PILLOLE
La battaglia genovese in difesa dell’aborto farmacologico
Il volto genovese di Alice Merlo, riprodotto su migliaia di manifesti, è il simbolo della campagna nazionale “aborto farmacologico, una conquista da difendere”. La risposta UAAR (Unione Atei Agnostici e Razionalisti) ai messaggi truffaldini che paragonavano la RU486 a un veleno: dal 12 agosto 2020 le donne potranno accedere all’aborto farmacologico fino alla nona settimana senza obbligo di ricovero. Anche se con ritardo, l’Italia si è uniformata alla maggior parte dei paesi occidentali per l’accesso alla pillola Ru486. “I nostri corpi sono politici, siamo noi a poterne e doverne scrivere la biografia. Le campagne antiabortiste sono pericolose: fanno leva su vergogna e paura. L’aborto farmacologico è una conquista, e come tutte le conquiste va difesa.”
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E Marco Bucci disse: lasciamoli scorrazzare a piacimento!
Pare che la nuova pensata di Enrico Musso, lo zar della mobilità al servizio del sindaco Marco Bucci, sia una piattaforma in mezzo al mare, da destinarsi a parcheggio per migliaia di automobili. Dunque la creazione di ulteriori calamite per il traffico delle auto in città, oltre quella prevista a Carignano Altri boatos annunciano una modifica al Piano del traffico urbano, in elaborazione nelle supreme sfere di Tursi, per sostituire i previsti filobus con autobus elettrici. E così eliminare le odiate corsie preferenziali, aumentando il far west della circolazione cittadina. Ma c’è del metodo in questa pazzia: mandare un segnale a una fetta importante di elettorato. La borghesia anarcoide allergica alle regolazioni. Nello scambio tra via libera all’irresponsabilità capricciosa e consensi.
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CARIGE, o cara
Tra squilli di trombe e suoni di fanfare, nel 2019 il Fondo Interbancario Tutela Depositi aveva concluso un accordo con la Cassa Centrale Bancaria, per il passaggio dell’88% di Banca Carige a fronte di un versamento di miseri 300 milioni. I poveri vecchi azionisti di Carige erano pronti a festeggiare, anche perché al momento le azioni valgono più o meno zero. Ma CCB ha cambiato a marzo le carte in tavola: per esercitare l’opzione propone di versare 1 (un!) euro al posto dei 300 milioni, e vuole pure un premio di 500 milioni! Adducendo come scusa la “pandemia”: una balla, visto che i conti economici delle banche sono sempre più floridi e i cordoni della borsa sempre più stretti. Quindi, se FITD ci offre 250 milioni la prendiamo noi: questa è la finanza, bellezza!
EDITORIALI
Ogni figliuolo è bello a mamma sua
I figliuoli sono tutti bravi, e lo sarà anche Figliuolo, con quella faccia un po’ così e la divisa un po’ così, da generale degli alpini. Anche quando correndo con la fanfara s’inciampa e si deve far finta di niente. Come all’inaugurazione dell’Hub di Genova per il Covid. Pro Covid, crediamo, visto che per il generale, Toti e Bucci e pure Curcio (un Carneade rispetto a Bertolaso, ma stessa funzione), erano assiepate una marea (500) persone tutte appiccicate insieme in attesa di farsi il vaccino davanti alla passarella delle autorità. Sarà il più grande covid cluster di Genova ma nessuno lo saprà, perché i giornali nostrani sembrano pieni di veline, non le ragazze di Striscia, ma quelle d’epoca fascista. D’altra parte qui c’è solo la voce del padrone. “La Liguria” – ha detto il buon Figliuolo – “sarà un modello”. Generale, dietro la collina (scusa De Gregori) che cosa le hanno fatto vedere? Lo sa che siamo gli ultimi per la distribuzione dei vaccini? Lo sa che l’hub prenderà 24 euro a vaccinato? Lo dice Quaglia di Alisa, che è giusto perché a questi privati “vanno riconosciuti i costi organizzativi, del personale e delle attrezzature, che i medici di famiglia non sostengono”. Logico: se lavori nel tuo studio mica devi essere pagato, sennò che medico eroe sei? 24 euro x 500 persone al giorno x 180 giorni (tempo minimo sei mesi per vaccinare tutti) fa esattamente 2.160.000 euro. Ma scusa Quaglia, quali privati? Si tratta invece di un bel regalo della regione a sé stessa, un giro conto interno, mentre le piccole aziende falliscono e chiudono. Perché la Fiera del Mare SpA ha come soci Regione, Filse, Città Metropolitana, Camera di Commercio e Autorità Portuale. No, diciamo: allora fatelo gratis, visto che tutti questi enti sono al servizio del cittadino e pagate gli straordinari a medici e infermieri dei nostri ospedali. Poi il buon Figliuolo ha sentito che saranno anche le farmacie a distribuire il vaccino. Gli hanno spiegato che sono le aziende più colpite dalla pandemia, e questo vaccino le aiuterà in parte a risollevarsi. Non sappiamo quanto prendano. Di sicuro non lo fanno gratis, come i medici di base, che tanto sono ricchi di famiglia, sono immuni per natura dai virus e non hanno spese, lo dice Alisa. Comunque “andrà tutto bene” e “ce la faremo”, le due frasi più porta sfiga dell’immaginario collettivo nate lo scorso anno. Tutte con il verbo al futuro, perché, se avete notato, tutti i proclami politici regionali hanno solo parole al futuro, non si riferiscono mai al passato, tipo “abbiamo fatto”. Ai nostri gli è forse rimasta in testa la parola d’ordine, unica e categorica per tutti, vincere, e vinceremo! Ma gli è andata male. Un’ultima nota: a Bucci, che si è vaccinato in quanto categoria a rischio (per le elezioni future? si scherza, sindaco) il buon Figliuolo ha detto che è un eroe. Perché si è vaccinato? Ah, ecco, ritorna il pensiero del ventennio, perché siamo un popolo di eroi, santi e navigatori. E la Liguria lo è anche per conformazione fisiognomica e geografica.
