PILLOLE
Proposta di legge della Lega ligure per sottoporre la storia ad approvazione preventiva (la loro)
Due consiglieri leghisti, tali Mai e Medusei, presentano una legge regionale per vietare contributi, finanziamenti e patrocini pubblici, oltre alla disponibilità di sale pubbliche, a quanti diffondano tesi riduzioniste, giustificazioniste, negazioniste delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Quindi, quanti ricorderanno l’italianizzazione forzata del fascismo delle popolazioni slave, l’incendio del Narodny Dom o il lager nazista della Risiera di San Sabba, i campi di concentramento italiano ad Arbe, Fiume, Melada e altri, non per negare gli episodi impropriamente definiti “foibe” e la triste storia degli italiani cacciati dai territori orientali, ma per capirne le ragioni storiche, rischierà di finire sott’accusa. Perché non propongono analoga norma per chi nega i lager nazisti o le stragi fasciste?
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Ponti che crollano, gallerie a rischio, cantieri infiniti
Continua la maledizione dei ponti liguri, dopo i crolli del Morandi e del viadotto sulla A6 Savona-Torino, quello sul fiume Magra vicino alla Spezia, è crollato anche il ponte alzabile sempre alla Spezia in corrispondenza della darsena di Pagliari. Oggi il ponte che genera maggiori preoccupazioni è il viadotto tra Sestri Levante e Lavagna, che appare chiaramente usurato. È stato chiuso al traffico pesante, con notevoli disagi: tra Sestri e Lavagna c’è solo la vecchia Aurelia.
Il presidente Toti, indifferente ai pericoli, ha subito chiesto la riapertura per i possibili danni al turismo. Nel frattempo, abbiamo percorso l’autostrada tra Sarzana e Genova, incontrando ben15 cantieri in meno di 100 Km. La cosa curiosa è che ci hanno pure fatto pagare il pedaggio.
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I neo-fascisti della Meloni propongono associazioni antiabortiste nei nostri ospedali
Il gruppo consiliare di Fratelli d’Italia in Regione Liguria ha presentato una proposta di legge per sistemare la presenza di sportelli informativi delle associazioni antiabortiste in tutti i presidi sanitari dove si pratica l’interruzione di gravidanza, mettendo a disposizione idonei locali.
Non bastavano i ginecologi obiettori (che senso ha dopo 40 anni?), gli anestesisti obiettori (ridicolo!), la presenza dei preti negli ospedali, profumatamente retribuiti a carico nostro a fare terrore alle donne, che devono affrontare una scelta difficile e problematica. L’intento propagandistico della proposta di FdI è vergognoso. Perché non propone per par-condicio che ci sia anche la presenza di associazioni favorevoli all’aborto?
EDITORIALI
Il sindaco, una figura desaparecida
Si avvicinano importanti appuntamenti elettorali amministrativi: a Roma, Torino, Milano, Napoli, Bologna. Chi non desideri schierarsi automaticamente, alla Pavlov, secondo i propri orientamenti politici, dovrebbe cogliere l’occasione per riflettere sulla natura e la funzione specifica di un sindaco; specialmente del sindaco di una città ‘metropolitana’.
Governare una grande città è una prova da far tremare le vene ai polsi. Ma è anche un privilegio per chi ambisca a ruoli politici nazionali. Per questa ragione occorre prepararsi bene, conoscere e vivere il campo di gioco, avere un rapporto quasi fisico e profondo con la comunità che si aspira a impersonare, prima ancora che governare.
Detto in breve: un sindaco non può limitarsi a essere un buon amministratore, un bravo manager, ma deve condividere in profondità e sapere interpretare l’anima stessa della collettività che gli si affida per riconoscere in lui se stessa, le proprie speranze, aspirazioni, visioni del futuro.
Un sindaco può essere anche un city-manager, ma non può mai essere soltanto un city manager, un tecnico buono per tutte le stagioni e per qualunque comunità richieda il suo intervento.
Quanto a Genova città ‘metropolitana’, e al suo sindaco che pare manifesti l’intenzione di ripresentarsi, di nuovo profittando dell’inettitudine della sinistra locale, non si mettono in discussione le qualità manageriali di Bucci.
La vera questione è se Bucci si stia dimostrando anche e soprattutto un sindaco dalle caratteristiche sopra delineate.
Dopo tre anni della sua ‘gestione’, Genova – vista dal di dentro ma anche dal di fuori – appare ancora più piccola, impaurita, isolata. Sempre più gente l’abbandona e sempre meno gente vi si stabilisce. I grandi problemi della città: trasporti, rifiuti, cura dei soggetti più deboli, manutenzione e decoro urbano, non hanno trovato soluzioni ma solo promesse o blandi rimedi. La cultura langue, come la crisi del Ducale sta a dimostrare. Nel frattempo si insediano – altrove ormai obsoleti – nuovi supermercati e centri commerciali, mentre si assiste alla scomparsa di quel popolo di artigiani e piccoli commercianti che costituivano l’anima del nostro Centro Storico.
Il porto persegue una propria disordinata e conflittuale autonomia, senza cercare né essere cercato dalla città.
La mancanza clamorosa di una visione corrisponde drammaticamente alla mancanza di un sindaco e alla insufficienza di un manager a volte troppo assente, a volte troppo timido, a volte un po’ burbanzoso, incline sempre a ‘gestire’ il comune come un’azienda e a considerare la giunta comunale alla stregua di un consiglio di amministrazione.
Ci si chiede allora, fuori dai denti come piace ai genovesi: può Genova permettersi un altro quinquennio senza un vero sindaco?
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti
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La salute pubblica come evidenziatore delle diseguaglianze
Sono un medico oncologo impegnato nella ricerca su salute pubblica e prevenzione primaria delle malattie evitabili, oggi in pensione. Tra il 1980 e il 2019 ho ricoperto l’incarico di dirigente medico onco-epidemiologo presso l’IST, Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro, poi IRCCS Policlinico San Martino di Genova. Sono presidente di Medici per l’Ambiente (ISDE, Genova) e membro del CTS di ISDE Italia e della Commissione Ambiente Salute dell’Ordine dei Medici di Genova.
