde, nella sua tappa ligure, ha assegnato alla nostra Regione la bandiera nera proprio per la politica negativa sui parchi, sanzionata anche dalle sentenze della Corte Costituzionale. La decisione riguardante il direttore del Parco Montemarcello Magra Vara non fa purtroppo che confermare il nostro giudizio.

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Buone notizie…

Visto l’avvicinarsi delle ferie, sempre che ci sia qualcuno tra i meno abbienti che riesca a godersele, tra le spiagge liguri sempre meno libere, quando si scova una buona notizia vale la pena di amplificarla. Quattro negozi che in molti conosceranno sono stati inseriti nell’Albo delle Botteghe Storiche di Genova: Ferramenta Caffarena, Merceria Fassio, Ghiglino 1893 e Caffè degli Specchi. Secondo un protocollo d’intesa firmato a febbraio, una delle caratteristiche per entrare nell’Albo è i 50 anni di attività. Se da un lato Palazzo Tursi dà, dall’altro però leva. Perché il proliferare dei centri commerciali, in continuo agguato, non farà che accelerare la chiusura di tante altre botteghe. Il nucleo portante dell’artigianato, del commercio e della vita stessa del nostro capoluogo.

EDITORIALI

Tre esperti di siderurgia già Italimpianti – Egildo Derchi, Roberto Guarino e Gianfranco Tripodo – hanno elaborato per Federmanager un progetto di rilancio del settore, grazie anche alle interdipendenze tra gli stabilimenti di Taranto, Cornigliano e Novi L., di cui pubblichiamo una sintesi.

Taranto e Cornigliano: destini intrecciati

Il futuro siderurgico di Taranto e quello di Genova e Novi, questi ultimi legati al primo per l’approvvigionamento di coils, dipende da nodi mai sciolti da decenni: investimenti ecologici individuati e mai realizzati dall’IRI, poi dai Riva, fino all’insensato ampliamento del rione Tamburi a ridosso del Centro tarantino. Oltre alla cronica assenza di una vera politica industriale, che facesse sintesi tra velleità politiche, istanze ambientaliste, non sempre supportate da dati scientifici inoppugnabili, statiche difese sindacali dell’occupazione e in ultimo le scelte del nuovo azionista Arcelor Mittal Italia hanno indotto il legittimo sospetto che il vero obiettivo dell’acquisizione fosse quello di eliminare un pericoloso concorrente. Tutto ciò nonostante l‘evidenza che un Paese industriale a vocazione manifatturiera non può fare a meno di una produzione siderurgica. In sostanza, è mancato un soggetto in grado di indicare obiettivi chiari e un partner come l’ormai defunta Italimpianti in grado di proporre e implementare soluzioni impiantistiche adeguate.

L’attuale ingresso dello Stato nell’azionariato della ex ILVA, ora Acciaierie d’Italia, potrebbe essere l’auspicato motore del cambiamento; anche grazie alla sentenza del Consiglio di Stato, che ha dichiarato illegittima la delibera del TAR di Lecce di chiusura dell’area a caldo. Ovvero la morte definitiva di uno stabilimento a ciclo integrale (acciaio da minerale di ferro e carbone tramite altiforni e convertitori).

Stante l’assunto dell’indispensabilità per il Sistema-Italia di una produzione qualitativa di acciaio (stimata tra 6 e 8 milioni di tonnellate annue), fatta salva la salvaguardia di ambiente e persone, un gruppo di progettisti ex Italimpianti ha messo a punto un progetto fattibile in tempi brevi per produrre in maniera più ecologica tali quantità. Inizialmente un sistema misto, per arrivare nell’arco di un decennio alla completa conversione del ciclo a Riduzione Diretta – Forno Elettrico. Tutto questo completando gli indispensabili interventi ambientali. Gli altiforni devono essere messi “a norma” e progressivamente sostituiti da impianti di Riduzione Diretta e Forni Elettrici grazie a un investimento di 1,5/2 miliardi di euro. Cui vanno aggiunti gli oneri di CiG necessaria nel transitorio.

Per quanto riguarda gli aspetti occupazionali – secondo lo studio – Taranto passerebbe da 8.200 a 6.900 addetti, mentre Cornigliano e Novi potrebbero evitare esuberi a patto si proceda agli ammodernamenti necessari. Con una produzione senz’altro più green di quella attuale i costi di produzione saranno superiori a quelli di chi, cinesi e indiani, continuerà a produrre con il ciclo altoforno. Ma questo è un problema che è l’Europa a doversene fare carico.

Per quanto riguarda gli impianti di Cornigliano va constatato il grave ritardo nell’aggiornamento tecnologico. Lo studio indica la necessità di un investimento di 200 milioni nelle produzioni di latta (settore conserviero) e lamierino per automotive, in cui cresce la domanda di prodotti resistenti alla corrosione. Per essere competitivo Cornigliano necessita dei coils tarantini d’alta qualità, senza i quali è destinato a morire causa l’impossibilità di acquistare da altri produttori, tutti concorrenti sugli stessi prodotti con le loro proprie linee di verticalizzazione. Resta fermo il fatto che il consumo nazionale di latta per l’industria conserviera è di 800mila tonnellate annue. Cornigliano ne potrebbe produrre più della metà, mentre oggi non arriva a un decimo. È recente la notizia di grandi quantità di pomodori mandate al macero per la carenza del lamierino necessario all’inscatolamento.

Egildo Derchi, Roberto Guarino, Gianfranco Tripodo

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Sulle responsabilità di Regione Liguria sul Covid: tutto giusto. Però…

Intervenendo nel Consiglio di Regione Liguria del 13 luglio, il leader dell’opposizione Ferruccio Sansa ha svolto una puntuale analisi critica della gestione della pandemia da Coronavirus da parte della maggioranza guidata da Giovanni Toti. L’elenco dettagliato di carenze che anche la nostra news non ha mancato di segnalare, riassumibile nel folder “Liguria maglia nera del Covid-19”.

Dunque, azione comunicativa corretta e opportuna, ma – ci si chiede – quanto funzionale alla finalità di smascherare il significato intrinseco di una gestione amministrativa in apparenza inspiegabile?

Specie nei suoi aspetti deliranti. Come quando il Governatore proclamava la sacrificabilità degli anziani in quanto disfunzionali rispetto al processo produttivo.

A fronte di questi presunti svarioni si ha buon gioco a interpretarne l’accumulo come espressione di maldestraggine. Per cui la critica si indirizza agli aspetti di inefficienza, in una ripetitività di analisi che l’opposizione propone da almeno un anno; e che stenta a superare il muro del silenzio di un sistema informativo di per sé già agganciato al carro di piazza De Ferrari. Al tempo stesso, sembra difficile che questa modalità di muovere addebiti possa scatenare moti di ribellione in un’opinione pubblica assuefatta da più tornate amministrative a considerare il ceto politico regionale nel suo complesso, di destra come di centro-sinistra, inabile a livello inettitudine.