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti
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Fondi del Recovery Plan all’industria militare: perché non per la riconversione?
Mancano i vaccini, le terapie intensive sono tuttora al limite e i decessi per Covid-19 nell’ultima settimana sono stati più di 3mila. Ma per le Commissioni Difesa di Camera e Senato la priorità a cui destinare i fondi europei del “Next Generation UE” sarebbe l’industria militare. Lo hanno votato all’unanimità spiegandone pure il motivo: «Incrementare la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare». Tradotto: utilizziamo il “Recovery Plan” per nuovi armamenti. La proposta ha riscosso l’assenso del governo Draghi: il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè (Forza Italia) ha subito espresso apprezzamento sottolineando che «nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che ha il Governo del Piano di Ricostruzione e Resilienza».
La Rete Italiana Pace e Disarmo (che raduna 70 associazioni della società civile) considera inaccettabile la proposta. Innanzitutto perché al comparto militare-industriale è già indirizzato un flusso sovradimensionato di soldi pubblici: i Fondi Pluriennali di investimento e sviluppo infrastrutturale destinano alla Difesa ben 36,7 dei 143,9 miliardi di euro stanziati e di questi almeno 27 miliardi per l’acquisto di nuovi armamenti. Ma soprattutto perché questa scelta rappresenta l’esatto contrario degli obiettivi di “rinascita” che il Next Generation intende perseguire: innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Nelle settimane precedenti Rete Pace e Disarmo aveva inviato al governo 12 proposte molto dettagliate – sviluppate anche con alcune rappresentanze sindacali – per destinare i fondi del Recovery Plan a favore dell’economia disarmata, della cooperazione e, non ultimo, della riconversione dell’industria militare: tutte finora ignorate. Per le Commissioni Difesa l’industria militare sarebbe “strategica dal punto di vista industriale” e per la “competitività del Paese”. E’ una bufala e va sfatata. I dati ufficiali, diffusi proprio dal settore industriale, evidenziano che il comparto armiero vale meno dell’1% sia del Pil che delle esportazioni nazionali e anche per tasso occupazionale: si tratta, in realtà, di un settore marginale per l’economia italiana.
Ma c’è di più. L’industria militare da diversi anni è sempre più calibrata sulle richieste dei “mercati esteri” rispetto alle reali esigenze del nostro Paese. La gran parte della produzione di sistemi militari è infatti destinata all’export. Ma – ed è qui il punto – più della metà delle esportazioni di armamenti non è per gli alleati dell’UE e della Nato, ma è diretta ad altri Paesi, soprattutto nella zona di maggior tensione del mondo: Nord Africa e Medio Oriente.
Il paradosso è evidente: l’industria militare italiana, che dovrebbe servire alla nostra difesa e sicurezza, fornendo buona parte della propria produzione a regimi autoritari e a Paesi in conflitto, alimenta le tensioni e l’insicurezza dalle quali dovrebbe difenderci. E’ un circolo vizioso ed è noto a chi è del mestiere. Che porta profitti soprattutto alle aziende e agli azionisti delle maggiori industrie a controllo statale (Leonardo e Fincantieri), ma che non contribuisce alla nostra sicurezza.
Non è un fenomeno solo italiano, ma europeo. Anche per questo i fondi UE del “Next Generation” dovrebbero essere destinati alla riorganizzazione dell’industria militare europea dismettendo i settori obsoleti, tagliando i doppioni e riconvertendo al settore civile – tra l’altro molto più remunerativo – le produzioni ridondanti. Ma occorre una decisione politica. L’occasione c’è. E, se davvero vogliamo dare un futuro ai giovani, sarebbe utile approfittarne. Non ne avremo un’altra.
Giorgio Beretta (Rete italiana Pace e Disarmo)
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FATTI DI LIGURIA
Le partite liguri in gioco sulla transizione ecologica
In Italia si vorrebbero chiudere le centrali a carbone nel 2025 per approdare non alle fonti rinnovabili ma al gas, che è solo meno inquinante del carbone e resta una fonte fossile: si stanno progettando o sono in fase di autorizzazione 15 nuove centrali a gas, per un totale di 14 MW di nuova potenza installata, in sostituzione di 8 MW a carbone. Tra queste, due sono in Liguria: alla Spezia (ENEL) e a Vado Ligure (Tirreno Power). In Liguria, sul tema “quale energia” e “quale transizione ecologica”, si stanno dunque giocando partite importanti.
Il rapporto del think tank indipendente Carbon Tracker spiega molto bene, confrontando rinnovabili e gas, che la scelta del gas è sbagliata: sia perché inquina, aggiungendo 18 milioni di tonnellate di emissioni in un Paese che deve tagliarne il 55% nel corso di questo decennio, sia perché è antieconomico per i cittadini, che con il gas pagherebbero bollette più care, fino al 60% in più, e per gli stessi investitori, che rischiano di finanziare nuovi impianti già non competitivi. Inoltre il rapporto dimostra nel dettaglio che il gas non è più sicuro delle rinnovabili e che non è abbondante, ma esposto a molta “volatilità”.