Dal 2009 elaboro annualmente e a titolo volontario un referto epidemiologico relativo al Comune di Genova sulla base dei dati ufficiali raccolti e resi pubblici dall’anagrafe. Si tratta di un’analisi dei circa 8.000 decessi annui che avvengono mediamente nella nostra città, ripartiti per circoscrizioni: l’obiettivo è quello di ricavarne una fotografia basata sui fatti statistici che consenta una valutazione il più oggettiva possibile della situazione vigente nei vari quartieri cittadini, in cui salute e diseguaglianze si incrociano evidenziando sacche del disagio. Ossia il Rapporto di Mortalità standardizzata per età (SMR). Ad esempio si ricava la conferma che a Ponente e in Val Polcevera i decessi sono generalmente un 20% in più delle medie cittadine. In quale misura tutto ciò dipende dal fatto che si tratta delle due aree in cui la fase storica dell’industrializzazione genovese ha lasciato le tracce più marcate e inquinanti? Insomma, se questa correlazione fosse suffragata da ulteriori verifiche, non dovrebbe tradursi in precise scelte conseguenti, in materia di sicurezza sanitaria da parte del nostro Comune? Un prezioso orientatore della politica locale. Ad oggi mai messo all’opera.
Veniamo così all’attuale rapporto relativo al 2020, che valuta gli scostamenti tra il 2019 e il periodo Covid-19 dell’anno scorso; una sorta di check-up carico di indicazioni preoccupanti, in cui l’esposizione diseguale per municipi all’effetto pandemico si intreccia con possibili fenomeni di malasanità.
I tassi di mortalità standardizzati (TSD) annuali consentono di evidenziare che in questo periodo Genova ha fatto registrare un incremento del TSD del 24.5%, più pronunciato nei maschi (+26.7%) rispetto alle femmine (+22.4%). L’incremento è stato osservato in quasi tutte le circoscrizioni. San Teodoro è quella che ha mostrato l’incremento maggiore (+50.7%), mentre la sola eccezione è rappresentata dalla Foce (-6.6%). Dati che richiederebbero una lettura attenta e un’adeguata interpretazione. Ma – come si diceva – così non è.
Andrebbe ricordato al riguardo che da ben tre amministrazioni (i sindaci Vincenzi, Doria e Bucci) è insediato l’Osservatorio Ambiente e Salute. Uno strumento potenzialmente prezioso (e destinato a esserlo sempre di più in futuro) che sembra rappresentare soltanto un fastidio per questi nostri politici in altre faccende affaccendati. Nell’attuale ciclo amministrativo è stato convocato soltanto tre volte e subito liquidato con ostentata frettolosità. A tale riguardo valga il fatto che per avere l’elaborazione dati del mio Rapporto devo rivolgermi fin dall’inizio ai colleghi dell’Istituto Tumori di Milano, visto che il corrispondente gruppo genovese è stato pensionato e mai più ripristinato.
Valerio Gennaro
(testimonianza raccolta da PFP)
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FATTI DI LIGURIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Monte di Portofino: perché no al parco nazionale
Il Parco Regionale del Monte di Portofino è il primo parco nato in Liguria, nel lontano 1935. E’ un ambiente straordinario, uno dei pochi posti dove una natura rigogliosa arriva col bosco sino alla riva del mare. Affacciato su due golfi, da un lato il golfo Paradiso, dall’altro il Tigullio, ospita una varietà di flora e di fauna eccezionali. Recentemente sono stati trovati ben quattro tipi di tartufi diversi. Ci sono poi gli splendidi borghi di Portofino, Camogli, San Rocco e il gioiello dell’abbazia di San Fruttuoso.
Da anni si parla di trasformarlo in Parco Nazionale, sull’esempio del Parco Nazionale delle Cinque Terre, oggi, unico Parco Nazionale esistente in Liguria: per poterlo fare occorre aumentare la superficie del parco, attualmente di 1.055 ettari sparsi su tre Comuni. Il terzo è Santa Margherita Ligure. La vecchia ipotesi per ottenere il riconoscimento prevedeva almeno 15.000 ettari. Per questo aveva suscitato la contrarietà di molte amministrazioni locali e anche di componenti economiche e sociali, timorose di veder bloccare uno sviluppo troppo spesso basato sull’unico concetto di utilizzo senza alcun limite del territorio.
Ora, il sindaco di Camogli, Franco Olivari (Partito Democratico) rilancia la proposta di trasformazione in Parco Nazionale, con una novità importante. Potrebbero bastare anche solo 4.000 ettari. A questa proposta si oppone da anni la Lega in Regione, che sta impedendo la discussione sui territori, e quindi con i sindaci.
Regione Liguria sembra sorda sul tema. L’assessore al ramo è Alessandro Piana (Lega con Salvini) che afferma “Nella discussione affiorano diverse strumentalizzazioni… comitati di 15 persone vorrebbero dettar legge sulle scelte della Regione”. Che non sia mai, che le scelte della Regione siano fatte consultando i cittadini e i comitati locali. L’Assessore aggiunge “non posso non considerare l’opinione delle amministrazioni locali, sono quasi tutte contrarie” (in realtà due su tre). Infine esprime il timore che i vincoli possano danneggiare le imprese agricole, a cui ha già risposto Legambiente “questo tema non è vero, perché i vincoli non bloccano le attività che presidiano il territorio come quelle agricole, ma servono a bloccare le speculazioni edilizie e la cementificazione del territorio”.
Oggi, il Parco di Portofino riceve un contributo annuo dalla Regione Liguria di 600.000 euro su un totale di contributi dati a tutti i parchi liguri di 1.800.000, ma lo strumento che finanzia queste risorse si sta prosciugando. E’ infatti basato sulle multe che i Comuni che non raggiungono gli obiettivi della raccolta differenziata, ma continuano a conferire massicce quantità di rifiuti in discarica, devono pagare alla Regione. Dato che i Comuni, pian piano, si stanno sempre più regolarizzando, l’importo di questa ecotassa, inevitabilmente, è destinato a calare.
I Parchi Nazionali invece hanno diritto sia ai contributi statali, che a quelli della Comunità europea. Il Parco Nazionale delle Cinque Terre per fare un esempio riceve 10 milioni di euro l’anno tra contributi statale e UE. E’ evidente che con cifre simili si potrebbero fare molte cose. Oggi le Cinque Terre, anche grazie a questi fondi, sono un brand conosciuto in tutto il mondo. Inoltre hanno realizzato una serie di iniziative e di opere di grande importanza. Avere in Liguria un altro elemento di forte attrazione, e il monte di Portofino ha tutte le caratteristiche necessarie per poterlo essere, potrebbe essere un volano straordinario per lo sviluppo turistico. Inoltre, come ben dimostra il caso delle Cinque Terre, la presenza del Parco non ha affatto danneggiato le attività agricole, anzi è vero il contrario. La notorietà dei luoghi ha giovato moltissimo alla conoscenza del prodotto agricolo per eccellenza delle Cinque Terre, il vino. Oggi richiestissimo ed esportato ovunque. Per ultimo, ma non per importanza, il tema economico e occupazionale: l’istituzione del Parco Nazionale di Portofino riuscirebbe a dare grande respiro al settore occupazionale, riuscendo a creare opportunità di lavoro nel territorio. Pensiamo a tutti i giovani che sono costretti ad andare via dalla Liguria e che invece troverebbero un’opportunità più vicina, se volessero rimanere.