Mal comune mezzo gaudio?

Ben diverso sarebbe se la critica penetrasse in profondità, andando a verificare che c’è del metodo in quella follia. Per cui Giovanni Toti è molto peggio di un politico incapace, è un irresponsabile che specula sulla salute sotto minaccia dei concittadini per ricavarne vantaggi politici: uno spregudicato giocatore sulla pelle dei propri amministrati. Che utilizza la situazione catastrofica per inviare messaggi a chi di dovere. Per cui sottomettere la salvezza degli anziani al criterio di economicità sta a significare la priorità attribuita agli interessi delle categorie padronali. I bracci di ferro che l’anno scorso hanno caratterizzato il rapporto con il premier Conte e il ministro Speranza sull’applicazione dei distanziamenti del lockdown è un occhio strizzato a ristoratori, albergatori, gestori di locali pubblici per dire io sto dalla vostra parte. La parte che teorizzava le precauzioni governative come un attacco alla libertà, in una lettura demenziale della Costituzione che non prevede il diritto di infettare. Ma Toti lavorava subliminalmente per agganciare l’apprezzamento anche dei cultori sballati del negazionismo. Insomma, un Bolsonaro soft. Per cui, impostare la critica in questi termini consentirebbe una ben più efficace messa sott’accusa. Magari inserendo una zeppa nel processo di costruzione del nuovo blocco sociale in itinere, sotto l’egida totiana, che assiema abbienti e impauriti. Sempre si convenga che fare opposizione è lavorare per scalzare una maggioranza, non salvarsi l’anima con dichiarazioni sostanzialmente testimoniali.

La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”

Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti

Hanno scritto per noi:

Andrea Agostini, Franco Astengo, Enzo Barnabà, Giorgio Beretta, Pieraldo Canessa, Roberto Centi, Comitato spontaneo amici del Tariné, Cooperativa Il Ce.Sto, Battistina Dellepiane, Egildo Derchi, Erminia Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Valerio Gennaro, Santo Grammatico, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Giuseppe Pippo Marcenaro, Anna Maria Pagano, Paola Panzera, Marianna Pederzolli, Enrico Pignone, Bruno Piotti, Bernardo Ratti, Ferruccio Sansa, Mauro Solari, Giovanni Spalla, Gianfranco Tripodo, Gianmarco Veruggio, Franco Zunino.

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FATTI DI LIGURIA

In Regione: voto contrario alla centrale a turbogas di Spezia

Nello stesso giorno in cui l’Unione Europea approva il Green Deal, che prevede l’addio alle auto a combustione interna entro 14 anni e inibisce la produzione energetica da combustibili fossili, il Consiglio regionale della Liguria approva l’ordine del giorno – presentato a suo tempo dal Consigliere regionale Roberto Centi della lista Sansa –  che, oltre a significare una definitiva chiusura del ciclo a carbone della centrale ENEL della Spezia rappresenta un NO deciso all’ipotesi di trasformazione della centrale a turbogas.

La mozione, passata con 47 voti favorevoli e 7 astenuti, nessun voto contrario, è Quindi èstata votata anche da molti esponenti di maggioranza. La Regione a questo punto dovrà negare l’intesa col governo nazionale sulla trasformazione della centrale ENEL a metano.

Il metano inquina forse meno del carbone, ma è comunque un combustibile fossile, che comporta un processo di combustione libera. Il metano se viene trasportato via nave è fortemente energivoro. Il processo di degassificazione, come avviene nell’impianto di Panigaglia, può rappresentare dei pericoli. Recentemente in California c’è stato un pericoloso incidente dovuto proprio al metano. Inoltre la combustione produce anidride carbonica. Ma la cosa più grave è la percentuale di metano incombusto che si libera in atmosfera. Studi recenti indicano che circa l’1,5% del metano avviato a combustione in realtà si libera in atmosfera e risale negli strati alti: questo fatto elimina il vantaggio ottenuto dal consumo di metano in alternativa al carbone.

Quindi l’idea che il metano, sia esso gassoso o liquefatto, possa essere considerato un combustibile pulito, e per questo alternativo al carbone, risulta totalmente errata.

Dopo la chiusura della centrale a carbone della Tirreno Power a Vado Ligure e la rinuncia al progetto di riconversione, ora, è la volta della Spezia. Queste riconversioni non hanno senso, soprattutto quando il nuovo piano comunitario prevede che entro 15 anni il 40% della produzione energetica vada realizzato da fonti rinnovabili.

I dati pubblicati, in questi giorni, sulle aree del savonese nei pressi della centrale Tirreno Power, dimostrano come vi sia stata una significativa diminuzione dei tassi d’inquinamento.

La centrale spezzina occupa un’area immensa con un dato occupazionale molto basso. Una nuova centrale a metano occuperebbe spazi preziosi, in un territorio assai avaro di aree pianeggianti a causa della sua conformazione orografica, stretta tra colline e mare, mentre il ritorno occupazionale sarebbe assai misero. Molto meglio pensare a un utilizzo diverso, con attività ad elevato coefficiente occupazionale per ettaro.

Ora sta alla Regione Liguria, al governo e agli enti locali (speriamo che l’amministrazione della Spezia si svegli dal proprio torpore!) fare pressione su ENEL perché nell’area si realizzino investimenti destinati alla ricerca e alla produzione di energia da fonti alternative o di impianti utili alla realizzazione del piano di green deal europeo.

N.C.