Sia alla Spezia che a Savona è forte l’opposizione ai due nuovi impianti. Ma deve svilupparsi la proposta alternativa. Un esempio positivo viene dal movimento popolare sorto a Civitavecchia, altro sito in cui ENEL intende riconvertire a gas una centrale a carbone. Un gruppo di ricercatori e tecnici ha messo a punto un progetto che prevede la produzione di elettricità esclusivamente da fonti rinnovabili, stabilizzate nella loro intermittenza da stoccaggi di idrogeno verde prodotto sempre da fonti rinnovabili. Sul progetto si è aperta una discussione, sono state coinvolte le associazioni e -fatto straordinario- si sono mobilitati i lavoratori, che hanno scioperato a più riprese, ed è entrata in campo la Camera del Lavoro, insieme a UIL e USB.
La transizione energetica non è di proprietà di ENEL o di Tirreno Power, perché riguarda il futuro di tutti e della natura. Deve vedere protagoniste le istituzioni e le comunità locali. E il mondo del lavoro: Civitavecchia rappresenta una svolta perché dimostra che questo mondo può uscire da una posizione vetero produttivistica e difensiva e diventare punto di riferimento essenziale dei movimenti sociali che si battono per il cambiamento del modello di sviluppo. Maurizio Landini, segretario della CGIL, ha affermato nei giorni scorsi: “Io sono certo di una cosa: di fronte alla portata della crisi che stiamo vivendo non si può tornare a fare, come pure qualcuno pensa, le stesse cose di prima. C’è bisogno di un cambiamento radicale: di pensare a un diverso modello di società. E anche il sindacato deve cambiare. È cresciuto in un mondo nel quale i termini crescita, sviluppo, progresso tecnologico, diffusione del benessere coincidevano. Oggi siamo di fronte a un quadro radicalmente nuovo: si è spezzato quel rapporto che sembrava scontato quanto lineare tra sviluppo e benessere. Inoltre la crescita deve misurarsi con un tema nuovo per il sindacato e non solo: il concetto di ‘limite’, che ci dice che le risorse naturali -aria, acqua, la terra stessa- non sono infinite”.
Civitavecchia dimostra, forse, che questo “cambiamento radicale” è cominciato. Il sindacato ligure deve fare la sua parte.
G.P.
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FATTI DI LIGURIA
Reddito di cittadinanza, una misura giusta nata male
In una situazione drammatica, determinata dalla pandemia nel bel mezzo della più grave crisi economica della storia moderna non può certo mancare uno strumento di sostegno al reddito delle famiglie più povere. Tutti i paesi d’Europa, con modalità diverse, hanno uno strumento destinato all’uopo. Nessuno può pensare, in questo momento, di abolire semplicemente il reddito di cittadinanza. Tuttavia vanno fatte alcune riflessioni, in particolar modo in base ai primi risultati che la misura ha prodotto. Secondo stime dell’INPS, confermate autorevolmente anche dall’economista Tito Boeri, il 50% dei percettori sono in realtà evasori o persone che hanno redditi, talora anche elevati, non dichiarati al fisco. Sono quindi mancati una seria azione di controllo e un incrocio dei dati, determinando spreco di denaro pubblico e ingiustizie sociali. Contemporaneamente, proprio le persone più povere non percepiscono il reddito di cittadinanza, secondo alcune stime addirittura il 75% dei più poveri non lo percepirebbe.
Il Sole 24 ore ha poi dimostrato, dati alla mano, il totale fallimento dei “navigator”, le 10.000 persone assunte senza concorso per indirizzare al lavoro i percettori del reddito di cittadinanza.
La misura è in sé giusta, ma è nata male, perché è nata dietro a una concezione clientelare e filantropica, tipica del populismo dei 5 Stelle, che, grazie ad essa, hanno raccolto nelle elezioni del 2018 un successo straordinario e mai più ripetibile. Sarebbe il caso di distinguere le diverse finalità. Una è quella destinata a quanti non hanno reddito, ma non possono lavorare, perché anziani, malati o altro. I “navigator” per queste persone sono inutili.
Un altro caso è invece quello di chi non ha lavoro, ma potrebbe lavorare. In questo caso il meccanismo previsto, diventa punitivo per chi trovasse un lavoro, in modo particolare se si trattasse di un lavoro a tempo determinato. Gli verrebbe tagliato il reddito di cittadinanza e, nel caso di nuova perdita del lavoro troverebbe difficoltà e rientrare nei parametri.
Le politiche di avviamento al lavoro sono generalmente carenti. Non basta un banale incrocio tra domanda e offerta, occorrono anche politiche d’incentivazione economica verso le imprese e di formazione o di riformazione per i lavoratori.
Infine c’è il caso dei “furbetti”, che, come dice l’INPS sono un numero enorme. E’ inutile nascondere che, particolarmente in molte aree del Sud del paese sono diffuse attività totalmente in nero o addirittura malavitose. Sino ad oggi non si è registrata una seria attività di controllo e di revoca di quanto percepito illegalmente.
L’istituzione recente dell’assegno unico e universale per i figli è l’occasione per definire un nuovo sistema di sostegno pubblico alle famiglie. A patto però di rispettare alcuni criteri. Così come serve un sistema fiscale, contributivo e di protezione sociale adeguato. La strada in questo caso è quella giusta, ma rischia di essere incompleta se in Italia non si affronta finalmente e con determinazione una profonda riforma del sistema fiscale, che colpisca la più alta evasione d’Europa.