La discussione è approdata alla commissione ambiente del Consiglio Regionale su mia iniziativa e della Consigliera Selena Candia della lista Sansa. La risposta della Giunta purtroppo, per l’ennesima volta non è ancora stata soddisfacente. Abbiamo quindi chiesto che l’Università di Genova realizzi uno studio sui possibili impatti socioeconomici del parco di Portofino, compito al quale avrebbe dovuto provvedere l’amministrazione regionale, ma che su questo punto è inadempiente. Con uno studio dettagliato portato avanti da terzi potremmo avere tutti un quadro più chiaro sui possibili sviluppi positivi che il Parco Nazionale potrebbe portare.
Luca Garibaldi, consigliere Regione Liguria PD
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FATTI DI LIGURIA
La Fondazione Change di Giovanni Toti: la vecchia politica non “cambia” mai
Nel gennaio 2020 la Repubblica Genova informava che la Fondazione Change del governatore di Liguria Giovanni Toti, era finita nel mirino di Bankitalia per operazioni sospette. In particolare ammontano a circa 200mila euro complessivi i finanziamenti a Change da parte di quattro società: la Moby dell’armatore Vincenzo Onorato e poi le lombarde Innovatec e Aker del settore energia e la Diaspa che si occupa di ricerche di mercato. Versamenti che compaiono tutti (ad eccezione della Aker, che però appartiene allo stesso gruppo di Innovatec) anche sul sito di Change. Innovatec fa parte del gruppo Waste che gestisce la discarica del Boscaccio di Vado Ligure a Savona. La materia dei rifiuti come è noto è una delle competenze della Regione. Il punto più delicato è il trasferimento di una parte di questi soldi, circa 25 mila euro, dalla Fondazione ad un conto intestato proprio a Toti. D’altra parte, nell’ottobre del 2018 un’inchiesta dell’Espresso aveva rivelato che almeno 173 mila euro incassati da Change nei suoi primi due anni di vita erano poi transitati sui conti correnti personali di Toti. Il Governatore di Regione Liguria si sgola a spiegare che è tutto regolare, ma la sensazione di opacità e affarismo rimane fortissima. Politiche di scambio, in cui le erogazioni irrobustiscono un politico in carriera a fronte di contropartite molto vantaggiose per gli autori delle dazioni; in un luogo – Change – dove si coltivano interdipendenze dalle dubbie finalità. Uno smaccato do ut des, comunque rivelatore di spregiudicatezza altamente criticabile. Come nel caso della famiglia Gavio, che compare nell’autunno 2016 con bonifici da due società a loro legate: il 28 ottobre 2016 arrivano 15mila euro dal Terminal San Giorgio Srl, la stessa che nel 2017 ottiene il rinnovo di una concessione senza gara. O quello di Europam, l’azienda della famiglia Costantino, che ha donato 80mila euro al comitato Toti. Nella lista c’è pure Giovanni Calabrò: l’imprenditore condannato per bancarotta in Italia, donatore per 27mila euro nel 2015 in piena campagna elettorale alla lista Toti. Due anni dopo sceglie la via del finanziamento alla fondazione. Compare anche Aldo Spinelli: tra il 2017 e il 2018 versa 25mila euro. I bonifici sono due, il secondo dei quali arriva dopo aver ottenuto la concessione per l’uso di 14mila metri quadri di banchine. Anche lui durante la campagna elettorale del 2015 aveva dato 15mila euro al comitato per Toti presidente.
Dunque, uno strumento di potere per stringere e cementare alleanze attraverso l’intermediazione di beni pubblici: aree portuali come spazi istituzionali. In questo secondo caso, quanto si evince dai finanziamenti ai politici amici: a parte le briciole per la sindaca di Savona Ilaria Caprioglio e il “flottante” Giacomo Chiappori, i 67.500 euro a Pierluigi Peracchini, eletto sindaco a La Spezia, e i 102mila per Marco Bucci.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
Liguria, la scomparsa della piccola borghesia
In base all’indice di sofferenza economica regionale di Demoskopika, la Liguria è una delle cinque regioni italiane più colpite dalla pandemia. Dato che si innesta nella tendenza all’allargamento delle disuguaglianze, in ascesa da tempo nel nostro Paese: se oggi lo 0,1% più benestante possiede il 10% della ricchezza complessiva, il 50% più povero è scivolato al 3,5%; nel 1995 le rispettive quote erano 5 e 12.
Infatti una recente ricerca dell’associazione Genova che osa ha messo in evidenza che «in un’economia che permane in una fase prolungata di stagnazione, non solo il reddito medio continua a diminuire ma la sua distribuzione è sempre più diseguale: il 5 per cento dei più ricchi dichiara il 21 per cento di tutto l’imponibile a fronte del 27 per cento dei più poveri che arriva al solo 6 per cento dell’ammontare complessivo». Fenomeno in costante aggravamento, sia per quanto riguarda la povertà assoluta, sia per quella relativa; in cui cresce il numero di nostri concittadini che stanno avvicinandosi alle soglie dell’indigenza. Un mutamento della composizione sociale tradotto nella contrazione del ceto medio nel nostro paese, in atto da un quarto di secolo; e aggravato dalla pandemia in corso: se alla fine degli anni Novanta gli italiani che si riconoscevano nella parte mediana della società era il 70%, dopo un ventennio di crisi erano calati al 40% e ora – grazie al Covid-19 – si riducono ulteriormente al 30%.
Per quanto riguarda lo specifico regionale ligure, un trend ancora in attesa di essere esplorato grazie a indicatori attendibili. Ma che si percepisce in costante espansione, a partire da pur rozze constatazioni degli effetti indotti. Che rivelerebbero la graduale scomparsa di quella piccola e media borghesia creata da un secolo di espansione economica, che si declinava in benessere diffuso e maggiore inclusione. Infatti basta una semplice passeggiata nel centro di Genova per averne conferma. Ossia la scoperta che buona parte dei negozi che fornivano simboli di status alla città delle professioni hanno chiuso i propri battenti per mancanza di clientela. Tanto per fare qualche nome: Pescetto e Forni in via Roma, Bonino in via XX Settembre, Berti e la Rinascente in Piccapietra. Ossia i fornitori di un pubblico composto dalle famiglie di avvocati, commercialisti e piccoli imprenditori, la cui capacità d’acquisto è stata falcidiata dall’incepparsi delle tradizionali locomotive economiche d’area: il porto e le grandi fabbriche partecipate dallo Stato.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Pensare il porto di La Spezia in chiave geopolitica
La progettazione del raddoppio della ferrovia Pontremolese è stata inserita nell’accordo di programma 2021 di Rfi, la rete ferroviaria italiana, tramite un impegno certo del Governo nel Decreto semplificazioni.