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FATTI DI LIGURIA

Mugugno, sanità e Costituzione

Il mugugno è un borbottio risentito, un brontolio di scontento, non lagnoso ma cupo e dignitoso, polemico seppure indifferenziato e alquanto malmostoso. Un tempo era il modo in cui i marinai si lamentavano delle angherie del capitano, senza tuttavia arrivare all’ammutinamento. E’ quello che fa Toti quando mugugna sullo stato comatoso e pericoloso delle autostrade da e per la Liguria, cercando e ottenendo il consenso del popolo bue, definito come massa acritica, sottomessa e conseguentemente manipolabile con una certa facilità, ovvero aggiogabile e che può quindi essere condotta dovunque. Il Toti-mugugno come aggregazione, ma inane nel non provare a fare nulla per porre rimedio a questo stato di cose. Perché il mugugno è protesta ma non proposta. Il mugugno non è tuttavia arrogante, come le esternazioni dell’emaciato assessore Garassino, il mendicantofobo che voleva prendere a calci nel sedere chi chiede l’elemosina. Una mentalità che avrebbe sollevato perplessità perfino nel ministro della propaganda nazista Goebbels, perseguita attraverso provvedimenti come l’eliminazione del servizio di residenza anagrafica e proposte come la schedatura dei senza fissa dimora; fino ad arrivare al parossismo, l’acme di un processo morboso, di multare per centinaia di euro chi rovista “disordinatamente” nei cassonetti o dorme per strada. Sanzione ridicola e pretestuosa perché chi si trova in queste condizioni non è certo in grado di pagare alcunché. Il punto, del tutto rovesciato, rispetto a questa mentalità vetero-leghista, quella che oggi odia i mendicanti e ieri denigrava i terroni, arriva dall’Emilia Romagna. Proprio a proposito dei clochard, quando si unisce solidarietà ed economia. La proposta, che ha già superato l’esame della Commissione Sanità è semplice: “Iscrizione dei senza fissa dimora nelle liste degli assistiti delle aziende sanitarie”. Solidarietà: è uno dei capisaldi di ogni società civile, il cui significato, nella Liguria di oggi, è sconosciuto. Ma questo concetto si inserisce in un preciso principio costituzionale, all’art. 32, che viene qui costantemente ignorato. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E’ comprensibile che gente come lo smunto Garassino lo ignori, ma la sua ignoranza non è scusabile, secondo il noto brocardo (se ignora anche questo proverò a spiegarglielo), ignorantia legis non excusat. Ma il legislatore dell’Emilia-Romagna, che non lo ignora, ma è anche un attento amministratore che bada ai costi, ha riflettuto che, mentre ogni accesso al Pronto Soccorso, diritto del senzatetto, costa all’Erario fino a 400 euro l’anno, garantirgli un medico di base ne costa solo 44 all’anno. Allora, senza mugugnare, lanciamo la proposta a questa amministrazione, ricordando che in materia sanitaria la Regione può fare più o meno tutto quello che vuole, secondo il titolo V, art. 117 sempre della nostra Costituzione. Insomma rispetto dei diritti costituzionali, solidarietà, economia: muovere il pachiderma ligure non sarà facile, ma forse, toccandolo sulle palanche, si potrà arrivare a una corretta applicazione della Costituzione, salvaguardando la dignità e i diritti della persona.

CAM

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FATTI DI LIGURIA

Ennesima bacchettata di Corte dei Conti a Regione Liguria

Il procuratore presso la Corte dei Conti della Liguria Antonio Giuseppone interviene “a gamba tesa” sul progetto per la costruzione del nuovo ospedale del Felettino alla Spezia. Le sue critiche sono quelle denunciate da tempo, dal Manifesto per la Sanità Locale, che ora chiede la convocazione urgente della Conferenza dei sindaci della provincia per aderire alle prossime manifestazioni contro le decisioni della Regione Liguria, sempre più orientata a favorire il privato e a distruggere la sanità pubblica.

Scrive Giuseppone: “Dalla delibera del direttore generale della ASL 5 n. 232 del 18/03/2021 si prende atto della volontà di procedere alla costruzione della suddetta opera pubblica prevedendo: 1) un ulteriore finanziamento ad IRE per la predisposizione di attività di studio stazione appaltante; 2) si prende atto della convenzione stipulata con Cdp; 3) il quadro economico dell’opera indica la soma di Euro 264.373.045 (rispetto ai precedenti Euro 177.152.424) di cui 86 milioni di Euro provenienti da risorse private e le restanti di provenienza pubblica (partenariato pubblico-privato). Si prevede anche un canone annuo di disponibilità a carico dell’ASL 5 di Euro 14.800.000, di cui Euro 4.500.000 a titolo di conduzione impianti e manutenzione ordinaria. Da un sommario esame della suddetta delibera e da quelle richiamate la Procura non può che auspicare un attento esame della fattibilità finanziaria e della convenienza economica di tale scelta in considerazione della notevole mole di risorse pubbliche che verrebbero destinate alla costruzione di quest’opera pubblica, non foss’altro che non è stata rinvenuta la matrice dei rischi – delibera ANAC n. 318 del 28/03/2018 – la quale ha precipua finalità di individuare ed analizzare i rischi connessi all’intervento da realizzare e deve essere utilizzata – in fase di programmazione – per la redazione del documento di fattibilità economica e finanziaria e per verificare la convenienza del ricorso al partenariato pubblico-privato rispetto a un appalto tradizionale e – in fase di esecuzione – per il monitoraggio dei rischi. Questa particolare attenzione deriva dal fatto che sono ormai trascorsi 20 anni da quando quest’opera è stata finanziata senza alcun esito – vedi Corte dei Conti, delibera n. 2/2021 della Sezione Centrale di Controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato”.

La convenzione della Giunta Toti prevede un grosso “regalo” al privato: 15 milioni di euro per oltre 25 anni. Costo insostenibile per i bilanci della ASL, spogliate di risorse per qualsiasi altro investimento; dalla medicina di territorio, oggi completamente sguarnita, al pauroso deficit di medici e di infermieri con cui deve fare i conti il personale sanitario e pagarne i danni i cittadini-utenti. C’è poi “l’abnorme introito” (leggi regalo) per il partner privato il quale, dagli 86 milioni di euro da investire forniti a tassi bassissimi da Cassa Depositi e Prestiti, ricaverebbe ben 264 milioni di euro solo per il contributo di costruzione, cui aggiungere un canone di gestione e l’affidamento di servizi particolarmente lucrosi.

Per tali ragioni il Manifesto per la Sanità Locale chiede alle forze di opposizione, ai sindacati, alle associazioni e ai cittadini di mobilitarsi contro una regalia indebita e la sottrazione di risorse indispensabili per migliorare la qualità del servizio sanitario locale.

N.C.

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FATTI DI LIGURIA

Erzelli, il cerchio si chiude

La storia degli Erzelli è cominciata da una collina, una collina verde sopra Cornigliano che è stata decapitata per recuperare la terra per costruire la nuova Italsider sul mare. Dopo decenni quel mozzicone di collina è stato venduto per quattro soldi a un imprenditore dei trasporti del porto e della logistica che ne ha fatto un immenso deposito di container. Dopodiché una grossa azienda milanese già presente con iniziative di dubbio successo a Genova ha deciso di comprare quei terreni dal proprietario: visto quanto li ha pagati e li ha usati, ha realizzato un profitto milionario

A questo punto un apprezzato manager genovese di primo livello ha avuto un’idea, una bella idea, non particolarmente originale, anzi una copiatura di una iniziativa già presente in varie parti d’Europa e in particolare a Nizza in Francia. L’idea era quella di creare nella zona una concentrazione di aziende high-tech, collegata alla Facoltà di Ingegneria e immersa in un grande parco. 

Il primo architetto incaricato di preparare un progetto è stato – manco a farlo apposta – Renzo Piano, che già in zona aveva lavorato per conto di suo padre e conosceva benissimo l’area e i travagli di quel luogo. Renzo Piano ha parlato di “restituzione al ponente”: un grande parco di decine di ettari e una cittadella dell’informatica e dell’Industria hi-tech che sarebbe diventato vanto della città. 

