Numero 10, 15 luglio 2021

PILLOLE

 Scajola, il sindaco al di sopra della legge

Primo luglio: l’ex ministro degli Interni negli anni d’oro del berlusconismo e oggi sindaco di Imperia Claudio Scajola caccia due carabinieri dal consiglio comunale, intervenuti dopo la segnalazione che non si stavano rispettando le norme anti contagio. Difatti le foto riproducono consiglieri privi di mascherine, nonostante l’obbligo di indossarle in luogo chiuso. Ma all’arrivo degli agenti il sindaco è stato colto da raptus inveendo contro “il presunto golpe”. Ennesima conferma che questi politici si considerano una casta di intoccabili e di insindacabili. Già miracolati per via elettorale da Berlusconi con l’elezione a cariche pubbliche. Dove hanno potuto dare il peggio di sé. Come chi definì “rompicoglioni” il consulente Marco Biagi, poi ucciso dalle BR, perché chiedeva protezione.

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Il ministro Giovannini e le autostrade liguri: tutto da ridere

Quanto segue va letto con l’intonazione simpatica di Beppe Grillo quando faceva il comico (sì, lo fa ancora ma non fa più ridere): Il ministro Giovannini, ma lo avete sentito? Mi fa impazzire. È venuto qui, e ha sparato una serie di puntini, puntini che deve avere uno staff favoloso a scriverglieli. Lo giuro: lui, che è ministro delle infrastrutture, dice che ha saputo del caos delle autostrade ligure da un rapporto OCSE del 2009 (pausa comica). Ma dove ha vissuto finora? Nel deserto del Sahara dove non ci sono incidenti tra cammelli da duemila anni? Per risolvere il problema ha promosso – ha detto così – un po’ di i tavoli tecnici. Io li avrei bocciati. E ha chiesto ai poveri Benetton di abbassare i pedaggi. Abbassare? Dovrebbero rimborsarci belìn per ogni coda: dieci euro a chilometro, a tutti.

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La Corte Costituzionale bacchetta Toti sul paesaggio

Lunedì 12 luglio, la Corte Costituzionale ha bocciato l’ennesima legge di Regione Liguria contro il paesaggio, dichiarando incostituzionale l’ultima escogitazione della banda Toti per distruggere l’ambiente e blandire la speculazione devastatrice del territorio. Uno dei target elettorali più vicini al cuore di questa destra affaristica. Fortunatamente per noi liguri (che non siamo soci del garden club del privilegio) c’è un giudice – non a Berlino, ma a Roma – che non ammette deroghe ai piani urbanistici comunali, nonché alla disciplina del vigente Piano di Coordinamento paesaggistico (legge regionale del 22 agosto 1984). Monito per i Mediaset boys che pretendono di “vendere” la Liguria stendendo cafoneschi red carpet o riempiendo le strade cittadine di ombrellini colorati.

EDITORIALI

Luglio, gli anniversari della Liguria democratica

Ne abbiamo parlato e continuiamo a farlo nell’odierno numero de La Voce del Circolo Pertini, 15 luglio: questo mese porta con sé ricordi di momenti decisivi nella storia novecentesca di noi liguri; che vanno mantenuti indelebili, nel loro mix di epica gloriosa e di minaccia incombente, che alterna memento mobilitante e vigilanza rigorosa. Perseguendo l’idea di una Liguria quale terra della convivenza solidale e democratica, da nutrire di consapevolezza attraverso la narrazione dei fatti emblematici e il recupero della fierezza necessaria per affrontarli.

Cominciamo con i giorni radiosi di un tempo in cui nessuno di noi era già presente: il ventuno di luglio 1921, a Sarzana; quando una squadraccia fascista giunta dalla Toscana sotto il comando di Amerigo Dumini (futuro carnefice di Giacomo Matteotti) per mettere a ferro e fuoco la città, fu respinta e messa in fuga dall’alleanza – caso più unico che raro – tra arditi del popolo, scesi in campo contro l’orda violenta e assassina, e carabinieri, schierati a difesa della legalità democratica.

Alcuni di noi ricordano i giorni della fierezza che portarono il diciannove luglio 1960 alla caduta del governo Tambroni, alleato con il Movimento Sociale degli ex fascisti. Conseguenza dei “fatti” del 30 giugno, in cui la ferma risposta popolare reagì al tentativo di celebrare riti reazionari nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza. Quando i nostri camalli abbandonarono le banchine e le officine del porto, risalirono via San Lorenzo muniti di ganci da stivatore ed espulsero da Piazza De Ferrari gli indebiti occupanti. E quando un governo fellone gli lanciò contro le camionette della celere, gli uomini del porto le sollevarono di peso gettandole nella fontana al centro della piazza.

Infine, ancora rimane impressa nella memoria di molti di noi il giorno del dolore: il diciannove luglio 2001 di un tragico G8, della democrazia sfregiata e di una giovane vita troncata, quando mille giochi di potere scaricarono sul nostro territorio il peso soffocante dei loro disegni inconfessabili; proprio perché passavano ben sopra la sua testa: il nascente ordine internazionale militarizzato, che rifece le prove generali dopo Seattle e Napoli, che a settembre si sarebbe imposto dopo il crollo di due Torri Gemelle; il definitivo passaggio nazionale a una Seconda Repubblica restaurativa e al tempo stesso costitutiva della simil-democrazia da talk show, fondata sulla sistematica manipolazione della realtà, dopo le feroci avvisaglie negli anni insanguinati delle stragi e della Strategia della Tensione.

Coincidenze di luglio, indispensabili per la riappropriazione di uno spirito ligure che ci rammenti l’impegno per la costruzione della democrazia civica del Terzo Millennio. A cui la Voce del Circolo Pertini dedica questo numero.

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Vent’anni dopo

A vent’anni dalle terribili giornate di Genova del luglio 2001, è il caso di sottoporre a un’opera di manutenzione della memoria i fatti di allora: manutenzione necessaria per i più giovani – che non vi assistettero – e per chi li visse, ciascuno dal proprio angolo e nella propria prospettiva. Quel Luglio di vent’anni fa segna un crinale, una spaccatura nei rapporti Stato-cittadini le cui conseguenze (solo negative, perché di positive non riusciamo proprio a vederne) viviamo ancora oggi.

Primo effetto: il movimento no-global è stato brutalmente messo a tacere. Le centinaia di migliaia di persone, giovani e meno giovani, accorsi a Genova da ogni angolo del mondo, oggi non si possono immaginare né organizzare. Il sangue sparso a Genova non è stato cancellato, non solo dalla memoria ma anche nella sua funzione ammonitrice e minacciosa. Quel sangue potrà ancora, ove occorra, tornare a essere versato.