NC
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FATTI DI LIGURIA
I giovani migranti liguri, loro malgrado
Non è necessario essere degli esperti per quanto di più ovvio possa dirsi in merito alla nostra economia: questa maledetta pandemia sta producendo danni enormi a scapito delle fasce più deboli, e sta facendo arricchire oltre misura quelle già ricche. Ma non che prima le cose andassero meglio, e la nostra regione è uno dei peggiori esempi. Soprattutto per quanto riguarda il “mercato” dei giovani. Nel Rapporto Liguria 2019 di Unioncamere sulla situazione socio economica ligure, nel disastro generale della diminuzione delle imprese giovanili, l’unica che mostrava un aumento era quella della ristorazione, decimata ormai dalle chiusure causa Covid. Gli ultimi dati (fonte: Eures) della nostra regione parlano di 65.00 persone in cerca di occupazione, e di questi il 40% circa sono under 35. Questo dato drammatico non tiene però conto dei giovani (e non solo) che hanno perso le speranze di trovare un lavoro e non sono più nemmeno “in cerca di occupazione”. E se nel 2018 (dato più recente) in Italia sono andate via 140.000 persone, di cui 70.000 laureati (l’85% giovani) in cerca di lavoro, solo da Genova (fonte Secolo XIX) nel 2017 ne sono emigrati 11.000, nella maggior parte giovani. Ovvero, mentre la popolazione ligure rappresenta il 2,5% di quella italiana, gli emigranti liguri sono in proporzione più di tre volte tanti (quasi l’8%). Dice un recente adagio che il vero problema non sono le intelligenze che emigrano, ma i cretini che restano. E’ questione di proporzione. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo. Tornando ai numeri che non sono opinioni, 140.000 persone rappresentano il 9% della popolazione residente. In teoria, in poco più di dieci anni, la Liguria diventerebbe un deserto. Di questi 55mila, quasi il 40% (Fonte AIRE, l’Anagrafe Italiana dei Residenti all’Estero) hanno un’età inferiore ai 35 anni. E, per quanto ancora ovvio, la motivazione che spinge i nostri giovani a emigrare è esclusivamente la ricerca di un’occupazione qualunque precaria o stabile. Eppure le risorse economiche per finanziare l’occupazione ci sarebbero, e di provenienza europea, ma chi dovrebbe gestire queste risorse o non è capace o se ne infischia. Tertium non datur.
CAM
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FATTI DI LIGURIA
Il Titanio e Toro Seduto
Varrebbe la pena leggere l’ultimo rapporto annuale ISTAT (2019) per saperne di più sulla nostra regione da una voce che non appartiene alla combriccola guidata dai gruppi di pressione Cairo, Agnelli e Berlusconi (Corriere, Repubblica e Il Giornale). Non che sia Parola del Signore, ma è il massimo che ci possiamo permettere per ragionare sui fatti più che sulle parole. Parole che, a proposito della paventata corsa al titanio da estrarre dal Monte Beigua, sono state espresse dall’assessore all’urbanistica Marco Scajola: “non vi è intenzione da parte dell’amministrazione regionale di inserire una cava di titanio nel territorio dei due comuni”, con riferimento a quelli di Sassello e Urbe. Parole, rassicuranti e ambigue al tempo stesso, perché il territorio del Beigua Geopark (dal 2005 patrimonio ecologico Unesco), che si estende per 39.230 ettari, coinvolge anche i comuni di Arenzano, Campo Ligure, Cogoleto, Genova, Masone, Rossiglione, Stella, Tiglieto e Varazze. Le sfuggenti parole dell’assessore non fanno riferimento a questi comuni e quindi, dato che a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, bisognerebbe che i sindaci dei comuni non nominati chiedessero a Scajola una parola definitiva anche sulla loro esclusione. Il titanio fa gola perché il presunto valore dei giacimenti è di 25 miliardi di euro, e sulle parole dell’assessore è intervenuto il ministro della Transizione Ecologica (cosa voglia dire tale definizione è un mistero gaudioso), che da una parte assicura come sia “radicalmente vietata ogni attività di sfruttamento ed estrazione mineraria e, per tale motivo, la Regione Liguria aveva già respinto un’istanza presentata nel 2015 dalla Compagnia europea per il titanio”. Dall’altra viene concessa un’attività di ricerca nella zona “limitrofa”. Ma se la ricerca non è finalizzata allo sfruttamento minerario, che cavolo di ricerca è? A scopo culturale? E anche ammettendo che non venga scavato un solo ettaro della riserva ecologica del Beigua, ci si può immaginare il traffico di camion e di escavatrici e di tutto l’inquinante indotto relativo alle perforazioni e al trasporto del titanio. A questo punto torniamo all’Istat, secondo il quale la Liguria è la regione peggiore d’Italia per quanto riguarda “le pressioni ambientali legate ai prelievi di risorse naturali non rinnovabili” (pag. 95 del Rapporto), con un’incidenza del 99%, secondo gli “indicatori di estrazione in comuni con aree protette e con aree a pericolosità idrogeologica” (pag. 96 ibidem). Al di là dei termini tecnici drammatici, in sostanza siamo la regione più bucherellata d’Italia. Forse per questo governo regionale (peggiore degli altri, ma non esenti da colpe, visto che il fenomeno dura da decenni) l’ambiente, di fronte ai soldi non conta niente. Mentre i comuni non citati dall’assessore dovrebbero svegliarsi, vale la pena ricordare la massima di Toro Seduto “Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo animale libero ucciso, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro”.
CAM
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FATTI DI LIGURIA
Un quiz: indovinate il personaggio misterioso (seconda parte)
(segue) Ma parliamo di altri fatti: il parco e il monumento ai caduti? Un monumentino e 14 alberi, per lo più già rinsecchiti. Anche questo fatto e inaugurato con la fanfara e i ministri.