Un passo avanti concreto, che ha il pregio di smentire e fermare le dichiarazioni disfattiste cui abbiamo assistito nelle ultime settimane, anche da parte di settori del Ministero.
Ieri in un’intervista ho dichiarato che senza Pontremolese e senza un potenziamento delle autostrade che collegano Spezia al Nord Italia, sia attraverso la indispensabile bretella Parma/ Verona, che tagli fuori il nodo di Modena, sia attraverso la ormai indifferibile normalizzazione della A12, per poi procedere in direzione Milano, sia attraverso, in altra direzione, un potenziamento / revisione della Rosignano/Civitavecchia in direzione Roma, Spezia rischia di rimanere un paradosso logistico, per cui forse il migliore porto del Nord Italia rischia di essere o tornare marginale.
Se si studia infatti il corridoio Scandinavo / Mediterraneo, detto TEN/T 5, si comprendono anche gli interessi che hanno ognuno a suo modo Genova e Livorno nel tenere fuori il nostro territorio, perché già dotate di infrastrutture verso il Nord Europa, l’una attraverso la direttrice Milano, l’altra bypassando l’Appennino attraverso il nodo Firenze / Bologna / Brennero.
Oramai tutti hanno capito che non esistono più questioni regionali e neanche nazionali, perché l’orizzonte deve essere la geopolitica europea e d’area vasta transcontinentale.
Molti hanno voluto la globalizzazione, per poi fare marcia indietro, e invece no, perché è troppo tardi ormai e non serve piangere sul latte versato, mentre molti come me ne ravvisavano i rischi.
Compito di una forza che sia concretamente di sinistra è ora quella di governarla, di cercare vie per difendere il lavoro e i territori, di offrire opportunità diverse dalla automazione selvaggia, di vedere il mondo per quello che ci è stato dato, con occhi aggiornati e attenti a ciò che accade, ma con valori antichi, perché non si releghino intere aree e zone a una marginalità, che con gli attuali ritmi di sviluppo diventerebbe da economico/strategica immediatamente sociale.
I fondi ci sono e puntano anche e soprattutto alla dimensione ambientale, che deve essere l’altro faro, altrettanto luminoso, di una forza di sinistra, finendola con la stucchevole contrapposizione ambiente/lavoro. Si tratterà dell’unica eredità positiva della pandemia.
Roberto Centi, Consigliere regionale della Lista Sansa
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FATTI DI LIGURIA
L’ex colonia Olivetti a Marinella di Sarzana svenduta da Regione Liguria
Inaugurata nel 1937, come colonia GIL (Gioventù Italiana del Littorio), è conosciuta come colonia Olivetti, perché, nel dopoguerra, fu rilevata dalla Olivetti di Ivrea, per adibirla a colonia marina per i figli dei propri dipendenti.
La colonia è, da anni, nel patrimonio della Regione Liguria, che, a suo tempo, ha passato la proprietà e la gestione ad Arte Genova. Il disinteresse delle amministrazioni di diverso colore politico succedutesi alla guida della Regione ha portato a una situazione di estremo degrado. Oggi è diventata il rifugio di senza tetto, escrementi e sporcizia riempiono tutti i locali.
La struttura è un edificio massiccio bianco, molto luminoso con grandissimi finestroni, affaccia direttamente sulla spieggia e sul mare. Si dice che dall’alto rappresenti un fascio littorio.
Una colonia bellissima, costruita in stile razionalista: una superficie calpestabile di 3.000 metri quadri su due piani con attorno un parco alberato di 3.000 metri quadri, affacciata sulla grande spiaggia di sabbia fine di Marinella nel Comune di Sarzana. Ormai giace in uno stato di vergognoso abbandono da ormai più di 30 anni: la colonia è stata dismessa nel 1987 e da allora è subentrato un progressivo degrado della struttura.
La Regione Liguria ha dato il bene in consegna ad Arte Genova per la vendita.
In passato c’erano state diverse ipotesi di riutilizzo della struttura. Si parlò di una clinica privata, di un centro ricerche, di un ostello, ma nessuna di queste ipotesi trovò una realizzazione concreta. Il prezzo di vendita era stato infine abbassato a 9 milioni di Euro. Ora la Regione Liguria ha accolto l’offerta di un privato, che pare intenzionato a realizzare un hotel a 5 Stelle, per una cifra di 2 milioni e 50.000 Euro, meno di 700 euro a mq, senza contare il parco, alcuni piccoli edifici di pertinenza e la spiaggia prospicente.
La notizia ha suscitato polemiche e dure reazioni delle opposizioni e delle associazioni ambientalistiche, che contestano la “svendita” del patrimonio pubblico a privati, soprattutto in seguito alla liberazione da vincoli sulla destinazione d’uso dell’edificio e alla soluzione del rischio d’inondazione con il rafforzamento degli argini del vicino torrente Parmignola. Operazioni che dovrebbero aver portato giovamento alla quotazione dell’immobile, che invece, inspiegabilmente, viene “scontato” addirittura del 75%.
Gli assessori regionali Scajola e Giampedrone difendono la scelta: “La vendita rientra nel piano di cessioni predisposto da Arte nel 2016, poco dopo l’avvio del primo mandato del presidente Toti: da allora è stato fatto un grande lavoro, che, tra mille difficoltà, ha consentito di cedere immobili ex sanitari a Santa Margherita Ligure, ad Alassio e a Costarainera per circa 25 milioni di euro complessivi. Risorse entrate nelle casse di Arte”.
La necessità di porre fine al processo di degrado e la possibilità di trasformare un immobile di tale pregio con una posizione straordinaria da elemento di svalutazione del territorio a elemento di qualificazione, insieme ad auspicati benefici economici e occupazionali, rischiano di oscurare l’essenza politica della manovra della giunta regionale, del resto in piena sintonia con quanto ha fatto e sta facendo in altre realtà e in altri settori. Favorire il privato e svendere il patrimonio pubblico. Specie se di valore culturale. Toti per qualche motivo lo avranno pur eletto!
NC
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FATTI DI LIGURIA
Le banche in fuga dalla Liguria. E i risparmiatori?