Visti i primi disegni noi di Legambiente abbiamo espresso più di un dubbio sul reale interesse economico e industriale di industrie hi-tech a trasferirsi a Genova e aumentare la prevista occupazione. Ovviamente i nostri grandi politici e i nostri grandi banchieri hanno pensato che fare conti come facevo io sulle prospettive generale macroeconomiche fosse una sciocchezza; e hanno finanziato per alcune centinaia di milioni di euro l’operazione. Il primo intoppo è sorto quando Renzo Piano si è tirato fuori dal progetto affermando di non voler mettere la firma alla costruzione di casette sulla collina. In poche parole, parlando coi suoi ipotetici datori di lavoro aveva capito che il progetto e Carlo Castellano (il primo promotore dell’idea) erano una cosa, quelli che volevano costruire e ci mettevano i soldi intendevano ben altro. E se ne è scappato di corsa.

E infatti il ben altro si è puntualmente avverato: le aziende che sono finite agli Erzelli sono tutte già presenti a Genova; che anzi, appena arrivate, a Erzelli hanno cominciato a licenziare sistematicamente. Per salvare la baracca i nostri politici hanno pensato di trasferire ad Erzelli – a costo pubblico e pagando i terreni ai privati – la Facoltà di Ingegneria. Poi hanno trasferito l’Istituto italiano della tecnologia. E fin qui i soldi ce l’ha messi il pubblico. La stessa azienda – costruita pezzo per pezzo da Castellano (Esaote) – ha affittato agli Erzelli ma ha comperato a Firenze, ben consapevole – dovendo metterci i soldi – di quali erano i vantaggi e quali gli svantaggi. Solo recentemente ha investito su un impianto nuovo a Multedo. Allora, nel tentativo disperato di trovare qualcosa per far quadrare i conti, i dirigenti pubblici hanno partorito l’idea geniale di costruire agli Erzelli l’ospedale del Ponente. Nonostante tutta una serie di garanzie economiche e politiche, i nostri eroi si sono ritrovati il rifiuto totale di tutti i grandi gruppi della sanità privata, che non hanno nessuna intenzione di costruire un ospedale agli Erzelli. Oddio, se proprio lo Stato lo costruisce e poi glielo regala forse sarebbero disponibili, ma metterci una lira neanche parlarne.

La vicenda è andata avanti di male in peggio: il disastro della Cassa di Risparmio di Genova è anche un credito inesigibile per alcune centinaia di milioni dai proprietari dei terreni di Erzelli.

A questo punto il passaggio successivo è stato, come al solito, l’intervento salvifico dello Stato che si comprerà tutti i debiti inevasi e di fatto diventa padrone dei terreni di Erzelli. Ma – attenzione – lo Stato e la società che lo rappresenta non sono lì per fare cose, sono lì per recuperare soldi. Quindi l’ipotetico trasferimento di Ingegneria (a cui mancano alcune decine di milioni di euro, una strada per arrivarci, un sistema di trasporto pubblico efficiente per portare migliaia di studenti e lavoratori concentrati in poche ore) è di là da venire. 

Lo stesso Castellano ha pubblicamente ammesso recentemente il fallimento del progetto, nonostante il supporto politico ed economico di politici bipartisan a imprenditori incapaci.

Alla fine non ci resta che aspettare sulla riva del fiume che l’intervento della nostra pavida Procura e magari della incoerente Sovrintendenza faccia giustizia di una operazione culturalmente criminale, decapitando quella cupola di affaristi e politici che negli ultimi decenni ha spadroneggiato a Genova nel silenzio delle agenzie che dovrebbero tutelarci. Ovviamente tutto pagato coi nostri soldi.

Andrea Agostini

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FATTI DI LIGURIA

 ‘Genoa Port Center’: una vicenda (tragicamente) esemplare

Caratteristica di Genova è non solo l’indifferenza nei confronti di quanto la illustra e distingue positivamente, ma addirittura l’ostilità, il ‘remare contro’ ogni opera o iniziativa che valga a segnalarne l’operosità, l’iniziativa: diciamo pure l’intelligenza.

In questo senso, la storia del ‘Genoa Port Center’ può considerarsi davvero esemplare.

Istituito nei primi anni 2000 per iniziativa dell’allora Presidente della Provincia Alessandro Repetto (promotore tra le altre cose della prestigiosa Accademia della Marina Mercantile), il ‘Genoa Port Center’ è un centro didattico-espositivo focalizzato sulle molteplici attività di uno dei maggiori porti del Mediterraneo. Ubicato presso i Magazzini del Cotone, sullo stesso piano che ospita (o ospitava) la famosa ‘Città dei bambini e dei ragazzi’, è dedicato prevalentemente ma non esclusivamente ai giovani, genovesi e non, interessati al funzionamento di un grande porto e soprattutto alle molteplici prospettive professionali che esso presenta. In particolare, il Port Center costituisce un affascinante collegamento tra città e porto. Vi si raccontano e ricostruiscono ‘in scala’ i mestieri della portualità. E’ possibile ‘guidare’ una nave all’attracco, accostarne una con la ‘pilotina’, vedere come funziona la Dogana e come è costruito un container, scoprire che il punto ‘zero’ sul livello del mare (equivalente marittimo nazionale del meridiano di Greenwich) è situato in una apposita stazione ‘mareografica’ situata a Ponte Morosini.

Il Port Center è stato per anni un vero ‘fiore all’occhiello’ per l’Autorità Portuale genovese. Ammirato da numerose delegazioni straniere, è stato negli ultimi anni visitato da oltre 25.000 studenti di ogni ordine scolastico, promuovendo tra i giovani la cultura marittima e aprendoli a importanti orientamenti professionali. La città stessa ha potuto riconoscersi in questo porto in miniatura.

Purtroppo, chi oggi voglia visitarlo, apprende da Internet che il ‘Genoa Port Center’ è ‘attualmente chiuso’: destinato presumibilmente a una liquidazione definitiva per destinarne gli spazi ad altre imprescindibili funzioni, quali quelle dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico dell’Autorità Portuale del Mar Ligure Occidentale. Il suo destino sarà non a caso identico a quello che attende a quanto pare la contigua ‘Città dei bambini e dei ragazzi’, che tanto e durevole successo aveva ottenuto tra i più giovani.

La vicenda sembrerebbe rispondere alla nota vena masochistica di Genova, cui accennavamo sopra, se non si prestasse ad una ancora più triste considerazione. Genova ‘odia’ i bambini, i giovani: li espelle da tutti i luoghi loro destinati, costringendoli entro spazi tristissimi e degradati.

Ha forse a che vedere, questo fenomeno, col fatto che Genova è la città più vecchia d’Italia?

MM

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FATTI DI LIGURIA

Ultime nuove dal Galliera

Il progetto del Nuovo Galliera nasce nel 2006 sotto la gestione del duo Bertone/Profiti, quest’ultimo nel suo doppio ruolo di Vice Presidente del Galliera e Direttore Regionale delle Finanze di Regione Liguria; prima di trasferirsi a Roma e assurgere agli onori delle cronache per la nota vicenda dell’attico vaticano ristrutturato con i fondi dell’ospedale Bambin Gesù.