A proposito di alberi. La proposta dell’uomo del FARE era: 10.000 alberi. Siccome in Minnesota ci sono le grandi praterie e gli alberi come li intendiamo noi non ci sono, era facile pensare a un qui pro quo: infatti gli alberi a Genova sono diminuiti a centinaia e quelli sostituiti anziché platani, querce o castagni tipici delle zone appenniniche, belli maestosi, ombreggianti e in grado di garantire un forte ricambio d’aria, alti venti metri e con una grande superfice verde: peri da fiore, ciliegi da fiore, palme nane come quelle che metteranno in via Cornigliano, massimo dieci metri e neanche il piacere di mangiare datteri, pere e ciliege, serviranno forse per parcheggiare i pony così carini così resistenti e adatti alle grandi pianure del nord ovest americano?
A proposito di alberi. A causa della tempesta di vento a Nervi, ne sono venuti giù 250 e mica ciliegi da fiore, alberi unici che impreziosivano i parchi storici ed erano stati piantati uno per uno da architetti e botanici del paesaggio. E L’ UOMO DEL FARE cosa fa? Ci piazza Euroflora, distruggendo anche l’erba rimasta. Ma l’uomo l’ha promesso: finita Euroflora pianteremo tutti gli alberi e anche di più. Nel 2019 il progetto era pronto e consegnato, ma di alberi piantati neanche l’ombra, e questa primavera vogliono rifare Euroflora. METODO GENOVA
E il commercio? Ah beh venendo dal Minnesota il progetto era chiarissimo, come lì anche qui negozi di vicinato e basta supermercati, da quando l’uomo del fare è a Genova per FARE i negozi di vicinato chiusi sono centinaia, i supermercati in più qualche decina. METODO GENOVA.
E la viabilità? L’uomo venuto dalle grandi pianure è stato netto e risoluto: tram. E chiunque può vedere i numerosissimi tram che circolano in città, così come gli ingorghi in centro all’urlo di tutti in centro per i saldi, parcheggi gratis. La più bella l’uomo del FARE l’ha pensata a Cornigliano. Al posto del parco di villa Bombrini un bel deposito di camion e container con una bella variante al piano. Un’idea così bella che nemmeno il camionista più grande di Genova c’ha mai messo uno dei suoi camion, si vergognava poverino e ha detto pubblicamente, no no lì ci deve andare un parco per i corniglianesi, vorrà dire che io e Bezos (Amazon) ci stringeremo un po’ nelle aree in cui già siamo. E le piscine? Via la piscina di Nervi che è brutta, allarghiamo il porto e ne costruiamo un’altra più bella, più grande, per farci il campionato di pallanuoto. La piscina non c’è più, l’area con l’acqua è rimasta la stessa, della piscina nuova neanche l’ombra, però i nerviesi se vogliono una piscina se la possono costruire da soli grazie ad un apposito aggiornamento del PUC che tanto i nerviesi i soldi ce li hanno, mentre a Multedo, che ce l’avevano e la rivolevano, niente piscina, un palazzetto dello sport , però non a regola, il campionato di pallacanestro e di volley se lo vanno a giocare altrove. METODO GENOVA.
E se con un grande sforzo di generosità lungimirante i genovesi regalassero all’uomo del FARE un biglietto di sola andata per il Minnesota col bonus di un pony e una tenda indiana da comprare dal Valmart più vicino?
Andrea Agostini
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FATTI DI LIGURIA
Nel nome di Giulio Regeni, forniamo una bella fregata militare all’Egitto
Una fregata di nuovissima concezione e ad alta tecnologia era stata preparata per la Marina Militare italiana. La nave, realizzata alla Fincantieri di Muggiano (La Spezia), era stata battezzata “Emilio Bianchi”. Appena uscita dal cantiere, le è stato cambiato nome in “Bernees”, e ceduta alla Marina egiziana. Portata all’interno dell’arsenale militare, ha imbarcato il munizionamento, ovviamente di produzione italiana, e altre dotazioni. Per accontentare il cliente, è la seconda volta che l’Italia fornisce una nave già pronta all’Egitto. Negli scorsi mesi, era successo con la fregata Spartaco Schergat, ribattezzata “Al-Galal” per la marina egiziana.
Per rimediare alla cessione, sono state impostate due nuove fregate per la marina italiana. Solo il valore delle due navi cedute all’Egitto è stimato in 1,2 miliardi di Euro, ma l’accordo italo-egiziano prevede anche che Fincantieri assicuri il supporto logistico alle due navi, cioè pezzi di ricambio, assistenza e manutenzioni, inoltre sono già state ordinate altre due unità della stessa. Sono inoltre previste le forniture al Cairo – sempre da parte italiana – di aerei Typhoon, velivoli d’addestramento M-346 e un satellite da osservazione. Il tutto per un valore di oltre 9 miliardi di euro.
In Italia esiste la legge 185 del 1990, che proibisce la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Ufficialmente abbiamo assistito a proteste per l’uccisione, non ancora chiarita, di Giulio Regeni, stiamo assistendo con ansia alla detenzione di Patrik Zaki. Condoglianze, strette di mano, discorsi ufficiali. I genitori di Giulio Regeni hanno presentato una denuncia contro lo Stato italiano, ma, poi, nel concreto, non se ne è cavato nulla. Come ricordava il titolo di un vecchio film di Alberto Sordi “fin che c’è guerra, c’è speranza”.
NC
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FATTI DI LIGURIA
Donne, mala tempora currunt
In Liguria l’unico dato in crescita, del 5% rispetto all’anno precedente è quello degli inattivi: 281.000 che non hanno un lavoro e nemmeno lo cercano. Come sempre sono le donne a pagare il prezzo più alto della pandemia il 62,2%.