Negli anni sessanta, una canzone dello straordinario gruppo mimo-musicale dei Gufi faceva così: “io vado in banca, stipendio fisso, così mi piazzo e non se ne parla più”. Questa chimera è sparita, si dice per colpa della digitalizzazione e, più recentemente, del Covid-19. In Liguria (dati Istat) si è in effetti passati dai 794 sportelli bancari di quindici anni fa agli attuali 638. Con una popolazione di 1,55 milioni, significa che un ufficio bancario serve (e male, ovviamente) non meno di 2.300 abitanti, dato già depurato di tutti gli under 18. Ma la colpa maggiore risiede tuttavia nel generale malgoverno bancario. In primis si potrebbe citare il vecchio Banco di Chiavari e della Riviera Ligure assorbito senza colpa a suo tempo da Banca Commerciale, che eliminò la peculiarità della storica banca della famiglia Dall’Orso, famosa per le rimesse degli emigranti. La vendetta di Tutankhamon fece sì che anche la BCI fosse poi inghiottita da Banca Intesa (ex Cariplo), secondo la regola del pesce più grosso. Ma in secundis, è stata la banca del territorio ligure per eccellenza, la Carige, che più o meno un paio di decenni fa si mise a fare finanza, con un errore dietro l’altro (a parte le note vicende giudiziarie), invece di restare legata, come un tempo faceva, alle necessità commerciali e industriali della popolazione e degli imprenditori locali. Dante Alighieri parlava della Liguria come “terra di conquista” (forse perché a Lavagna le aveva buscate) per cui negli anni d’oro molte banche si gettarono a pesce sulla nostra regione: i risparmi facevano gola a chi speculava e ora, come accennato, nel momento più difficile licenziano e scappano. Viene la voglia di citare un arguto aforisma di Bertold Brecht: “che cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?”. Se però la colpa maggiore risiede nella cattiva gestione, anche la digitalizzazione citata ha le sue responsabilità: per risparmiare sugli impiegati, tutto è on line, tutto si fa dal cellulare, ignorando la fascia più anziana che non è usa a tale tecnologia. La Liguria ha un’età media superiore di due anni a quella italiana, ma le banche sono SpA, società per azioni, e secondo il codice civile il loro scopo è il lucro, tutto il resto è pia illusione. Ma non è sempre così: questa diagnosi infausta necessiterebbe di una terapia, una dose anche lieve di sportelli bancari che, per statuto più ancora che per tradizione, siano di reale aiuto a una situazione economica disastrata. Sono le BCC, le banche di Credito Cooperativo. Ve ne sono alcune, nel territorio, ma non sono liguri, vengono dal Piemonte, due nel ponente, una a Genova, e una di derivazione toscana. I soci non sono liguri, l’interesse di queste BCC non è radicato in Liguria. Siamo l’unica regione italiana a statuto ordinario a non avere una banca di Credito Cooperativo nata sul territorio, per i bisogni del territorio, creata dai liguri per i liguri. Non è campanilismo, è necessità, è bisogno, è solidarietà e mutualità, caratteristiche peculiari delle BCC, dove ogni socio ha diritto a un voto, a prescindere da quante quote possiede: questa è democrazia. Di questo dovrebbe occuparsi chi ha davvero interesse a difendere la nostra economia e a farla crescere.
CAM
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FATTI DI LIGURIA
Cordoglio per Moussa Balde, uno di noi
Moussa Balde avrebbe compiuto 23 anni il 29 luglio. Veniva dalla Guinea, era in Italia dal 2017. Viveva di lavori precari e di elemosina a Ventimiglia. Qui è stato violentemente pestato da tre uomini il 9 maggio. Chiuso dal giorno dopo nel Cpr (Centro permanenza per i rimpatri) di Torino -luogo famigerato di detenzione di “vite di scarto” – il 23 maggio Moussa Balde si è impiccato nella sua stanza.
Sognava un’altra vita, un lavoro. Non poteva rientrare nel suo Paese. Diceva che sarebbe stato ucciso dalle stesse persone che lo avevano spinto a scappare, ha raccontato all’”Ansa” Marco, un suo amico: “Era un ragazzo molto intelligente: in pochi mesi ha imparato l’italiano e preso la terza media a Imperia. Era però anche tormentato e impaziente, faticava ad aspettare”.
Altre persone che lo hanno conosciuto ne ricordano la grande sensibilità e l’interesse per la politica. Sulla pagina del centro sociale imperiese “La talpa e l’orologio” c’è un’immagine in cui sorride con addosso la maglietta “Imperia antirazzista”. Quell’Imperia civile che lo ha ricordato, nei giorni scorsi, con una veglia.
Moussa era davvero uno dei tanti, tantissimi, che sono da noi “con la speranza in cuor”:
Così si raccontava Moussa Balde, il 23enne morto suicida nel CPR di Torino – YouTube
C’è, nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile del nostro mondo. Per le autorità che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa.
La sua morte “pesa come un macigno su tutti noi”, ha scritto il sociologo Marco Revelli. Moussa Balde era un uomo: africano, clandestino, povero, sofferente nell’anima. Ed è stato trattato come una cosa. Corriamo il rischio di abituarci al veleno di una società mostruosa, e di esserne intossicati.
GP
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FATTI DI LIGURIA
La Liguria non è un paese per le donne, che lavorano
Dinamiche scoraggianti quelle dell’occupazione in Liguria nel 2020.
Dall’analisi degli ultimi dati Istat, Inps e Banca d’Italia, emerge un trend occupazionale complessivamente in calo dell’1,4%. Il saldo dei rapporti di lavoro è in rosso di 24.971 unità. L’occupazione femminile segna un -1,3%, – 2% quella maschile. A segnare il dato più preoccupante è invece l’occupazione giovanile che, nel complesso, in Liguria, è crollata del 5,9% nell’ultimo anno, contro il -0,3% degli occupati over 35. Un calo superiore a quello nazionale (-5,1%).
Due province liguri, La Spezia e Imperia, sono tra le prime dieci province d’Italia per incremento proporzionale della disoccupazione. Se il tasso di occupazione femminile ligure è sempre stato inferiore alla percentuale nazionale, la situazione generata dal Covid ha aggravato ulteriormente il dato; in particolare spargendo dequalificazione e precarizzazione: solo un terzo dei contratti a tempo indeterminato è al femminile.
I dati resi pubblici dalla CGIL regionale evidenziano come in Liguria, nei primi 9 mesi del 2020, ci siano stati 59 mila contratti in meno (che non corrispondono ad occupati, ma al numero dei contratti stipulati nel periodo di riferimento) con un drastico calo di quelli a tempo determinato. Restringendo il campo al focus di genere, i dati dell’Osservatorio Inps sul precariato indicano in 43.073 le assunzioni al femminile contro le 68.283 del 2019 con una contrazione del 36.9%; e – come non bastasse – il 52,6% delle assunzioni femminili è a tempo parziale. Le assunzioni femminili a tempo indeterminato hanno rappresentano il 12.1% del totale, con meno 2.060 contratti (-28.3%) rispetto al 2019. Il calo più marcato è per i contratti a tempo determinato, con un -43,9% rispetto all’anno precedente (28.681 assunzioni 2018 contro le 16.096 del 2019). Con tutte le tipologie contrattuali in calo: lavoro stagionale (-21,6%), somministrazione (-31,6%), apprendistato (-36,2%) e lavoro intermittente (-40%).