Nato nel 2006, seppur con evidenti criticità di natura urbanistica, finanziaria e sanitaria, viene appoggiato in maniera bipartisan dalle giunte Burlando e Toti. Poi frettolosamente approvato in pieno lockdown, nell’aprile del 2020: uno degli ultimi atti del Cardinal Bagnasco come capo della Curia genovese, seppure ancora alla guida del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.

Si tratta di un ospedale con 4 piani interrati e centinaia di mq di gallerie commerciali. Ciò comporta la totale impermeabilizzazione del suolo. Sicché, per cercare di mitigare il rischio idrogeologico, è stata prevista una vasca di laminazione dimensionata sui rilievi pluviometrici del 1993: una stima totalmente inadeguata rispetto alle piogge alluvionali degli ultimi anni.

A differenza di quanto indica Renzo Piano come ospedale modello (di cui parleremo prossimamente), il nuovo Galliera eliminerà tutti gli alberi ad alto fusto distruggendo l’idea stessa di cittadella della salute immersa nel verde, con cui la Duchessa di Galliera aveva voluto circondare i suoi padiglioni con soffitti alti e ventilati in ottica anti-contagio. Ma ridurrà anche i posti letto e demolirà 9 padiglioni (alcuni storici e altri moderni, tutti funzionanti) per lasciare spazio a centinaia di appartamenti di lusso.

Il business-plan commissionato all’Università Bocconi punta su risparmi derivanti dal taglio del personale e su maggiori entrate da attività svolte in forma privata.

Nonostante il progetto nasca nel 2006 e sia stato approvato al nascere della pandemia, nel 2020 il nuovo Galliera ottiene un mutuo di 75 milioni di euro dalla Banca del Consiglio d’Europa, nell’ambito dei finanziamenti per i progetti contro il COVID-19… un miracolo sulla via di Bagnasco?

L’aggiudicazione della progettazione esecutiva e della costruzione del lotto 1 del nuovo Galliera per 154 milioni di euro pubblici avrebbe dovuto avvenire lo scorso 21 giugno.

Ma la gara è andata deserta.

Il 17 giugno il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso di Italia Nostra contro la Soprintendenza che non ha fissato criteri adeguati a tutela del complesso ospedaliero monumentale vincolato dell’ospedale Galliera. Ora tali vincoli andranno rivisti e potrebbero rimettere in discussione il progetto definitivo già approvato da Comune, Regione e dalla stessa Soprintendenza.

Nei giorni scorsi anche la Corte dei Conti, in occasione della parifica del bilancio regionale, ha evidenziato i propri dubbi sulla sostenibilità economico-finanziaria dell’operazione.

Nonostante le autorevoli pronunce di Corte dei Conti e Consiglio di Stato, e altre quattro sentenze in dirittura di arrivo nei prossimi mesi, il Galliera, presieduto dall’arcivescovo Tasca, con il Consiglio di Amministrazione da lui nominato, annuncia che a giorni si bandirà una nuova gara sempre da 154 milioni per il solo 1° lotto.

Che il ritorno di Profiti ai vertici della sanità ligure punti a chiudere il cerchio 15 anni dopo?

Paola Panzera, portavoce del Movimento Indipendente Cittadini per Carignano

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FATTI DI LIGURIA

I dati del lavoro nella provincia di Imperia

Come ogni anno, puntualmente, l’Ufficio Economico CGIL Liguria produce uno studio sull’economia e sul lavoro in Liguria che è stato presentato per il 2020 a maggio scorso e che ho visionato insieme al Segretario provinciale imperiese Fulvio Fellegara.

Voglio infatti evidenziare i dati relativi alla situazione dell’Imperiese per l’anno (orribile) 2020, una situazione di difficoltà come vedremo.

Prima qualche dato sintetico di contesto.

Gli occupati nel 2020 in Liguria sono risultati in calo di 10500 unità (-1,71%) sul 2019.

Gli occupati a tempo pieno sono stati il 62,9% maschi e il 37,1% femmine, rapporto che si ribalta per quanto riguarda il tempo parziale con il 24,8% maschi e il 75,2% femmine.

I dipendenti rappresentano il 73% dell’occupazione ligure e sono per il 51% maschi e il 48,9% femmine, più uomini occupati nel tempo indeterminato, più donne nel tempo determinato.

Eccoci a noi. La Provincia di Imperia rappresenta il 13% dell’occupazione regionale e il 18% della disoccupazione nell’anno in esame.

La Provincia di Imperia ha perso in media il -2,12% di occupati dipendenti (1689 persone), tra i settori in netto calo le costruzioni (-25%), il commercio e turismo (-8,5%).

Nel settore del turismo purtroppo un crollo netto: -49,7 arrivi e -43,9 presenze, un dato complessivo che – pur in linea con i dati regionali – richiederà tempo per il recupero.

Anche l’occupazione indipendente (il 32,4% del totale) è in calo del -2,48% sul 2019, con un -32% addirittura rispetto ai massimi del 2008.

Un dato particolarmente grave, il tema della sicurezza sul lavoro: le denunce di infortunio aumentano del +3,4% sul 2019, unica provincia in aumento, e soprattutto triplica i decessi (10 infortuni mortali) rispetto all’anno precedente.

Dal sindacato fanno sapere “che nei primi 4 mesi del 2021 Imperia è l’unica provincia che vede aumentare ancora la cassa integrazione rispetto all’anno precedente”.

Il tasso di disoccupazione al 9,9% è (con Spezia) il più alto della Regione, come il tasso di inattività al 34,5%.

Lo specchio della nostra provincia è ancora questo: ci collochiamo subito dopo Genova tra le province per Reddito di Cittadinanza, Pensione di Cittadinanza e Reddito d’Emergenza, avendone il primato del numero di persone coinvolte (oltre 12 mila) in rapporto alla popolazione.

La pandemia ha acuito una situazione di evidente, complessiva e profonda difficoltà preesistente, rappresentata anche da calo demografico, forte abbandono scolastico (la provincia peggiore), carenza infrastrutturale. Una condizione che spesso si sottace ma che invece è necessario affrontare con intelligenza, lungimiranza e visione.

Tanta precarietà, tanto disagio a fronte di grandi potenzialità, la vera speranza di ripartenza per l’occupazione e il lavoro in questo Ponente ligure: il recupero del territorio e la sua messa in sicurezza, la dotazione di infrastrutture, le eccellenze e le peculiarità, i servizi, l’ambiente e la cultura… tutto nel segno della qualità!

DC

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FATTI DI LIGURIA

Le graziose dagli occhi color di foglia. Oltre i manierismi alla De André

Il medesimo quartiere, lo stesso condominio o strada, sono abitati e attraversati da persone che si sfiorano appena ma non si conoscono tra loro. Andiamo a fare la spesa in Via della Maddalena dalla rosticceria Vitale e passiamo tutti i giorni davanti a Mary, prosperosa dominicana sulla soglia di un basso di Vico Boccanegra, ma cosa sappiamo della sua storia, dei suoi sogni e bisogni?