Secondo effetto. La gestione da parte degli organi preposti all’ordine pubblico ha mostrato paradossalmente due fenomeni apparentemente contrastanti: la clamorosa disorganizzazione ‘sul campo’ delle forze di polizia, negli organi di comando come nel personale esecutivo, ma – fatto ben più preoccupante – una vera e propria ‘gestione’ politica di quella disorganizzazione, pur assistita da e dotata di mezzi di inusuale capacità offensiva nei confronti dei dimostranti. Si è fatto in modo che quella capacità offensiva trascurasse l’essenziale funzione di difesa dei cittadini, dei loro beni, della loro sicurezza, ignorando le devastazioni operate dal famigerato, e mai individuato ‘blocco nero’, scatenandosi invece nell’aggressione alle forze, originariamente inermi e pacifiche, di quanti avevano immaginato di fare del G8 una grande occasione di intervento popolare sulle scelte politiche, sociali ed economiche, dei cosiddetti ‘Grandi’.

La polizia ha perso allora una grande occasione per dimostrare di avere portato a termine il processo di democratizzazione che era da anni in atto al suo interno.

Si è interrotto a Genova, in gran parte burocratizzandosi, il coraggioso cammino intrapreso dal SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) sotto la guida del rapidamente umiliato e dimenticato questore Francesco Forleo. In una forsennata ‘coazione a ripetere’, la polizia e i carabinieri (ma, come si può vedere dalla cronaca, anche gli agenti penitenziari) sono ancora oggi pronti a rendersi volenterosi esecutori di una politica di spesso selvaggia repressione. In questo favoriti dalla trasformazione degli agenti (i ‘tutori dell’ordine’) in minacciosi e non identificabili robot. E’ significativo il gesto – suscettibile di sanzioni disciplinari con cui viene punito – di togliersi il casco a manifestare che c’è un essere umano là, dentro a quel robot.

L’ultima considerazione è una penosa constatazione che riguarda l’assenza della magistratura inquirente, in questo come in altri casi (si pensi all’eccidio di via Fracchia), lasciatasi tenere a bordo campo, assente volenterosa e disponibile, pronta a intervenire solo a operazione compiuta con l’apparato rituale e non efficientissimo della nostra giustizia.

Con buona pace degli articoli 55 e 327 del codice di procedura penale, che affidano al pubblico ministero il compito di dirigere la polizia giudiziaria nel ’prendere notizia dei reati e impedire che vengano portati a ulteriori conseguenze’.

La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”

Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti

Hanno scritto per noi:

Andrea Agostini, Franco Astengo, Enzo Barnabà, Giorgio Beretta, Pieraldo Canessa, Roberto Centi, Comitato spontaneo amici del Tariné, Battistina Dellepiane, Erminia Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Valerio Gennaro, Santo Grammatico, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Giuseppe Pippo Marcenaro, Anna Maria Pagano, Marianna Pederzolli, Enrico Pignone, Bruno Piotti, Bernardo Ratti, Ferruccio Sansa, Mauro Solari, Giovanni Spalla, Gianmarco Veruggio, Franco Zunino

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FATTI DI LIGURIA

La singolare vicenda dei “cassonetti intelligenti” di AMIU (P01)

Un paio di mesi fa AMIU annunciava l’arrivo dei “cassonetti intelligenti” per incentivare la raccolta differenziata e per applicare la tariffazione puntuale, dove “ognuno pagherà la Tari in funzione della spazzatura prodottaPer buttare la spazzatura sarà necessario un badge elettronico – probabilmente la tessera sanitaria – e il cassonetto sarà in grado di pesare e riconoscere il materiale conferito. Costo dell’operazione 28 milioni di euro per 19.400 cassonetti intelligenti (1450 €/cad).

I cassonetti intelligenti non sono una novità. Sono stati introdotti in particolare da Hera e A2A ormai un decennio fa. Abbiamo perciò notevoli dati di ritorno, che ne testimoniano il fallimento, per vari motivi:

– alti costi di acquisto (e dunque di ammortamento);

– alti costi di manutenzione (forzature e rotture delle serrature sono frequenti)

– aumento esponenziale di abbandoni con relativi costi di pulizia ed asporto e di conferimenti inappropriati (nei cassonetti della RD non controllati) con conseguente drastica riduzione della qualità del materiale raccolto (plastica, carta) comportante tra l’altro una riduzione dei compensi dal CONAI.

– inapplicabilità della tariffa puntuale che con questo sistema finisce per premiare i comportamenti scorretti (abbandoni e conferimenti inappropriati), mentre chi agisce correttamente è penalizzato stante la correlazione con i conferimenti controllati dalle calotte “intelligenti”

Le evidenze sulla loro inadeguatezza si accumulano ed è già lunga la teoria dei Comuni che le hanno abbandonate per tornare al porta a porta (o almeno ai cassonetti senza calotte intelligenti). Ricordiamo che il porta a porta è espressamente indicato nel Piano Regionale ed è l’unico sistema che garantisca il raggiungimento e il superamento dei limiti di legge nella Raccolta Differenziata (R.D.) pari al 65%, mentre il sistema dei cassonetti si è dimostrato avere un limite fisiologico attorno al 35% di R.D. Inoltre è l’unico sistema che garantisca la qualità del differenziato perché, ricordo, la R.D. non è fine a se stessa, ma è propedeutica al riciclaggio delle materie raccolte.

Le calotte (pseudo) intelligenti, sono nate per mantenere in vita la strategia dei cassonetti ed è questo, penso, il motivo della loro introduzione: passare al porta a porta significa scontrarsi con le abitudini radicate dei lavoratori AMIU (e quindi con alcuni sindacati) e dei cittadini. Cambiare tutto per non cambiare niente è sicuramente più facile per gli amministratori dell’AMIU. Tanto paghiamo noi cittadini.

PS: è dimostrabile che il sistema porta a porta non comporta un incremento dei costi.

Mauro Solari

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FATTI DI LIGURIA

La priorità è il contrasto alle diseguaglianze

Negli ultimi decenni il mondo non è diventato più povero, bensì più diseguale: nelle vecchie democrazie si aggravano i divari interni mentre i benefici di globalizzazione e innovazione tecnologica non sono distribuiti equamente. Come Genova che Osa crediamo che il funzionamento di una sana democrazia sia irrimediabilmente legato al contrasto della disuguaglianza. La democrazia – dice Joseph Stiglitz – richiede società in cui «il divario fra chi ha e chi non ha è ridotto», dove «esiste il senso di un destino comune, un impegno condiviso a estendere opportunità».

Anche in Italia la distanza tra ricchi e poveri cresce di anno in anno. Qual è il profilo del nuovo povero? I fattori interagenti delle diseguali distribuzioni di opportunità sono tre: essere donna, essere giovani, vivere nel Sud Italia.