La pandemia ha colpito soprattutto gli ambiti in cui le donne sono sovra-rappresentate, come il terziario (92,6% delle assunzioni) e al suo interno i settori del turismo e del commercio. I dati confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, che la nostra società deve fare passi da gigante per arrivare a una piena parità di genere, pure sul lavoro. In Liguria urge individuare una strategia efficace per promuovere uno sviluppo che generi occupazione stabile per tutti. Nell’ambito di questa riflessione vanno individuati gli strumenti per promuovere l’occupazione femminile.
L’Italia non è un Paese per giovani. Ma neanche per donne, e la Liguria non fa eccezione, come evidenziano i preoccupanti dati del lavoro. A rendere ancor più inquietante il quadro è la ferita aperta delle molestie e delle violenze che le donne subiscono sui posti di lavoro. Il lavoro è strumento di autonomia per le donne e innesca un circolo virtuoso per l’economia, ma in Italia i livelli di occupazione sono ancora bassi, i contratti precari e la pandemia ha fatto strage di posti. I dati forniti da Istat, INPS e Banca d’Italia parlano di una forte crisi nonostante i provvedimenti presi per l’occupazione, compreso il blocco dei licenziamenti. Ma ci dicono anche che i contratti delle donne sono spesso precari. In Italia c’è un problema che riguarda l’occupazione femminile in senso ampio. Non riguarda solo la distribuzione territoriale e le questioni di inquadramento. Le donne devono affrontare grandi difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e la pandemia da Covid sembra averle aumentate, tenendo conto anche della chiusura di molte piccole attività autonome del commercio e dell’artigianato, spesso gestite da donne, e quelle che dovremo affrontare nei prossimi mesi. Ma c’è anche la questione relativa alla qualità del lavoro loro offerto. Purtroppo un problema strutturale, cui non abbiamo ancora trovato una ricetta risolutiva. La prima necessità è l’innalzamento del livello di servizi e di welfare. Impressiona scoprire che l’Italia sia stata richiamata dalla UE perché al di sotto della percentuale di nidi d’infanzia per abitante. Per aumentare l’occupazione femminile servono interventi strutturali. Purtroppo Regione Liguria si distingue per l’assoluta assenza di politiche di sostegno al welfare o di incentivazione all’occupazione femminile.
MF
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FATTI DI LIGURIA
Centoventi anni fa, nel porto di Genova
Ne avevamo parlato sotto forma di pillola nella scorsa news del 15 maggio: «dopo anni di iniziative per contrastare il transito di armi verso lo Yemen e altri teatri di guerra, ora cinque esponenti del Collettivo autonomo lavoratori portuali genovesi sono indagati dalla Procura a seguito delle perquisizioni a tappeto su mezzi, abitazioni e luoghi di lavoro, con sequestro di telefoni e computer non solo dei lavoratori coinvolti, ma anche dei loro familiari, figli compresi. “Sforzo volto a reprimere più che a cercare prove di un’associazione a delinquere campata in aria”, dichiarano i componenti del gruppo che ha convocato una conferenza stampa. Intanto, a pochi metri dalla sala del Circolo dell’Autorità portuale dove si svolgeva l’incontro, il cargo saudita Bahri Jeddah ripartiva dal terminal Gmt con la stiva carica di carri armati alla volta di Gedda».
Una vicenda che ci riporta ad antiche epopee gloriose di lotta per i diritti e la democrazia. Del cui spirito indomabile le recenti vicende, che vedono cinque portuali inquisiti per essersi opposti al traffico d’armi, testimoniano quanto l’antico lascito non sia ancora andato perduto. Che qui celebriamo perché i più giovani conoscano quel pezzo di storia patria che non viene loro raccontato.
Si era nel 1888 quando una delegazione di portuali genovesi si recò a Marsiglia per partecipare all’inaugurazione della locale Bourse du Travail. Lo spunto per fondare la loro Camera del Lavoro, che aggiungeva alle originali funzioni di promozione dell’occupazione, proprie del modello francese, un più marcato orientamento alla resistenza e alla lotta.
Il 6 gennaio 1896 l’assemblea dei portuali dichiarò costituita la Camera genovese. Che subito si attivò nel dissuadere i camalli dall’andare ad Amburgo per rimpiazzare i lavoratori in sciopero. Dunque, la Camera come covo di sovversivi, che fu sciolto per decreto prefettizio l’8 dicembre. Ma la sera del 20 luglio 1900 venne ricostituita da una nuova assemblea. E la risposta del Prefetto fu un nuovo scioglimento. Cui i lavoratori questa volta non si piegarono, proclamando lo sciopero contro l’illegalità subita. Mentre la città del lavoro si stringeva attorno ai compagni in lotta, perfino gli osti e gli scalpellini di Staglieno concorrevano alle collette per sostenerli.
Una risposta collettiva di tale forza che costrinse lo stesso governo nazionale a ritirare il provvedimento. Ma questo non impedì la sua caduta l’anno successivo.
Da qui l’avvio del nuovo corso Zanardelli-Giolitti, che rappresentò una conquista per il movimento operaio e lo sviluppo democratico dell’Italia.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
Esiste una politica industriale di Regione Liguria?
Secondo i dati sull’occupazione in Liguria, pubblicati dall’ISTAT a marzo di quest’anno, gli occupati nella nostra regione sono 601.258 con un calo di 10.509 unità in un anno, pari a – 1,71%.
Il settore maggiormente colpito è quello dei servizi, che è quello maggioritario in termini occupazionali in Liguria, con la perdita di 11.659 addetti pari a un calo del – 2,42%. In questo ambito il calo maggiore è quello del commercio e del turismo che perde 5.482 occupati (- 3,9%).
In questo corollario di dati preoccupanti colpisce la totale assenza di linee di politica industriale della Regione Liguria. Eppure dovrebbe essere proprio l’Ente Regione a delineare la linea strategica per il rilancio economico. Altre Regioni, in primis l’Emilia Romagna, lo stanno facendo. Questo non accade in Italia. Il dibattito è assai modesto e discontinuo. Gli stessi studi di economia e politica industriale sono ai minimi storici. L’azione pubblica è complessivamente sempre più debole.