Affermeremo di sapere tutto di Via Sampierdarena, che attraversiamo per andare agli eventi del centro civico o del Municipio, ma sappiamo che la stessa strada poche ore dopo, quando cala il sole e si accendono i lampioni, è il territorio di Luana, rumena di 20 anni, e di Erika, la trans più bella di Genova? In che misura si sentono parte della città? E come la descriverebbero?

Il week end andiamo a comprare i mobili a Maison Du Monde ma ignoriamo il fatto che le sere d’inverno gli imballaggi abbandonati dei magazzini sono utilizzati per accendere fuochi attorno a cui si scaldano ragazzine nigeriane in mutande e reggiseno, che vendono il loro corpo in media per 10 euro.

Dal 2017 lavoro per la Comunità San Benedetto al Porto come operatrice dell’unità di strada nel progetto ligure HTH contro la tratta e lo sfruttamento sessuale e ho la fortuna di entrare in relazione con centinaia di donne che si prostituiscono a Genova. Tutte le settimane offriamo preservativi, thè caldo, il numero verde antitratta – 800 290 290 – accompagnamenti ginecologici, sanitari e legali. Ma, soprattutto, ci mettiamo in ascolto di voci e necessità mai prese in considerazione nel dibattito pubblico e nelle politiche. Condizioni di deprivazione e povertà, si intersecano con l’essere donne ed essere migranti, in una spirale di ricattabilità, violenze e privazione di diritti fondamentali. L’invisibilità di queste persone si è resa lampante nel corso della pandemia: nessuna di loro ha potuto accedere ad alcuna forma di sostegno sociale e sanitario, e, nonostante siano la categoria più esposta al contatto, non hanno potuto fino ad oggi vaccinarsi, poiché nella maggioranza dei casi senza documenti o residenza a Genova. In questa miopia e cattiveria istituzionale, chi rischia la vita sono prima di tutto loro, e a seguire le decine di migliaia di clienti italianissimi e le loro famiglie; ciò vale anche per le malattie sessualmente trasmissibili, considerato che la maggioranza dei clienti chiede prestazioni non protette e che si stima che l’80% di loro abbia una partner stabile.

In questi anni ho avuto modo di cogliere aspetti brutali di sfruttamento – al cui vertice ci sono sempre uomini – e le condizioni di estrema vulnerabilità. Ho tuttavia colto le incredibili risorse di queste donne, che sono il perno di intere economie familiari e mantengono con sacrifici enormi figli, mariti e genitori nel loro paese. Se da una parte è fondamentale potenziare i progetti di protezione delle vittime di tratta e grave sfruttamento sessuale, occorre anche costruire progetti basati sul potenziamento dell’autostima, delle risorse e della valorizzazione di molte donne che incontriamo; che sono bilingue, con spiccate capacità relazionali e di lettura e comprensione dei contesti allenati in anni di lavoro in strada. Purtroppo, non hanno titoli di studio o formazioni professionali spendibili e la condizione di instabilità dovuta alla condizione migratoria, soprattutto da un punto di vista del mantenimento dei permessi di soggiorno, le rende costantemente ricattabili da una rete di criminalità offerta da connazionali e da quelle organizzate locali. Eppure, dopo ogni uscita, mi porto a casa il loro coraggio, la loro forza e intelligenza necessaria per affrontare a testa alta condizioni difficilissime, e la convinzione che se questa città mettesse a loro disposizione reali percorsi di emancipazione e inclusione sociale, ne usciremmo arricchiti profondamente come comunità.

Marianna Pederzolli, operatrice sociale unità di strada Genova, Comunità San Benedetto

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Calcio africano: il nuovo lavoro minorile

La tratta dei baby calciatori africani e il business milionario che ne deriva stanno finalmente trovando spazio nel dibattito pubblico. Nei giorni scorsi la Fifa, l’organo di governo del calcio mondiale, ha condannato per questo tipo di trasferimenti lo Spezia Calcio, accusato di aver violato negli anni scorsi l’articolo 19 del regolamento – che vieta il trasferimento di minorenni da un continente all’altro per motivi calcistici – “avendo portato in Italia parecchi calciatori nigeriani minorenni usando un sistema finalizzato ad aggirare il suddetto articolo oltre alle norme nazionali sull’immigrazione”. Per questo, oltre a una multa da 460 mila euro, la società è stata inibita per due anni dalla possibilità di partecipare al mercato.

I fatti risalgono alla vecchia proprietà di Volpi – “l’italiano più ricco d’Africa” e cittadino nigeriano – e sono oggetto di un’inchiesta in corso da parte della magistratura, con quattro indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La giustizia sportiva, e in questo caso il Comitato disciplinare della Fifa, ha però deciso. Vedremo l’esito dell’inchiesta della magistratura, così come vedremo l’esito del ricorso alla Fifa della nuova proprietà dello Spezia dello statunitense Platek, che in queste vicende non ha avuto alcun ruolo.

Quel che qui interessa affrontare è il problema più generale, che esiste comunque e che cresce di continuo. È il problema di 14-15 mila bambini che ogni anno partono dall’Africa occidentale con il sogno di diventare calciatori in Europa, e della rete di trafficanti che sfruttano questo sogno. La trasmissione di Rai3 “Il Fattore umano”, andata in onda il 19 luglio, ha raccontato che, di questi 14-15 mila, solo pochissimi ce la fanno: la maggior parte, attirata da presunti procuratori, viene invece abbandonata nella nazione d’arrivo dopo aver pagato migliaia di euro ai propri sfruttatori, e oggi vive di espedienti, in mezzo alla strada.

La tratta rivela un altro problema più generale: la fuga dei giovani calciatori mina lo sviluppo del calcio in Africa, privandolo di “risorse” sia umane che economiche con conseguenze sulla qualità delle competizioni africane. Prima il calcio, in Africa, non era conosciuto: l’abbiamo esportato con il colonialismo. Oggi è uno degli sport più amati anche in quel continente: ma il neocolonialismo impedisce lo sviluppo di un calcio locale. Anche lo sport rivela che oggi il continente africano è visto ancora e sempre come un continente da depredare.

GP

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 Le botteghe storiche di Genova e Liguria patrimonio culturale unico

I liguri sono spesso criticati perché poco inclini alle novità e agli investimenti, soprattutto per rinnovare locali che sono sempre stati apprezzati e per i quali non si ravvede il motivo per cambiarli.

In questo caso, quello che a prima vista potrebbe apparire negativo, si è trasformato in un elemento positivo. Genova soprattutto, ma anche altri centri della Liguria, conservano veri e propri gioielli: botteghe storiche che per oltre 50 anni hanno continuato la stessa attività allo stesso indirizzo, come prevede la legge, ma che spesso tramandano la qualità e la storia di antiche e tradizionali lavorazioni o mantengono uno splendido arredo d’epoca, oggi divenuto oggetto d’ammirazione. Non è così dappertutto. Molte città italiane sono state vittime del modernismo, dell’assalto di nuove attività come fast-food, outlet, che hanno preso il posto di vecchie e stupende botteghe.