Negli ultimi decenni l’Italia non ha riconfigurato il welfare per includere i nuovi rischi sociali nel vigente sistema di protezione sociale. In tal senso vanno ricordate le mutazioni profonde nel mondo del lavoro. Sicché, dagli anni 2000 in poi le giovani generazioni (in misura maggiore rispetto al passato le donne e gli stranieri giunti con i nuovi flussi migratori) non hanno ricevuto dallo Stato quasi nessuna tutela. Questo ha contribuito a una crescita delle diseguaglianze tra chi è garantito e chi no.

La Liguria è un esempio delle trasformazioni demografiche e sociali del tempo e delle enormi sfide al welfare futuro, anche rispetto ai vertiginosi processi di invecchiamento della popolazione. Inoltre, presenta caratteristiche più simili al Sud Italia rispetto alle regioni limitrofe. L’indigenza non è più appannaggio degli emarginati sociali (senzatetto, tossicodipendenti, psichiatrici, prostitute) poiché la disoccupazione, il precariato, le pensioni minime, le malattie, i divorzi, la perdita della casa, possono fare precipitare la classe media sotto la soglia della dignità. Lo specchio di un’Italia impoverita e polarizzata tra ricchezza e miseria. In particolare Genova, a seguito della deindustrializzazione non ha trovato nuove specializzazioni identitarie, a differenza di altre realtà metropolitane con lo stesso passato industriale. Perciò è significativo riportare i dati raccolti dal nostro centro studi Genova che Osa nel dossier “Povertà” del 2017: in Liguria il rischio povertà è in continuo aumento, il più alto di tutto il Settentrione. La percentuale di chi è in grave deprivazione materiale (impossibilitati a pagare almeno 4 tra 9 beni e servizi tra: affitto e utenze domestiche, riscaldamento, spese impreviste, carne, pesce o proteine equivalenti ogni due giorni, un fine settimana di vacanza fuori casa, una macchina, una lavatrice, la TV, telefono) è più che triplicata nell’ultimo decennio. Il tasso di inoccupazione cresce dal 9,3 del 2007 al 15,1% del 2016 (ISTAT). I neet sono circa 40mila, a fronte di soli 30mila iscritti all’Università. I Liguri che nei 12 mesi precedenti al 2017 hanno svolto attività educative/informative (andare 4 volte al cinema, 1 volta a teatro, 1 volta a un museo,1 visita un sito archeologico o monumento, 1 volta a un concerto, letto 4 libri, un quotidiano almeno 3 volte a settimana) sono il 30,6%. A conferma che la povertà è prima di tutto condizione di deprivazione immateriale, che limita l’accesso alla cultura e all’autodeterminazione.

I dati del dossier, divisi per fasce anagrafiche e per genere, evidenziano come essere donne e/o giovani siano due variabili che incidono profondamente. Questo vale anche per Genova, passata da 848 mila abitanti nel 1965, a circa 580 mila nel 2020. In media lasciano la città 5.000 giovani l’anno, principalmente benestanti. Complessivamente, negli ultimi 40 anni Genova ha perso 185 mila under 35. Il dato dell’emigrazione, combinato con la denatalità, rivela un progressivo impoverimento generazionale. Anche a Genova le diseguaglianze di reddito si ripartiscono per residenza, età, genere e provenienza: il reddito medio imponibile del Lido è quasi 2 volte il valore medio comunale e 3 volte quello di Ca’ Nuova del CEP (2011); il reddito medio imponibile nella fascia d’età 45-64 anni è 1 volta e mezzo quello nella fascia 25-44 e 4 volte e mezzo il reddito nella fascia 15-24 anni (2014); il reddito medio delle donne è poco più della metà di quello degli uomini (2011); il reddito imponibile medio dei cittadini stranieri è appena il 60% del reddito medio complessivo di tutti i residenti a Genova. L’indice di disagio sociale (IDS) raggiunge il valore di 9,05 nel quartiere di Ca’ Nuova e il suo opposto di -9,32 pochi chilometri più a levante, a San Vincenzo. Dati esplosi nella pandemia degli ultimi due anni, che la nostra associazione continua ad aggiornare, per poi promuovere proposte di contrasto alle diseguaglianze.

Marianna Pederzolli, attivista di Genova che Osa

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“La città del quarto d’ora”. Invito a una discussione

Intorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non si è alimentato nessun dialogo sociale su come utilizzare, e con quale visione di prospettiva, i finanziamenti europei. Ma senza una conversazione pubblica che costruisca una visione condivisa l’occasione rischia di essere sprecata.

Facciamo l’esempio delle città, che catalizzeranno molte risorse. I Comuni liguri hanno rovistato nei cassetti per tirar fuori vecchie proposte. O ne stanno preparando di nuove. Ma con quale idea di città? Non lo sappiamo, perché non se ne discute in nessuna occasione.

Tempo fa ho proposto, alla Spezia, di lavorare, come a Parigi, alla “città del quarto d’ora”. Una città in cui i servizi essenziali e tutto ciò che serve nei diversi quartieri sia raggiungibile in non più di un quarto d’ora, a piedi o in bici. Una città multicentrica, con il passaggio dal concentrato al distribuito, da pochi centri commerciali a tante botteghe di quartiere, e così via: la mobilità sarebbe totalmente ripensata, perché l’auto servirebbe molto meno. Una città in cui alla prossimità delle funzioni corrisponda una prossimità delle relazioni, con maggiori opportunità per le persone di incontrarsi, dialogare e conversare per progettare assieme il futuro, avere cura reciproca e dell’ambiente.

L’unico scenario compatibile con l’impegno di lasciare ai giovani una città sostenibile.

Per saperne di più consiglio la lettura del libro di Ezio Manzini, professore onorario al Politecnico di Milano, “Abitare la prossimità – Idee per la città dei 15 minuti”. Potrebbe essere questo – la “città del quarto d’ora” – lo scenario condiviso attorno a cui muoversi con progetti concreti e tecnicamente fattibili per utilizzare i finanziamenti europei.  Secondo Manzini esistono, oltre a questo, altri due scenari, entrambi da evitare:

“Uno di essi è la città delle distanze: la città modernista divisa in zone monofunzionali separate tra loro, che oggi prova ad aggiornarsi auto-definendosi “smart” e affidando alla tecnologia la soluzione di tutti i problemi che lei stessa ha generato. L’altro scenario è la città del tutto a/da casa: la città in cui si lavora, studia e consuma stando nel proprio spazio privato. Una maniera di pensare e di fare che, in nome di una pretesa comodità (per chi sta dalla parte del cliente) produce un diffuso distanziamento sociale (che, a pandemia finita, si praticherà non per obbligo ma per convenienza). Uno scenario emergente, spinto dai colossi delle piattaforme e dall’opportunità di pigrizia asociale che offre”.