Gli interventi di incentivazione alle imprese sono solo una parte delle politiche industriali. Se li esaminiamo da vicino, scopriamo una serie di interventi slegati tra loro e non finalizzati a una strategia di sviluppo del territorio. La legislazione regionale in tema d’imprese è un insieme di leggi che appaiono più dettate dalla casualità e dalla necessità di accontentare questa e quella categoria. Nessuna idea, nessuna visione strategica. Si è verificata una complessa sedimentazione, senza momenti di verifica, valutazione, sostegno delle esperienze migliori e abbandono di quelle più modeste; a differenza della lunga e assai interessante esperienza francese dei Poles de Competitivitè, non abbiamo una politica industriale su base territoriale
Lo stesso utilizzo dei fondi comunitari, che sono in capo alle Regioni e che fanno delle Regioni il soggetto principale delle politiche di sviluppo, non è frutto di una visione strategica, ma della necessità di rispondere a singole esigenze di territori o categorie.
L’impressione di un osservatore esterno è che Regione Liguria si sia assestata passivamente su due elementi, che sono da un lato la portualità e dall’altro lo sviluppo turistico, anche se le iniziative volte al sostegno e al rilancio dei flussi turistici si sono spesso ridotte a uscite di propaganda con uno stile degno di una pro loco di provincia. Tutti ancora ricordano i chilometri di tappetti rossi, che hanno tappezzato ogni città e piccolo centro della regione.
In Liguria sono aperti molti fronti di crisi industriali, basti ricordare le vicende della Piaggio o della Bombardier, dei settori civili di Leonardo, dell’ex ILVA e altri. Tanto che la Liguria è, in questo momento, seconda solo alla Lombardia per tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE). Eppure Genova in particolare, ma anche Savona e La Spezia, furono i primi centri d’insediamento di industrie nella storia d’Italia. Per anni, ancora nel dopoguerra, si parlava di triangolo industriale. Oggi, la regione, che fu la prima area dotata di una moderna industria particolarmente nel settore meccanico e nella cantieristica navale, ha perso questa caratteristica.
La Liguria ha comunque, ancora oggi, alcune caratteristiche industriali di grande interesse: la presenza di imprese ad alto contenuto tecnologico (Esaote, Selex, Siemens, Leonardo, MBDA). Queste imprese hanno un patrimonio di manodopera altamente professionalizzata, che non va disperso. Esso potrebbe invece essere un’occasione per la formazione di nuovi lavoratori, visto che uno dei problemi maggiori che hanno oggi le imprese è proprio questo.
Oltre a questi settori manifesta una interessante vitalità il settore della cantieristica sia nel ramo industriale (FINCANTIERI), sia nel settore della nautica da diporto. La presenza di centri di ricerca ad alta specializzazione (IIT, CNR – in particolare l’ex INFM – CBA, e l’ENEA alla Spezia) e quella di una grande Università potrebbero essere, se opportunamente collegate alle realtà produttive, straordinari volani di una crescita industriale nell’alta tecnologia.
Ma per una politica industriale sembrano mancare alcuni fattori fondamentali. In primo luogo una visione strategica del futuro dell’industria, che ne orienti e informi l’azione.
Alla vigilia della partenza del Piano Nazionale di ripresa e resilienza e alla straordinaria dotazione di risorse comunitarie, che potrebbero essere lo strumento per il rilancio delle attività produttive e per nuovi modelli industriali, la vuotezza d’idee della Regione Liguria è preoccupante. La Liguria rischia di essere tagliata fuori da una ripresa generalizzata. Il rischio è che Toti finisca per trasformarla in una colossale residenza al mare per anziani di tutta Europa.
NC
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FATTI DI LIGURIA
Action-set per Savona 2021: città, comprensorio, Recovery Plan
La declinazione progettuale del “Recovery Plan” è la questione più importante e urgente per il nostro sistema politico-economico. In questo quadro resta ancora incerto il possibile profilo del sistema autonomistico, soprattutto riguardo al rapporto tra Comuni, Città Metropolitane e Regioni. In particolare, per i Comuni saranno necessarie proposte anticipatrici stabilendo, a livello regionale, un adeguato coordinamento di interventi: la co-progettazione.
Nello specifico savonese, dato che in quest’autunno 2021 si andrà al voto per il rinnovo amministrativo comunale, diventa utile puntualizzare una possibile posizione di partenza:
1) Sarà prioritario aggregare una “massa critica” adeguata al confronto con le istituzioni dirette: Regione e Governo. Tale “massa critica” va ravvisata nella dimensione comprensoriale. La città soffre di un deficit demografico non rimediabile nel breve periodo e deve uscire dall’isolamento derivato da deindustrializzazione e deficit infrastrutturale. La dimensione comprensoriale, riguardante la costa e l’entroterra valbormidese, va strutturata organicamente in un “patto territoriale” che superi il concetto perdente di “area di crisi complessa”;
2) Particolare delicatezza assume la questione dell’impianto combinato a gas previsto per la Centrale Tirreno Power di Vado Ligure. Tale questione sarà uno dei punti critici nella fase di transizione ecologica di stampo europeo cui è chiamato il Paese. Spetta agli Enti Locali assumere appieno la prospettiva della produzione di idrogeno “verde”, accantonando l’idea di impianti combinati a gas come fase intermedia nel processo di de-carbonizzazione. Tali impianti finirebbero per tradursi in assetto definitivo, bloccando l’effettiva transizione verso l’idrogeno;
3) Il tema dell’uscita dall’isolamento riguarda l’intera area geografica (che un tempo il CENSIS suddivideva in Valbormida “area triste” e Savonese “area di mezzo”), oggi “riunificata” dalla crisi industriale. Il punto centrale rimane quello delle interdipendenze strategiche, che nel nostro caso riguardano le relazioni economiche con Piemonte e Lombardia. Dunque, saltando le attuali “mediazioni” burocratiche: porre finalmente in discussione il concetto di “area centrale ligure” con Genova baricentro esclusivo di tutta la regione. Per cui vanno messe in discussione recenti scelte istituzionali quali l’accentramento su Genova dell’Autorità Portuale e il cervellotico accorpamento della Camere di Commercio di La Spezia, Savona e Imperia. A riprova della necessità di modificare l’asse geografico di riferimento per il comprensorio savonese, si ribadisce che l’uscita dall’isolamento passa essenzialmente attraverso il raddoppio delle linee ferroviarie verso Torino e Alessandria. Per il trasporto su gomma vanno realizzati nuovi svincoli autostradali e rimediato il disastro dell’Aurelia – bis;
4) Riguardo al tessuto urbano cittadino, il confronto verte sulla necessità di proposte immediate per l’utilizzo pubblico di alcuni degli spazi attualmente presenti nel territorio come “strappi urbanistici”. Qui se ne indicano soltanto le possibili destinazioni d’uso: rovesciamento territoriale della sanità; individuazione di nuove sedi di coworking per lavoro da remoto (l’evoluzione dell’home working, nella capacità civica di offrire un assetto adatto a questa attività); il recupero dei contenitori storici per la presenza culturale e nuove relazioni tra il campus universitario e Città. Tutti elementi che dovranno essere compresi all’interno di un progetto di mobilità urbana ed extra urbana, fondamentale completamento per una crescita di vivibilità in sede comprensoriale.