Citarle tutte sarebbe impossibile. Fortunatamente il Comune di Genova ha instaurato un albo delle Botteghe Storiche, mentre la Regione Liguria, da anni, ha istituito il marchio “artigiani in Liguria” destinato alle attività artigianali di qualità della regione, che si impegnano a seguire un disciplinare di produzione.

Botteghe storiche come la confetteria-pasticcerie Romanengo in piazza Soziglia sono dei veri monumenti, che potrebbero divenire in sé dei motivi di attrazione turistica, ma non da meno sono la barberia storica Giacalone in vico Raibetta, patrimonio del FAI, la mitica drogheria Torielli e il più genovese dei locali genovesi “Sa pesta”, farinotto e trattoria. Tra i ristoranti si segnalano Bruxaboschi a San Desiderio e Vegia Arbà ad Albaro. Spontandoci sulle riviere non si può fare a meno di citare il Caffè Defilla a Chiavari e, sempre a Chiavari il mitico farinotto Luchin e la pasticceria Copello. Le pasticcerie Rossignotti a Sestri Levante. Da non dimenticare a Uscio l’antica fabbrica di campane e orologi da torre Trebino, che ha anche un suo museo annesso all’azienda e il ristorante Manuelina a Recco, che vanta di essere il creatore della focaccia al formaggio. Nel piccolo paese di Varese Ligure, tra i boschi della Val di Vara c’è il locale che vanta la più antica data di fondazione dell’intera regione: l’albergo e ristorante “Gli Amici”, da provare i suoi famosi croxetti. A Sarzana l’antica pasticceria Gemmi-Il Loggiato con il dolce simbolo, la spungata. A Savona non si possono mancare gli amaretti di Astengo o i chinotti canditi di Besio, la farinata di via Pia. Ad Alassio c’è un mito, la pasticceria Balzola con i suoi bacini. A Oneglia (Imperia) lo storico caffè-pasticceria Piccardo. A Sanremo, proprio a fianco dell’Ariston c’è uno dei fotografi più vecchi d’Italia: il fotografo Moreschi che è giunto all’ottava generazione e vanta un archivio straordinario.

Tra le attività delle eccellenze artigiane non si possono non ricordare le due imprese delle seterie di Zoagli, la sedia di Chiavari dell’azienda Levaggi e il polo della filigrana in argento di Campoligure. Troppo note per parlarne sono le ceramiche di Albissola.

La camera di Commercio di Genova, particolarmente per impulso di Alessandro Cavo, che ha meritoriamente restaurato e riaperto la storica pasticceria-liquoreria Marescotti, ha iniziato un processo di valorizzazione delle antiche botteghe. In una realtà, che molti credono erroneamente priva di importanti elementi di richiamo artistico, questo patrimonio, fatto opportunamente conoscere, potrebbe essere oggetto di visite e fattore di richiamo turistico non legato a scadenze stagionali.

N.C.

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G8 2001: anche una nuova cultura fu estirpata

A volte ci sono atti che partono dal margine e lo pongono al centro; che rivoluzionano lo sguardo e creano nuovi spazi d’azione per il futuro.

Nel gennaio 2001 le associazioni genovesi critiche della globalizzazione lanciarono la petizione “Genova città aperta”, per il diritto a manifestare in occasione del G8 di luglio. Nel febbraio si costituì il Genoa Social Forum, e iniziò una campagna di mobilitazione contro il rischio che la città fosse “blindata”. Anche La Spezia, la città di cui ero Sindaco, si ribellò. Decisi di schierarmi. Sapevo bene che i movimenti volevano manifestare nella città in cui si sarebbe tenuto il vertice. Tuttavia volevo che il margine giocasse un ruolo. Ad aprile fui intervistato da un quotidiano genovese: “Sono felice che la signora Bush venga a visitare il nostro sistema museale e le Cinque Terre… Ma, allo stesso modo, vorrei che anche i movimenti critici venissero qua per dialogare con la città, per discutere dei temi d’attualità, come la globalizzazione, l’ambiente, la salute”. Incontrai il Genoa Social Forum il 10 maggio. Ne scaturì un programma molto intenso di iniziative.

Ricordo il seminario del 14 luglio sul tema “Il potere della letteratura”, che si concluse nel teatro più grande della città. Parteciparono intellettuali di molti Paesi del Mediterraneo: Rosi Braidotti, Carlo Coccioli, Vincenzo Consolo, Nedim Gursel, Predrag Matvejevic, Abdelwahab Meddeb, Elisabetta Rasy, Vassilis Vassilikos, Khaled Fouad Allam. Rileggendo gli atti si può dire che c’era già, profetica, una critica alla rete sulla questione della memoria del passato. Così come c’erano i segni di una concezione non antropocentrica del mondo, con al centro non solo l’uomo ma anche la natura.

Ricordo, ancora, il concerto di Bob Dylan allo stadio, il 20 luglio. Seppi della morte di Carlo Giuliani poco prima dell’inizio del concerto. Concordammo con l’artista di non sospenderlo e di dedicarlo a quella giovane vita spezzata. Non sapremo mai se Dylan cambiò la scaletta che aveva previsto: ma è bello pensare che quella sera abbia scelto di cantare molte canzoni pacifiste del suo repertorio.

Poi vennero le torture di massa a Bolzaneto e alla Diaz. Gli spezzini tornarono in tanti a Genova, contro l’orrore. Anche a Spezia la manifestazione fu enorme. Andai a Porto Alegre, al Forum Sociale Mondiale del gennaio 2002, poi a quelli europei di Firenze del novembre 2002 e di Saint Denis del novembre 2003. Il vecchio Sindaco di Spezia, il comunista amendoliano Aldo Giacché, allora anima della sezione Nord dei DS -nel cuore popolare della città- mi invitò a raccontare, in una piazza gremita, la mia esperienza a Porto Alegre. Anche lui, come me, era convinto che il riformismo dovesse nutrirsi della cultura alterglobalista, contro l’idea dominante della globalizzazione liberista, secondo cui il benessere di pochi avrebbe comunque comportato vantaggi per tutti.

Ma quel tentativo dal margine fu isolato e fallì. La risposta della sinistra, italiana ed europea, fu desolante. Era la sua ultima occasione, e fu perduta. Divenne definitivamente chiaro che non c’era più un’offerta politica al livello delle aspirazioni alla giustizia sociale e ambientale. E che quel percorso andava continuato non nei partiti o in Parlamento, ma nella società e nella cultura, perché operasse il “soggetto solidale e responsabile” di cui già allora parlava Edgar Morin. La precondizione per la rinascita della politica.

GP

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Savona: i danni irreparabili delle riforme centralistiche

La nostra città non può assolutamente permettersi una campagna elettorale (e di conseguenza una possibile nuova amministrazione) costretta tra argomentazioni rivolte all’indietro con stucchevoli rimpalli di pregresse responsabilità e l’indicazione di modelli “esterni” da seguire, primo fra tutti quello dell’attuale amministrazione regionale.