Purtroppo il confronto tra i tre scenari non si fa. Nei prossimi mesi in molti piccoli e grandi Comuni dell’Italia e della Liguria i cittadini sceglieranno il nuovo Sindaco. Impegniamoci perché i diversi candidati siano attivi nel proporre idee di città, programmi per attuarle e linee guida per l’utilizzo dei fondi del Pnrr. E proponiamo loro lo scenario innovativo. Altrimenti a prevalere saranno gli scenari basati sulle inerzie dei sistemi e sul potere dei più forti.

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Le mani di Enel ed Eni sulla transizione energetica anche in Liguria

La questione della transizione energetica riguarda anche la Liguria, sia perché Enel vuole costruire una centrale a gas alla Spezia al posto di quella a carbone, sia perché è Ansaldo Energia che dovrebbe costruire le turbine a gas di questo impianto. La vicenda è parte integrante di una grande questione nazionale-internazionale. Dobbiamo abbandonare tutte le fonti fossili – carbone, petrolio, gas – perché si stanno esaurendo e tra non molto ci lasceranno loro; e perché occorre uscire da un sistema produttivo che sta distruggendo la biosfera, cioè la nostra base vitale. Il modo in cui farlo non è tuttavia semplice, anche perché in gioco ci sono grandi interessi economici radicati nelle fonti fossili.

In questo contesto è tornata recentemente in auge la narrazione del gas come combustibile di transizione in attesa di un futuro basato sulle fonti rinnovabili. In tutto il mondo, e in Europa in particolare, il dibattito verte sulla definizione di ciò che è green. La decisione europea, che originariamente escludeva che il gas fosse green, è stata rinviata a dopo l’estate. Il gas potrebbe quindi rientrare tra gli investimenti considerati “sostenibili”, impedendo di raggiungere l’obiettivo – che l’Europa sta per fissare – delle emissioni zero entro il 2050 e svuotando così di contenuto il Green Deal europeo.  Ciò è il frutto della pressione molto forte delle industrie fossili: tra esse c’è Enel, che in Italia vuole costruire nuove centrali a gas facendo man bassa dei benefici garantiti dal capacity market per stabilizzare la rete e garantire l’approvvigionamento energetico. Obiettivo che può essere garantito da un’altra strategia, fondata sulle rinnovabili e sui sistemi di stoccaggio e accumulo di fonti, come le rinnovabili, intermittenti. Tuttavia l’offensiva delle industrie fossili potrebbe essere vincente, anche se 11 governi europei, guidati dalla Danimarca, hanno risposto con un documento anti gas.

Il governo italiano non è tra costoro, perché è troppo subalterno verso Enel ed Eni. Stretto tra un possibile sussulto di coscienza a livello europeo e le spinte ambientaliste provenienti dalla società, potrebbe però cambiare idea. Se dovesse insistere, sarà decisivo, per ogni centrale, il ruolo della Regione: basterà il suo diniego all’intesa, come dice la legge. È ciò che nel Lazio dice di voler fare Zingaretti rispetto al progetto dell’Enel a Civitavecchia, analogo a quello spezzino. Nei giorni scorsi Toti è stato costretto, dall’unità che si è creata a Spezia, a dire per la prima volta di essere “allineato al territorio” contro il gas. Bene, neghi l’intesa e proponga una nuova strategia energetica.

La nuova strategia garantirebbe molti posti di lavoro. Fatih Birol, Direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iae), ha detto: “Ci sarà un crollo nella domanda di petrolio e di gas. Ma prevediamo che gli investimenti nelle rinnovabili produrranno 30 milioni di nuovi posti di lavoro, soprattutto nei settori del fotovoltaico, dell’efficienza energetica, delle nuove reti intelligenti di distribuzione. A fronte dei 5 milioni di posti di lavoro persi nell’industria dei combustibili fossili. La vera scommessa dei governi è gestire con saggezza questa trasformazione”.

È anche la scommessa delle imprese. La stessa Enel fa parte dell’Entso-E e della Electrification Alliance per lo sviluppo delle rinnovabili e ha creato Enel Green Power. Ansaldo darà vita ad Ansaldo Green Tech, per la realizzazione di pale eoliche e di sistemi di stoccaggio per l’energia da fonti rinnovabili. Non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi, ma bisogna provarci. Altrimenti la “transizione ecologica” diventa una questione da talk show e sfugge alla grande questione del nostro tempo: un nuovo paradigma produttivo.

GP

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I cento anni dei “fatti di Sarzana”

“Se tutta l’Italia avesse fatto come Sarzana, non ci sarebbe stato il fascismo”, diceva Sandro Pertini.

Nell’estate del 1921 i fascisti avevano conquistato con le loro violenze tutta la Toscana. La Liguria da un lato e il parmense dall’altro si mostravano refrattari alle squadracce fasciste. Sarzana, Comune amministrato dai socialisti, si ergeva come un ostacolo sul bivio strategico per chi dalla Toscana avesse voluto marciare da un lato verso Genova e dall’altro verso Parma.

Una squadra di armati fascisti guidata da Renato Ricci, uno squadrista violento, che nella Repubblichetta di Salò sarà capo della famigerata Guardia Nazionale Repubblicana, creò un anello di sangue e di morte, attorno a Sarzana, partendo da Fosdinovo, dove incendiarono la casa del sindaco, spararono sulla popolazione e devastarono il comune. A Monzone uccisero due abitanti, devastarono e rubarono, scesero ad Aulla dove si diedero a bastonare i cittadini. Scesero poi verso Santo Stefano Magra, dove uccisero due persone e ne ferirono altre tre, infine si diressero verso Sarzana, mentre a Portovenere veniva ucciso un giovane comunista. A Sarzana si erano organizzate diverse squadre di arditi del popolo. Nel timore di uno scontro sanguinoso, i carabinieri decisero di fermare i camion dei fascisti e di sequestrarli, imponendo loro di aggirare Sarzana a piedi per ritornare verso Carrara. Nelle campagne i fascisti uccisero un altro uomo. A questo punto furono fermati dai carabinieri. Il Ricci fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Sarzana.

I fascisti toscani non potevano tollerare una simile onta e, diretti dal marchese Dino Perrone Compagni, decisero una spedizione punitiva verso la città dei “rossi”.

All’alba del 21 luglio 1921 una colonna di circa 600 fascisti, comandati da Amerigo Dumini, che sarà poi l’assassino di Giacomo Matteotti, marciando lungo la linea ferroviaria, arrivò a Sarzana. Portavano con sé latte di benzina per mettere a fuoco la città.  Nel frattempo, si era creato su iniziativa dell’amministrazione comunale, diretta dal sindaco socialista Pietro Arnaldo Terzi un comitato di difesa popolare, cui partecipavano socialisti, comunisti, anarchici e repubblicani, vi erano inoltre le squadre degli arditi del popolo, giunte anche dalla località vicine.