I numeri sono quelli relativi al terzo trimestre del 2020, gli ultimi resi pubblici dall’Istat che rimarca come, nella zona grigia di chi cerca un impiego ma non attivamente, ovvero il 16% di queste 281 mila persone senza lavoro, si riscontra una differenza sostanziale tra uomini e donne. Andando ad analizzare la condizione individuale dell’inattività e concentrandoci su chi cerca ma non è immediatamente disponibile oppure su chi non cerca ma sarebbe disponibile, vediamo che i maschi in questa fascia calano del 29% mentre le donne aumentano del 13% ed il perché è facilmente intuibile, la famiglia più o meno allargata, la presenza di anziani o disabili, avere figli piccoli, avere mezzi, risorse o strumenti individuali, per le donne che hanno perso un lavoro, dunque, è quasi impossibile rimettersi sul mercato perché oberate da tante altre attività di cura.
C’è un altro dato, che preoccupa: l’emorragia di contratti a termine. E il calo riguarda soprattutto l’occupazione femminile anche in Liguria, dove fa già da sfondo una situazione occupazionale difficile: nell’ultimo trimestre 2020, in Liguria le assunzioni sono state 37.321 con contratti di lavoro dipendente nel settore privato, 8.393 in meno dell’anno precedente. Se si analizzano i contratti a tempo determinato, nello stesso periodo il calo è di 6.981 rispetto all’anno precedente. Il 31,6% di contratti a termine in meno. E a ricoprire di più lavori precari sono le donne e i giovani. C’è poi un’altra partita: quella del rischio. Perché su cento persone impiegate nelle cosiddette professioni a rischio alto e medio, quelle legate alla cura e all’istruzione, ben 67 sono donne. Il risultato è reso evidente dai dati Inail, riferiti alla prima ondata. Raccontano che sono le lavoratrici della prima linea sanitaria contro il virus quelle più contagiate: infermiere, operatrici socio sanitarie, ausiliarie ospedaliere e operatrici socio assistenziali. I dati pubblicati dall’Inail riguardo alle denunce di infortunio sul lavoro da covid-19 nel periodo che va dal primo gennaio al 31 ottobre 2020 ci dicono che in Liguria le denunce erano 3.246: di queste, 2.231 provenivano da donne e che l’8O% per cento degli infortuni riguarda operatrici socio sanitarie.
Il secondo aspetto: in questi tempi di pandemia e dopo il decreto che impone misure a carico dei sanitari “no vax”, mi viene in mente la CONVENZIONE DI ISTANBUL dove È SCRITTO CHE È VIOLENZA CONTRO LE DONNE qualsiasi ostacolo che impedisce o si frappone all’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Che c’entra con la pandemia? C’entra eccome, perché è stata interessante la pressione dell’opinione pubblica e di conseguenza della stampa sul governo che si è visto costretto a prevedere nell’ultimo dl del 1° aprile non solo l’obbligo per tutti gli operatori sanitari di vaccinarsi ma ha anche dovuto prevedere sanzioni di non poco conto. Se gli obiettori al vaccino possono essere demansionati o addirittura licenziati perché non anche quelli verso la L 194? Perché è una Legge a tutela di un diritto delle donne e non di tutti? Vacciniamoci, vaccinatevi, ma basta obiettori di serie A e serie B nelle strutture pubbliche, anche in questo caso a scapito delle donne e dei non obiettori oberati dal lavoro per colmare i vuoti lasciati da chi mette a rischio la salute delle donne.
Erminia Federico
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FATTI DI LIGURIA
Trasimaco in Liguria
Prendano nota le ragazze e i ragazzi che si avviano a intraprendere una vita di lavoro e – magari – di impegno personale nelle istituzioni pubbliche: i criteri etici che oggi guidano queste attività sono profondamente mutati rispetto a quelli che, in altri tempi, costituivano il tratto primario di un abito morale tagliato sul rigore e la correttezza disinteressata. Questo a seguito dell’avvenuto sdoganamento e poi della legittimazione del conflitto di interessi, ridotto a barzelletta ridanciana. Come quando la truppa parlamentare di Forza Italia si precipitò ad accreditare la tesi che Ruby Rubacuori, seppure marocchina, era niente meno che la nipote del presidente egiziano Mubarak. Performance di puro servilismo, finalizzata ad assecondare i capricci del proprio datore di lavoro: Silvio Berlusconi. Una mutazione nei criteri di una vita degna, che vuole confinare nell’anacronismo le forti tempre del passato, che onorarono la nostra terra: come il combattente antifascista Sandro Pertini che – condannato dal Tribunale Speciale per aver condotto in salvo Filippo Turati minacciato dalla violenza fascista – vietò a sua madre di inoltrare a Mussolini una domanda di grazia a suo favore; scrivendole una lettera che iniziava con queste parole: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato che tu hai presentato domanda di grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti pentiresti amaramente di averla scritta».
Dov’é finita la sobrietà come stile di vita, per cui Angelo Costa, l’armatore allora presidente di Confindustria, viaggiava su una utilitaria Simca 1000, seppure con autista?