Anzi, per diverse ragioni che qui saranno sinteticamente esposte, il tema del rapporto dialettico con la Regione e il Governo rimane quello più significativo da affrontare con il massimo di capacità progettuale e di interlocuzione a tutti i livelli.

Precisato che Savona si trova da tempo in una situazione di declino che è stato accentuato, nella fase post – industriale da scelte di tipo speculativo profondamente dannose, sarà bene stabilire alcuni punti di partenza da condensare in affermazioni molto precise:

1) Il giudizio sul recente passato può ben essere riassunto nel fatto che la maggioranza uscente sembra aver deciso di non ricandidare il Sindaco in carica, che pure ha sostenuto per cinque anni. Ricordo per inciso che stiamo agendo sul “virtuale”. Non è stata ancora fissata la data delle elezioni e le candidature saranno “vere” soltanto al momento del deposito delle firme autenticate necessarie per i candidati e le liste. Ciò avverrà 30 giorni prima della data di effettivo svolgimento dei comizi elettorali. Adesso come adesso, esaminando lo stato degli atti e volendo caratterizzarsi propagandisticamente (ma non è il caso), si potrebbe scrivere di “5 anni perduti”. In questo senso appare urgente la necessità di reclamare un’alternativa.

2) Il destino di Savona si gioca essenzialmente sulla “Savona fuori di Savona” e l’indicazione di un modello come quello della Regione Liguria appare davvero frutto di una visione del tutto provincialmente subalterna. Tanto più che in questi anni dalla Reggia di De Ferrari sono giunte indicazioni prevalentemente di accentramento corporativo – privatistico come è ben dimostrato dalla conduzione della Sanità, settore che rappresenta la gran parte del bilancio dell’Ente.

3) È in atto un discorso di pesante riaffermazione del ruolo di Genova – città Regione mentre Savona sta gradualmente perdendo i pezzi della propria rappresentatività. Senza alcuna intenzione di sollevare ristrette questioni di ambito localistico, basterà ricordare il passaggio della CARISA in CARIGE (non certo un fiore all’occhiello), la perdita della sede dell’Autorità Portuale (nell’ambito della disgraziata legge Del Rio), il papocchio delle aggregazioni – riaggregazioni delle sedi delle Camere di Commercio posto addirittura al di fuori da qualsiasi senso di continuità territoriale; l’accorpamento “a scavalco” di alcune sedi sindacali; l’ormai prevedibile accorpamento della sede dell’Unione Industriali a Genova.

4) La (credo voluta) esclusione della città ancora capoluogo di provincia (sull’Ente provincia andrebbe aperto un discorso molto complesso sul piano istituzionale) dal perimetro della cosiddetta “area industriale di crisi complessa”. Testimonianza del permanere di una spaccatura a livello territoriale, che già più di trent’anni or sono uno studio del CNEL indicava di colmare.

Occorre muoversi esattamente al contrario di tali spaccature e della conclamata sudditanza dovuta a una ristretta visione di tipo provinciale.

Una miopia sterilmente litigiosa nella ristretta cerchia delle nostre mura e subalterna all’esterno, in particolare nella specifica situazione della Liguria.

Franco Astengo

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Ce.Sto: la “piazza diffusa” per fare società

La Cooperativa Sociale mista Il Ce.Sto nasce ufficialmente il 24 Luglio 2015, ma è attiva già come associazione dal 1980. Viene fondata per dare una risposta all’esigenza di maggiore struttura alle attività dell’organizzazione e per coordinare i suoi 70 operatori. La Cooperativa fornisce servizi socio-educativi e culturali e favorisce l’integrazione di soggetti a bassa contrattualità sociale attraverso attività in continua crescita, con lo scopo di valorizzare al massimo le capacità e i talenti di ciascuno. Dal 2015 ad oggi ha visto un aumento di soci (da 4 a 19). Ha, inoltre, aumentato i suoi ricavi in termini di fruizione e produzione, riscontrando un importante implemento dell’impatto sociale territoriale. Ha, infatti, attivato un modello di innovazione sociale dove gli operatori, i volontari e gli abitanti del centro storico sono loro stessi produttori e fruitori di beni e servizi. Questo modello, che ha creato una forte sinergia con l’abitato, è composto da soggetti eterogenei che ruotano intorno alla cooperativa: soci, volontari, famiglie, bambini, anziani, commercianti, migranti, nuovi e vecchi cittadini, enti, onlus, associazioni di categoria e portatori di interesse. Dal 1° gennaio 2017 ad oggi il Ce.Sto con Cooperativa Archeologia e Fondazione Luzzati e Teatro della Tosse Onlus hanno in carico la gestione dell’area “Giardini Luzzati”.

I Giardini Luzzati sono una “piazza diffusa” dove si ritrovano bambini, giovani, anziani e famiglie, turisti e “foresti” di passaggio, “nuovi cittadini di origine straniera”, fasce deboli.
Il complesso include, oltre all’Area Archeologica, un Circolo bar/ristorante (entrambe le aree sono ora in fase di ristrutturazione), due piazze (Emanuele Luzzati e Mauro Rostagno), un orto sociale e il campetto da calcio “Eduardo Galeano”.

Altro tassello dell’arcipelago Ce.Sto è l’”Associazione Massoero 2000”, che arriva da una storica istituzione che offriva un riparo e un letto ai più bisognosi. Oggi è una struttura complessa che gestisce la Comunità di Monachette, la prima accoglienza “Rifugio” e altri alloggi distribuendo quotidianamente 41 pasti ai propri ospiti. Per la scuola è attivo il progetto L’UDA che parte dall’analisi partecipata, con le e gli insegnanti, del percorso scolastico delle bambine e dei bambini a rischio o in situazione di vulnerabilità che frequentano scuole in aree e territori particolarmente svantaggiati della città metropolitana di Genova. Ultima nata è “Goodmorning Genova”. Inizialmente solo una pagina Facebook per tenere i contatti tra chi frequentava i Giardini Luzzati durante il lockdown, ma nel giro di pochi mesi è cresciuta esponenzialmente per visitatori (più di 40 mila) e qualità dei prodotti messi on line tanto da diventare una testata giornalistica registrata con un direttore responsabile. Infine, all’interno del nuovo progetto di riqualificazione promosso dall’amministrazione comunale genovese nell’ambito del piano integrato del centro storico “I caruggi”, il Ce.Sto è portavoce di 53 enti e associazioni del mondo della cultura, del sociale e economico insieme alle associazioni del sestiere del Molo che stanno progettando una serie di attività per far rinascere il Sestiere come un grande patto di rigenerazione del territorio, sia dal punto di vista della qualità della vita, sia come attrattività turistica per restituire il sestiere alla città e ai turisti. Un progetto inclusivo di rigenerazione che si svilupperà in almeno tra anni di attività.

La cooperativa Il Ce.Sto