Nel piazzale della stazione un plotone di carabinieri, comandati dal capitano Guido Jurgens, intimò ai fascisti di non procedere. Da parte fascista partì un colpo che uccise un giovane caporale. Il capitano Jurgens diede ordine di aprire il fuoco. Sul terreno rimasero 5 fascisti morti e numerosi feriti. La massa dei fascisti fu presa dal panico e si disperse nelle campagne. Qui molti furono uccisi dai contadini spaventati o raggiunti dagli arditi del popolo.

Sarzana fu un caso raro, nella storia di quegli anni. Le forze dell’ordine erano solite favorire i fascisti, quando non addirittura accodarsi alle loro violenze. A Sarzana si creò, caso unico nella storia italiana, una capacità di ferma risposta alla violenza armata dello squadrismo, frutto del lavoro dell’amministrazione comunale socialista del sindaco Terzi, che morirà poi nei lager nazisti, della mobilitazione compatta della popolazione, nell’unità delle forze antifasciste e nel comportamento teso a mantenere l’ordine da parte dei carabinieri e delle forze dell’ordine.

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Il Galliera? Un nonsense

La Cantatrice Calva di Ionesco è un formidabile nonsense in cui nessuno capisce niente ma il divertimento è assicurato. Lo stesso vale per il progetto della costruzione del nuovo Galliera, benedetto ex ante da monsignor Tasca, che forse ha usato l’acqua del Polcevera anziché quella santa, e per questo l’asta è andata deserta. A questo punto i vertici si sono chiesti il perché della defezione, e se qualcuno avrà la voglia di leggere le motivazioni si divertirà ancora di più che a teatro. Quella che segue è solo un’aporetica sintesi della comunicazione del vicepresidente del CdA, Giuseppe Zampini. Il quale afferma che la colpa del vuoto intorno alla gara non è dipeso dall’aumento di budget di 154 milioni (quisquilie e pinzillacchere), ma del contraente generale, detto (perché fa più scena) general contractor. Per comprendere, questa figura è responsabile di tutto, dall’acquisto dei materiali fino all’esecuzione finale e la consegna nei tempi previsti dell’opera, ed evita che il committente debba seguire tutte le aziende piccole e grandi che partecipano alla costruzione. Una figura di garanzia e di riferimento, scomoda a volta, anche perché di solito investe direttamente e poi si fa pagare. Chiamiamolo allora controllore generale, che si capisce anche di più. Pericoloso, perché con questo controllore, di giochetti se ne fanno pochi, se è serio come di solito è per via delle innumerevoli responsabilità di cui si fa carico, oltre che talvolta della parte economica. D’improvviso i due immobili che dovevano essere messi a garanzia di questa figura fondamentale ed eventualmente ceduti, spariscono e qualcuno (che benedizione dal Cielo) tira fuori due lasciti ereditari dell’esatto importo degli immobili. Certo, si dovrebbe controllare quali condizioni abbiano questi misteriosi lasciti, ma non stiamo a sottilizzare. Allora meglio fare le cose da soli, eliminando il controllore e pagatore, il general contractor, e tirando fuori dal cappello il coniglio dell’appalto integrato. Ma cos’è questo Carneade? Con l’appalto integrato avviene di fatto uno sdoppiamento tra chi esegue i lavori e chi li ordina, un chiaro esempio di conflitto di interessi, come sostenuto pesantemente dal presidente di Fondazione Inarcassa Franco Fietta. Tra l’altro, al momento, non è nemmeno legale in quanto i lobbysti stanno solo cercando di reinserirlo nel codice civile, ed è stato applicato, ma solo come fatto eccezionale, per la costruzione del ponte ex Morandi ora Piano. Dice il nobile Zampini: “con l’appalto integrato, l’operatore non dovrebbe farsi carico del pre-finanziamento, perché i finanziamenti gli verrebbero corrisposti in base all’avanzamento dei lavori, e questo potrebbe attirare più concorrenti”. Eh no, a parte che non si capisce niente, in questo modo si rende invece molto più opaco il tutto. Ma tutta la dichiarazione dei vertici del Galliera, che andrebbe letta come “opera opaca”, ricorda, se non proprio Ionesco, almeno la “supercazzola prematurata come se fosse antani”. Che si facciano le opere è giusto, che si facciano però le opere che servono è ancora più giusto. E se sbloccare e fare andare avanti le opere pubbliche in particolare è cosa positiva, farle bene e in trasparenza è condizione appena sufficiente e del tutto necessaria.

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FATTI DI LIGURIA

Presentata da Daniela Cassini, Monica Lanfranco con il suo libro “Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo” è a Sanremo il 16 luglio alle ore 18 nella Sala della Federazione Operaia Sanremese con la Società della Cura ed il Centro Iniziativa Donne; poi a Genova il 18 luglio ore 18 ai Giardini Luzzati, nell’ambito del programma “Genova2001 – 20 anni dopo”.

Un drammatico luglio: il G8 2001 e il femminismo vent’anni dopo

Nei giorni bollenti dei Grandi del mondo riuniti a Genova nel 2001, c’erano anche le donne. Anzi, precedettero nel giugno di quell’anno, pacificamente e creativamente con la sola forza delle idee e della voglia di cambiamento, la zona rossa, gli scontri di piazza, le violenze, i pestaggi, la “mattanza” del luglio.

Tante donne da tutto il mondo, 140 organizzazioni femminili e femministe, oltre 1500 attiviste: una esigenza di essere presenti come corpi e idee, donne diverse per storie, età, retaggi, unite nella denuncia sociale, culturale, economica della “deriva globalizzatrice”, non di diritti e di saperi ma di sfruttamento e disparità, soprattutto tra i sessi.

La voglia anche di portare un linguaggio dissonante rispetto a quello del dominio, in quel momento e in quella circostanza imperante, contro ogni genere di violenza.

Convegni, riunioni, incontri, invasioni pacifiche e colorate della città.

Lo racconta Monica Lanfranco, giornalista, scrittrice, formatrice, femminista genovese (che fu protagonista come portavoce del Genova Social Forum per mandato della rete femminista Marcia Mondiale delle Donne, organizzatrice della “due giorni” di giugno) in un libro “VOI SIETE IN GABBIA, NOI SIAMO IL MONDO. IL PUNTO G. IL FEMMINISMO AL G8 DI GENOVA” (VandA Edizioni) che è insieme esperienza personale e politica, sul significato di quei giorni e di quegli eventi di sangue e costrizione e anche una riflessione sui 20 anni passati da allora e sulle prospettive attuali di battaglie ancora vive ed attuali.

Il giugno di “Punto G-Genova, Genere, Globalizzazione” è stato lo sguardo femminista profetico riguardo alle conseguenze della globalizzazione neoliberista sulle comunità del mondo e sull’impatto che essa stava avendo (e avrà) sulla vita delle donne.