Oggi prevale ben altro, che fa dell’avidità la propria regola e dell’ostentazione la maniera. La logica per cui sei quello che hai, a prescindere da come te lo sei procurato. Come si è visto nel recente scontro in Consiglio Regionale sull’ultima vicenda di gestione allegra del pubblico denaro, evidenziata dalla nomina dell’avvocato Pietro Piciocchi, super-assessore del Comune di Genova, a consulente ben pagato di Regione Liguria. Vicenda in cui il professionista si è difeso buttandola sul patetico dell’immortale “tengo famiglia”. In effetti, a conferma di quello che è lo spirito di questi tempi, che aleggia in misura accentuata sulle nostre terre dall’avvento di questa Destra senza ritegno. Il principio già teorizzato dal sofista Trasimaco, in polemica con Socrate, che “la legge è la volontà del più forte”. Davvero un bell’esempio il regaluccio di Toti a Piciocchi.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
Le povertà sono di due tipi. Il caso Liguria
Secondo i dati Istat 2020, gli occupati i Liguria si riducono a 601.258 (-10.509: -1,71% sul 2019), con la maglia nera che va ai servizi: il settore che presenta il maggiore calo occupazionale, perdendo 11.659 post di lavoro (-2,42%). In percentuale, il trend più negativo è quello del comparto commercio-turismo, con meno 5.482 posti di lavoro (-3,9%); mentre a valore assoluto le altre attività dei servizi calano di 6.179 unità (-1,81%). Dunque, un dato gravissimo; che richiede di essere urgentemente affrontato mediante ammortizzatori sociali. Ma che – secondo lo scrivente – è sbagliato ricondurre allo schema-modello del reddito di cittadinanza attualmente in vigore. Ossia l’equivoco che continua a perdurare nel dibattito pubblico italiano riguardo all’istituto; largamente influenzato dal clima ideologico degli scorsi decenni, in cui l’impresa diventa il criterio regolatore, l’occupabilità l’unica legittimazione (e uno come Matteo Renzi, in piena pandemia, può pretendere “investimenti e non sussidi”). Ecco – dunque – quanto qui si reputa un grave errore: legare all’esercizio di un ruolo produttivo il diritto alle condizioni minime di vita degna. Per cui il principio, proprio delle democrazie avanzate, di un diritto civile, sociale e politico alla dignità economica, è stato trasformato dal legislatore Cinquestelle in nient’altro che un sussidio alla disoccupazione. Non certo l’abolizione della miseria. Equivoco che nasce dalla confusione analitica tra povertà assoluta e relativa. Quando la scienza socio-demografica distingue nettamente tra le due povertà: per cui è indigenza assoluta quella “di chi non riesce a provvedere ad alcune funzioni vitali che gli assicurino la sopravvivenza” (in Italia 5,6 milioni di persone), quella relativa riguarda “chi si trova ad avere meno (o molto meno) di altri che vivono nella stessa comunità” (attualmente 9 milioni). Con un’ulteriore differenza: se quest’ultima forma di vulnerabilità può essere temporanea e dipende in larga misura dalla disoccupazione del soggetto, ovviabile mediante adeguate politiche attive del lavoro e supportata nel frattempo con puntuali sussidi di sopravvivenza (alla faccia di Matteo Renzi!), la povertà assoluta corrisponde – in linea generale – a una condizione permanente e non modificabile: anziani soli e a ridotta mobilità, disabili, portatori di handicap, ecc. Dunque, una parte della popolazione strutturalmente indisponibile a svolgere quei ruoli lavorativi che le odierne ideologie (work-line) pretenderebbero come irrinunciabile contropartita al riconoscimento dei diritti sociali. E – per quanto riguarda la Liguria – si tratta di una popolazione oscillante tra i 140 e i 150 mila soggetti (qualcosa come il 10% degli abitanti; mentre la povertà relativa era data al 12,9% nel 2019). Dati che sono segnalati in forte crescita nell’attuale biennio pandemico.
Questa la premessa per un riposizionamento su scala regionale delle politiche di contrasto della disuguaglianza e della miseria. Nella consapevolezza degli attuali limiti concettuali degli approcci a questo tema drammatico, che vanno dalla sottostima dello stato comatoso che affligge il mercato del lavoro alla sovrastima delle potenzialità messe in campo dalle politiche di attivazione del workfare, l’occupabilità. Per quanto concerne lo specifico della povertà assoluta, il deprezzamento della funzione distributiva, della protezione sociale e dell’assistenza ai più vulnerabili.
PFP
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FATTI DI LIGURIA
L’ex Ospedale Psichiatrico, metafora di una Genova suicida
Ben strano paese, la Liguria, e ancor più il suo centro: Genova, tenuta in vita – per così dire – dall’indifferenza per i propri gioielli storico-ambientali e – addirittura – dall’impulso irresistibile, autentico cupio dissolvi, di incoraggiare l’umiliazione di quei gioielli che ne costituiscono il vero ‘tesoro della corona’.
Tra i miei sogni ce n’è uno ricorrente, che finisce per trasformarsi in incubo. L’ex Ospedale Psichiatrico di Quarto mi appare all’inizio come un Eden della cultura, animato da una popolazione libera e gioiosa; poi, di colpo, quel paradiso si trasforma in un lugubre complesso residenziale, tanto esclusivo e costoso quanto deprimente e assurdo: autentica anticamera del suicidio.
A Genova, paradossalmente, l’unico meccanismo a suo modo funzionante è quello ben noto dei ‘veti incrociati’. Se da un lato premono gli interessi speculativi sempre pronti a cogliere l’occasione, dall’altro si oppongono gli sforzi inani di chi vorrebbe salvare e promuovere il patrimonio culturale e storico della città, non disponendo però delle risorse economiche e politiche necessarie, ma della sola forza passiva e disperata del contrasto alla speculazione.
Qualcosa, nell’ex manicomio di Quarto, sembrava avere spezzato questo circuito perverso.
A partire dai primi anni 2000 la Regione Liguria- alla ricerca di sempre nuove risorse finanziarie – aveva intrapreso un programma di cartolarizzazione dei beni immobiliari non impiegati direttamente in attività istituzionali, tra cui – boccone particolarmente ambito – il prezioso complesso ottocentesco che sorge sulla collina che da Corso Europa digrada al mare. Annessa a questo programma e indispensabile alla sua realizzazione, era stata disposta addirittura una gara d’appalto al massimo ribasso per ‘disporre’ degli ultimi ottanta pazienti presenti nel complesso.