Franco Astengo
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FATTI DI LIGURIA
L’impresa ligure chiama, Bucci risponde. E l’opposizione sta a guardare
Intervenendo nel numero celebrativo dei 35 anni della rivista MicroMega, un testimone certamente informato sui fatti come Carlo De Benedetti, che iniziò la sua carriera di uomo pubblico da presidente degli industriali torinesi, dice cose terribili sull’attuale stato di Confindustria: «non ha alcuna parentela con la Confindustria che ho vissuto io… Prima di tutto dal punto di vista della leadership. L’attuale presidente è stato scelto un po’ a caso, da persone che non vogliono esporsi e mettono avanti un signor nessuno, dal punto di vista imprenditoriale, manageriale e non solo. Bonomi è stato messo lì da Tronchetti. E non porta avanti nessuna idea».
Intanto arrivano segnali in controtendenza dal mondo delle categorie “datoriali” liguri. Venerdì 16 aprile Spediporto, l’associazione degli spedizionieri, ha promosso un convegno di lancio dell’ipotesi di collaborazione con le istituzioni locali: un progetto di rilancio del territorio grazie alla ritrovata spinta delle imprese. Il progetto Green Logistics Valley.
Confindustria Genova si appresta a rinnovare la presidenza in scadenza di Giovanni Mondini e sarà interessante appurare se il nuovo gruppo dirigente sposerà la linea revanscista di Confindustria nazionale o metterà il suo peso al servizio di strategie condivise per il rilancio territoriale; grazie a scelte – come si dice – di “specializzazione competitiva”.
Come ripetiamo sempre, la nostra news non fa il tifo per nessuno, semmai per qualcosa: la rinascita ligure grazie all’innovazione e all’impegno condiviso. Registra ancora una volta che a fare sponda al ritorno in campo dell’associazionismo è solo l’asse di governo Toti-Bucci.
Il 14 maggio, nel rito su Repubblica Genova dell’annuncio pre-elettorale, celebrato con l’abituale condiscendenza da Massimo Minella, il sindaco Marco Bucci si attribuisce il ruolo di grande facilitatore di iniziative che hanno trasformato la città in un immenso cantiere. Con particolare attenzione alla creazione di un polo logistico in Val Polcevera. Gli fa eco due giorni dopo l’ex country-boss Claudio Burlando: sempre su Repubblica, sempre officiante Minella, certifica “la grande sfida a Ponente”; lasciando trapelare solo il rammarico di non essersi intestato lui il progetto. Un puro andare a rimorchio, confermato dal capogruppo PD a Tursi Alessandro Terrile che in un intervento del 15 maggio, con i congeniali toni lugubri, l’unica cosa che sa imputare al cosiddetto manager che guida l’amministrazione di destra è il rischio di eccedere in ottimismo.
Nessuno dei tre titani della politica locale si domanda che cosa ne pensi della proposta il territorio direttamente interessato.
Mentre continuano le intese di vertice a destra. E gli altri stanno a guardare.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
Futuro energetico: una battaglia anche in Liguria
Da qui al 2030 installazione, ogni anno, di impianti eolici e fotovoltaici pari a quattro volte la potenza installata nel 2020. Nessuna nuova miniera di carbone o pozzo da cui estrarre petrolio o gas naturale. “Non ce n’è più bisogno”, ha dichiarato Fatih Birol, Direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iae), che ha pubblicato un rapporto shock che indica ai governi come abbandonare le fonti fossili per l’energia per centrare l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050.
Il governo italiano ha invece elaborato un Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che prevede sia nuove estrazioni di petrolio e gas, sia nuove centrali a gas. Il Ministro Roberto Cingolani ha mostrato a John Kerry, inviato speciale di Joe Biden per il clima, una mappa dei gasdotti previsti, ma è stato pubblicamente redarguito sul fatto che il gas non è una scelta sostenibile.
Cingolani ha dichiarato al “Corriere della sera” che “non si può chiedere alle persone di perdere il lavoro perché tutto deve essere verde”. Gli ha risposto indirettamente proprio Birol: “Ci sarà un crollo nella domanda di petrolio e di gas. Ma prevediamo che gli investimenti nelle rinnovabili produrranno trenta milioni di nuovi posti di lavoro, soprattutto nei settori del fotovoltaico, dell’efficienza energetica, delle nuove reti intelligenti di distribuzione. A fronte dei 5 milioni di posti di lavoro persi nell’industria dei combustibili fossili. La vera scommessa dei governi è gestire con saggezza questa trasformazione”. Cingolani non ha capito che il lavoro non è inconciliabile con il verde, e che possono esistere nuove attività lavorative utili alla riconversione ecologica degli apparati produttivi.
Stretto tra i nuovi orientamenti dei vertici internazionali e le spinte dei giovani di Friday for future, il nostro governo appare timido e vecchio, privo di una visione e di una prospettiva strategica chiare e forti. Un solo esempio: l’Italia dovrebbe incrementare di 6 gigawatt all’anno la potenza rinnovabile, ma nel Pnrr si prevedono risorse per 4,2 gigawatt complessivi per i cinque anni del piano. “Con queste premesse -spiega Matteo Leonardi del think tank Ecco- difficilmente riusciremo a stare al passo con la strategia di lungo termine europea”.
In Liguria la classe dirigente politica è ancora più timida e vecchia di Cingolani. Toti e Burlando (quest’ultimo in veste “green” in un’intervista a “Venerdì” di “Repubblica”) tifano per le due nuove centrali a gas previste nella nostra regione. Per fortuna a Savona Tirreno Power ha rinunciato al suo progetto, forse per aver capito dove va il vento (anche dal punto di vista dell’interesse imprenditoriale). Alla Spezia, invece, Enel resiste ancora. È difficile, per una dirigenza cresciuta nella cultura del fossile, guidare una nuova fase. Ed è difficile, per politici da sempre subalterni verso Enel ed Eni e quindi abituati a proteggere i loro ritardi ed errori, diventare capaci di imporre, e non di subire, la road map per il futuro energetico dell’Italia e della Liguria. Speriamo che la singolare coalizione che si sta creando tra giovani battaglieri e istituzioni internazionali lungimiranti, benedetta dalle scelte straordinariamente chiare di papa Francesco, possa sconfiggere una tecnocrazia grigia e una politica debole e senz’anima.
GP