Il PUNTO G. sarà ripetuto nel 2011 nel decennale con il coinvolgimento delle giovanissime, la Rivista femminista Marea ne porterà avanti intrecci e riflessioni.

“Il privato è politico” ribadisce Monica Lanfranco in questo libro, non solo riferito a se stessa, ma anche ai tanti incontri con altri e altre di cui è impressa la sua memoria, in un’esperienza “che avrebbe cambiato la mia vita e quella di molte altre persone”.

Un momento fecondo nonostante tutto che dà spunti e temi di confronto ancora oggi.

“La morte di un ragazzo, la violenza istituzionale, quella di alcuni gruppi di facinorosi, il sangue, gli abusi, la ferita inferta alla democrazia e alla fiducia nelle forze dell’ordine hanno seppellito a lungo i contenuti dello sguardo femminista di allora che saranno fortemente profetici riguardo ai pericoli e all’impatto sulle nostre vite e sul pianeta della globalizzazione neoliberista. Questo sguardo, allora premonitore, è ancora oggi limpido, attuale e più che mai necessario” nel nostro essere al mondo consapevolmente e responsabilmente.

DC

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FATTI DI LIGURIA

Se permettete parliamo di donne (e di tutti noi)

Scrivendo della “questione romana” sulla news per abbonamenti MicroMega+, Ingrid Colanicchia pone un problema che trascende il dato territoriale e interessa tutti, liguri compresi: “negli ultimi cinque anni Roma è stata governata per la prima volta nella sua storia da una donna. Avrebbe potuto essere l’occasione per un ripensamento delle politiche territoriali in un’ottica di genere, ma così non è stato. Anzi, l’amministrazione Raggi conferma che la presenza di donne nei luoghi in cui si decide non garantisce l’assunzione di una prospettiva di genere né il riconoscimento di quelle forme di politica cui le donne e il femminismo hanno saputo e sanno dare vita”. Intervenendo sulla nostra news, Monica Lanfranco ci ha parlato di “sguardo eco-femminista”. Mi dichiaro affascinato ma al tempo perplesso davanti a queste stimolanti riprese di un tema di cui si discuteva oltre un quarto di secolo fa: la femminilizzazione della società. Ossia l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro e il diffondersi delle famiglie mono-genitoriali (in larga misura materne), in che misura sono in grado di modificare i criteri gestionali delle organizzazioni? Nella riduzione del darwinismo sociale (competizione e aggressività) del paradigma gerarchico-patriarcale a vantaggio di criteri più sensibili all’affettività della sorellanza e alla convivialità. Torno a chiedermelo pensando ai prossimi appuntamenti elettorali che ridisegneranno gli organigrammi del potere in Liguria. In cui la già minoritaria presenza femminile evidenzia una palese subalternità ai criteri carrieristici al maschile. Con una domanda: lo sguardo femminista si promuove con marchingegni burocratici tipo quote rosa o facendo emergere tratti culturali alternativi? Esiste oggi – oltre lo sguardo – un pensiero al femminile, applicato a tutti gli ambiti della vita, dal lavoro alla cura?

Ieri sera, dietro San Lorenzo incontro una ragazza che vende ai passanti un giornalino militante. Il suo aspetto mi riporta mezzo secolo indietro, alle compagne con le gonne lunghe e un po’ sciatte tipo Joan Baez. A quel modo di ragionare benaltrista che Rossana Rossanda definiva “conformismo alternativo”. Mi informo sul suo gruppo e lei risponde “non facciamo politica, siamo umaniste”. Compro una copia per solidarietà tra scribacchini della clandestinità. Apro il paginone centrale sul rapporto di genere. Leggo e scopro che auspica “il riscatto del maschilismo riconoscendo la primarietà femminile a beneficio di tutti”. Così, per benevola concessione. E che “i generi sono due”. Non lo sanno che se il sesso indica differenze biologiche i generi rappresentano vari e complessi sistemi di significati legati a scelte di vita? Per cui – magari – sono cinque o sei. E c’è chi sostiene che perfino il sesso sia socialmente e culturalmente costruito. Sicché le campagne di liberazione delle donne nascono da alleanze nel sociale determinate dalla comprensione delle differenze. Sempre se la prospettiva femminista riesce a tradursi in alternativa prima di tutto culturale. In lotta per il cambiamento della società. Alla faccia delle zie Tom professioniste della poltrona, più maschie del maschio.

PFP

P 09

FATTI DI LIGURIA

Quanto la politica ligure è al femminile?

Riprendo un tema che avevo affrontato in questo spazio la scorsa volta, sotto choc per un video che mi ha girato un amico di Savona: l’osceno spettacolo delle ruspe al lavoro per lo sgombero all’alba di alcune famiglie Sinti da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”, impegnate a buttare sulla strada la comunità di una trentina di persone, bambini e vecchi compresi, che occupava da almeno venti anni quello spazio innocuo. Ascoltando le grida disperate degli adulti e i pianti terrorizzati dei loro piccoli, mi chiedevo che cosa sia passato nella mente della sindaco Caprioglio, in fine mandato e – a quanto si dice – neppure intenzionata a ricandidarsi, mentre sono mesi che in Italia non si eseguono più sfratti, al punto di spingerla a concludere la sua non eccelsa vicenda amministrativa assumendo i panni della persecutrice di indifesi; cui si taglia perfino l’erogazione dell’acqua, in avvio di un’estate che si preannuncia particolarmente afosa e il Covid ancora incombe.

Davanti a tanta crudeltà gratuita l’unica risposta che mi so dare è quella di una concessione dimostrativa all’ala più muscolare e suprematista della propria maggioranza; per blandire una fetta di elettorato accecato dall’odio razziale e proprietario.

Eppure, quando Ilaria Caprioglio era comparsa sulla scena politica savonese, con il suo impegno dichiarato nella lotta all’anoressia (e nonostante la collocazione di schieramento: il partito di colui che Crozza ha soprannominato “lo sporcaccione di Arcore” e la vicinanza politica al machista Claudio Scajola), mi era sembrata una persona cui dare fiducia. Cosa è successo? Semplicemente la corsa a integrarsi in quel mondo opportunista e brutale che si dichiarava di voler cambiare.

Quanto ci raccontano troppi casi liguri di donne politiche in carriera. A Destra come a Sinistra. Per cui Ilaria Cavo si segnalava come coraggiosa reporter di un G8 di sangue in una televisione locale per finire alla corte prima di Bruno Vespa, poi di Berlusconi e ora nella reggia di Giovanni Toti in piazza De Ferrari, senza dare un segno di alterità rispetto ai suoi datori di lavoro. Intanto Raffaella Paita, cresciuta politicamente a sinistra da funzionaria nelle stanze del Partito Comunista spezzino, sponsorizza una lista sedicente “riformista” a supporto della riconferma del destrorso Bucci. E che dire della rovinosa parabola di Alice Salvatore, capogruppo Cinquestelle in Regione, il cui unico merito era quello di fungere da portavoce pedissequo del gran capo di Sant’Ilario.

Quando – tanti anni fa – ho cominciato a lavorare da impiegata in una piccola impresa, ricordo i dibattiti sulla cultura organizzativa e l’istanza per la femminilizzazione anche del mondo profit; intendendo con ciò una riduzione del tasso di aggressività insito nello stereotipo maschile con adeguate dosi di affettività e convivialità apportate dell’altra metà del cielo.

Ora, vedendo all’opera nei palazzi del Potere queste presunte consorelle, mi rendo conto di quanto la ruota del tempo abbia girato. All’indietro.

Maura Galli

P 10

FATTI DI LIGURIA

Indagare Papa Francesco?

La nostra newsletter continua a seguire una vicenda grottesca e preoccupante nei suoi sviluppi: il boicottaggio nel porto di Genova della nave saudita adibita al trasporto di armamenti micidiali destinati al conflitto nello Yemen.

Il 23 giugno Papa Francesco ha incontrato una delegazione dei portuali genovesi del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto), ringraziandoli per la scelta, definita ‘coraggiosa’, di rifiutarsi di caricare materiale bellico a bordo della ‘Bahri Yanbu’, cargo saudita tristemente specializzato nel trasporto di armi e veicoli militari prodotti negli Stati Uniti e in Europa, destinati all’esercito dell’Arabia Saudita, impegnato della guerra criminale nello Yemen.

“Siete stati bravissimi – ha detto il Papa – continuate così”.

Non la pensano allo stesso modo la Procura e la DIGOS di Genova, dove è stato aperto un procedimento penale a carico di cinque esponenti del CALP, cui si addebita a quanto pare il reato di associazione per delinquere allo scopo di commettere diversi reati, tra cui imbrattamento, accensione di artifici pirotecnici e altri consimili, collegati all’azione antimilitarista e alle proteste attive contro gli attracchi a Genova della ‘Bahri Yanbu’.

Azioni analoghe sono state organizzate nei porti francesi di Cherbourg e Marsiglia, senza che ne siano derivate iniziative delle autorità locali volte a impedire quelle manifestazioni.

Il 24 febbraio le abitazioni e i luoghi di lavoro dei cinque portuali del CALP sono stati invece perquisiti dalla DIGOS, col sequestro di telefoni e computer dei lavoratori e dei loro familiari.

A quando un’iniziativa della Procura di Genova nei confronti di Papa Francesco, per istigazione a delinquere?

La cosa farebbe sorridere, se non si segnalasse per la sistematica protezione fornita dalle nostre forze di polizia a un traffico di materiale militare diretto in Yemen che arricchisce – in particolare – l’agenzia marittima genovese Delta, appartenente al gruppo Gastaldi. Il traffico delle navi ‘Bahri’ costituisce infatti la principale fonte di ricavi per l’agenzia che grazie a quel traffico ha quasi triplicato la redditività e raddoppiato il reddito netto.

Non solo: secondo un copione anche troppo noto, la Delta ha reagito non cercando altre fonti di guadagno in un momento particolarmente felice per il trasporto marittimo, ma preferendo innescare la consueta guerra tra poveri e mettendo i propri dipendenti – in numero di 12 – contro i portuali del CALP.

L’azionista unico, a quanto pare, non intende rinunciare a quella che è stata definita una ‘gallina dalle uova d’oro’. Uova esplosive – purtroppo – destinate alla popolazione civile dello Yemen, già allo stremo a causa del blocco navale saudita (che si presume attuato anche grazie ai caccia forniti dall’industria navale europea).

MM

P 11

FATTI DI LIGURIA

Pubblichiamo l’intervento del Consigliere Comunale genovese Enrico Pignone sulla discarica di Scarpino, dove la grancassa del sindaco Bucci si prepara a suonare marcette elettorali. Ci ritorneremo

Cosa succede a Scarpino?

Quando si parla di discariche, solitamente le prime immagini che ci ritornano alla mente sono quelle di disastri e mafie, illeciti e terre dei fuochi, senza considerare che non sono nient’altro che lo spazio all’interno del quale si riversa il nostro modello di sviluppo.

Le nostre scelte quotidiane che, in maniera diretta o indiretta, trasformano in elementi da “dimenticare” i prodotti che sinteticamente definiamo rifiuti.

Scarpino è però qualcosa di più. Ad oltre 650 metri sul livello del mare, è la discarica collocata più in alto d’Europa, lontana dagli occhi, lontana dal cuore, ma tremendamente e pericolosamente a ridosso di Sestri Ponente, in una valle ricca di fonti d’acqua.

Scarpino 1 e poi 2 e poi 3. Così si riconoscono le fasi di espansione di questo impianto che dal lontano 1968 accoglie i rifiuti genovesi e liguri, con momenti di disponibilità per le emergenze nazionali e, se non ci fossero stati gli “imprevisti” del 2014, tenuta aperta fino al 2040.

Ma vennero i cambiamenti climatici, e con le forti piogge concentrate, che ormai quasi ogni anno colpiscono i nostri territori, il terreno è sempre più fragile e necessita di maggiori interventi. Nel gennaio del 2014 la magistratura ne impone la chiusura definitiva a causa della fuoriuscita del percolato, che si riversava nel torrente Cassinelle, provocando importanti danni ambientali.

Le indagini, che seguirono, misero alla luce le inadempienze originarie che pagheremo per decenni nelle nostre bollette. Nessun accantonamento per la messa in sicurezza e la bonifica, con l’obbligo di risolvere il più velocemente possibile tutti i problemi storici gestionali della discarica sempre stata vista più come un buco dove gettare tutto e fare cassa, anziché trattare quel luogo con le dovute attenzioni, perché fondamentale per la nostra comunità.

Solo fino a poco meno di dieci anni fa, nell’organigramma di AMIU la voce Raccolta differenziata era collocata sotto la casella Comunicazione e Immagine e mi pare la dica lunga sulla volontà di ridurre la quantità di materiale da gettarvi per allungarne la vita; perché il grande business era costruire il mega inceneritore da 500 mila tonnellate annue per tutta la regione, e non solo, con palificazioni proprio dentro la discarica. Così, oltre al percolato, ci saremmo trovati in fondo valle anche i cantieri o l’impianto stesso.

Oggi, spero, siamo lontani da quella visione. Abbiamo l’opportunità del Green New Deal europeo per creare una filiera industriale 4.0 ligure, che tratti il materiale da raccolta differenziata, in modo da reinserirlo nei processi produttivi risparmiando materia prima, acqua ed energia.

Riprogettare gli imballi, al fine di ridurne i volumi e semplificare il riconoscimento del materiale per l’impianto di trasformazione finale.

Un nuovo modello industriale, insomma, che porterebbe nuova occupazione in un contesto ambientalmente sostenibile. Tutto questo a ripartire da Scarpino.

Enrico Pignone, Consigliere Comunale di Genova Lista Crivello

P 12

FATTI DI LIGURIA

Savona, le ultimissime

È già entrata nella fase “calda” la marcia di avvicinamento alla scadenza elettorale savonese che dovrebbe portare, pare l’11 ottobre, al rinnovo del Sindaco e del Consiglio Comunale.

In questo ambito il Centro Destra si sta muovendo con gli stivali delle 7 leghe: già pronta la nuova giunta con un incarico di grande peso  – la portualità – affidato all’attuale Sindaco di Vado Monica Giuliano, eletta a suo tempo con il PD ed esempio di quella “trasversalità” che ci permettiamo di accostare al “trasformismo”. Risaltano, in questo contesto, alcune questioni che debbono essere sottoposte all’attenzione dell’opinione pubblica:

1) L’insieme di questa manovra avviene senza la conoscenza di un minimo di elaborazione programmatica che giustifichi una visione del futuro e l’attribuzione di incarichi. Il tutto sembra avvenire al motto del “una croce di cavaliere non si nega a nessuno”;

2) l’assegnazione specifica di un incarico alla “portualità” nelle more del contingente e nella scelta della personalità che dovrà ricoprire l’incarico è indice di una ricerca di continuità in una gestione dell’asse portuale Savona – Vado. Una gestione portata avanti in completa subalternità al quadro complessivo dettato da una divisione di traffici e di compiti tra i due scali penalizzante sicuramente Savona che ha anche perso la sede dell’Autorità nell’ambito della furia iconoclasta dettata dalla “riforma Del Rio” (governo Renzi);

3) Si tratta di una scelta che conferma ancora una volta l’assenza, da parte del centro destra, di una visione di Savona Capoluogo e di una dimensione comprensoriale. La dimensione comprensoriale dovrebbe costituire il punto decisivo di una espressione di progettualità che principi proprio dall’affermazione del ruolo di Savona come punto di riferimento in dialogo con i Comuni della costa e dell’entroterra: un dialogo e un confronto attraverso il quale arrivare a stipulare una vera e propria Alleanza Territoriale. Una Alleanza Territoriale da rendere efficace come istituzione e da intendersi come costruzione di una “massa critica” nei rapporti con esterni in particolare con la Regione e come strumento di elaborazione permanente per affrontare temi delicati come quelli delle infrastrutture (fondamentale proprio ai fini dello sviluppo portuale), del piano regolatore delle connessioni, della sanità intesa come bene pubblico e come presenza territoriale intrecciata ad un rinnovato welfare locale;

4) La suddivisione delle assegnazioni di deleghe e progetti all’interno di una giunta che abbia l’ambizione di lavorare su prospettive molto ampie di sviluppo e di crescita come quelle dell’Alleanza Territoriale e del Federalismo Municipale (con il recupero del ruolo dei Quartieri) è tema troppo delicato per essere ridotto a puro atto di propaganda alla vigilia di una campagna elettorale dalla quale dovrebbero sortire invece idee e classe dirigente utili e adatte ad affrontare le difficili sfide future che attendono Savona e il suo territorio per uscire dal declino.

Franco Astengo

P 14

FATTI DI LIGURIA

Teorie del caos

Ci risiamo. Il nostro Beppe nazionale aveva a suo tempo dichiarato di “essere il caos”, e su questo si deve dire che è perfettamente coerente. In Liguria ci siamo abituati, tra il caos dei vaccini, tra quello delle varie movida (non si dice né movide né movidas, le parole estere diventate comuni in italiano non si mettono al plurale), tra i lavori nelle gallerie da e per Genova che hanno reso un incubo la rete autostradale. Ma questo caos che parte da Genova, si sta irradiando in tutto il territorio nazionale, una miccia pronta a far implodere o esplodere il Movimento 5 Stelle e le possibili direzioni dell’attuale governo, che, in quanto a melting pot, è già abbastanza caotico senza interventi esterni. E qui da noi stanno già accadendo cose strane: l’ex consigliera regionale Alice Salvatore, fuoriuscita dal movimento lo scorso anno con una sigla involontariamente comica “Il Buonsenso”, si è già schierata con Grillo, facendo presagire un suo possibile rientro, e destando ulteriore ansia e preoccupazione tra quelli che avevano salutato il suo commiato con un sospiro di sollievo. La pasionaria ha definito il modello di Conte “democristiano e sinistroide”, un altro ossimoro, a prima vista, ma non ci si deve meravigliare, fa parte del caos. Potrebbe anche aver ragione, per la parte democristiana farisaica, leggendo le dichiarazioni del deputato genovese Sergio Battelli riportate dal Secolo XIX “È un momento molto complesso, penso sia difficile ritrovare una pace duratura. Forse è arrivata l’ora di dare una direzione chiara al Movimento”. Di una saggezza cerchiobottista, che ricorda le pillole di saggezza buonista di Pippi Calzelunghe, e tale che nemmeno monsieur De La Palisse avrebbe potuto esprimere meglio. Più chiaro Roberto Traversi, genovese di adozione, che critica Grillo e plaude a Conte. Tranchant il ligure Mattia Crucioli, già espulso dai 5S per non aver votato il governo Draghi, per decisione del capo politico “facente funzione” (ma che cosa vorrà dire questa precisazione è un mistero doloroso più che gaudioso) Vito Crimi, che ora duella con Grillo per il voto sì voto no sulla piattaforma Rousseau. Come nel caso del brutto autogol sulla difesa del figlio Ciro, esempio di arrogante maschilismo, che ha prodotto stupore e caos tra le stupefatte sue sostenitrici, l’uomo di Sant’Ilario, forse ormai stanco, si presenta come “papà” (sono parole sue) del Movimento. Ma c’è genitore e genitore. Come quelli che durante la partita Borzoli – Genova Calcio di qualche settimana fa, si sono detti di tutto, perché uno incitava il figlio a intervenire duro sull’avversario e il padre di questi stava per mettergli le mani addosso. I ragazzi sul campo di gioco, per fortuna, più intelligenti dei genitori, si sono fermati e hanno sospeso la partita. Così se pure le stelle stanno a guardare come scriveva Archibald J. Cronin, la cosa più intelligente che può essere fatta qui da noi è stare a guardare, con un po’ di compatimento e di sana ironia queste povere vicende. Mentre altri problemi si affacciano all’orizzonte, dietro i nostri monti, come il probabile avvio della Gronda, un progetto che se e quando sarà completato, ovvero tra 10 anni secondo le stime, vedrà il traffico già cambiato. Meditiamo.

CAM