In pratica, si mettevano all’asta degli esseri umani.
La città finalmente ebbe un sussulto, e nel 2012 si costituì il Coordinamento per Quarto, cui col tempo hanno aderito circa 1500 persone e quaranta organizzazioni. L’intento era e rimane non cedere un luogo così carico di valori storici, architettonici, sociali e ambientali alla speculazione edilizia e alla logica del profitto. La Regione si rese conto della difficoltà di procedere nel progetto di alienazione e avviò un tavolo di lavoro ‘interistituzionale’ per giungere a un accordo.
Tra il 2012 e il 2013 si poté infatti costruire una ipotesi di intesa articolata su tre punti: fare dell’ex ospedale un centro che polarizzasse nel Levante , per la cittadinanza tutta, la tutela dei valori storici e le funzioni socio-sanitarie; rendere il complesso agevolmente fruibile da parte della comunità; conservare i valori storici di un luogo che testimoniava circa la trasformazione del vecchio ospedale psichiatrico da luogo di emarginazione sociale della ‘malattia’ a centro di accoglienza e integrazione. Punto di riferimento e impulso di questo progetto doveva essere la ‘Casa della Salute per il Levante’. L’esperienza della pandemia ha reso oggi ancora più urgente l’esigenza di tornare a investire risorse nella salute, intesa come essenziale bene collettivo e non solo come complesso di problemi ‘sanitari’. All’accordo di programma doveva far seguito – entro il maggio 2014 – la redazione di un Piano Urbanistico Operativo, del quale tuttavia non si hanno più notizie. Ad oggi nulla si è ancora concluso.
I familiari ‘veti incrociati’, c’è da temere, sono ancora una volta entrati in azione.
Per chi voglia saperne di più: www.imfi-ge.org
MM
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FATTI DI LIGURIA
La transizione savonese
In piena crisi di identità, Savona si appresta al turno elettorale del prossimo autunno, nel quale si rinnoveranno il Sindaco e il Consiglio Comunale.
In discussione però non ci sarà, semplicemente, l’operato dell’amministrazione di centro destra ma l’intero processo di transizione che a Savona ha accompagnato la fase di de-industrializzazione, di mutamento d’indirizzo del Porto Antico con l’avvento delle crociere, di superamento di quelli che erano stati i capisaldi dell’amministrazione di sinistra che aveva traghettato la Città nella ricostruzione del dopoguerra, dalla difesa della struttura produttiva, all’estensione dei servizi socio – sanitari fino alla valorizzazione delle periferie come sede dell’espansione dell’edilizia popolare (operazione quest’ultima non sempre pienamente riuscita).
Se si dovesse fornire una sintesi di massima nell’identificazione dei due periodi si potrebbe affermare che le amministrazioni di sinistra che avevano governato la Città fino agli anni ’90 avevano operato (tra gravi errori e contraddizioni, compresa la “questione morale” anni ’70 – ’80) comunque in funzione dell’interesse generale mentre quelle di centro-sinistra operanti a cavallo degli anni ’90 fino al primo decennio del 2000 hanno agito seguendo l’egemonia di interessi particolari e corporativi.
In questi ultimi venticinque anni Savona ha perduto il suo ruolo di capoluogo, la capacità di guida del comprensorio che aveva avuto all’epoca della felice intuizione del PRIS: si è verificato un frazionamento territoriale così che la piattaforma Maersk a Vado è sorta priva del necessario retroterra infrastrutturale e la conformazione dell’ “area industriale di crisi complessa” (gestita da Invitalia e che dal 2016 non ha fornito alcun risultato tangibile) ha compreso il Vadese e la Valbormida escludendo clamorosamente la Città.
Non a caso, questa “seconda fase” è stata caratterizzata dall’elezione diretta del Sindaco e dall’elezione diretta del Presidente della Regione (stupidamente denominato Governatore): una simbiosi istituzionale assolutamente negativa, nel caso della Liguria e di Savona, per imporre quel modello edilizio – trasportistico (vedi sudditanza alle crociere) che si è rivelato assolutamente deleterio. Nel frattempo si è persa la banca (ingoiata nel mare magnum della CARIGE), la titolarità della Camera di Commercio (finita nell’assurda Camera di Commercio delle Riviere), la presenza dell’Autorità Portuale (inglobata da Genova: con la presenza savonese mantenuta attraverso una non sorprendente continuità con il passato).
È difficile allora, in vista delle elezioni del prossimo autunno, individuare il sistema di potere verso il quale rivolgersi presentando una proposta alternativa.
Permangono vecchie incrostazioni dalle quali però non pare possano sorgere livelli di riferimento in grado di sviluppare una nuova dimensione di identità; l’amministrazione di centro destra uscente si presenta, paradossalmente ma non troppo, priva di un bilancio da sottoporre al giudizio delle elettrici e degli elettori: una situazione per certi versi paradossale ma vera.
Una città senza identità è una città priva di poteri costituiti.
In gioco ad ottobre ci sarà il completamento della transizione e l’avvio verso una fase decisamente diversa o il suo proseguimento all’infinito all’interno del tunnel del declino.
Sarà una questione di progettualità e di visione: le savonesi e i savonesi dovranno essere posti in condizione di saper scegliere a questo livello e non semplicemente nella dimensione di un minimalismo amministrativo che la Città non può più assolutamente permettersi.
Franco Astengo
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FATTI DI LIGURIA
Noi e il Camerun: un piccolo bandolo per un problema enorme
Come in altri Paesi africani, anche in Camerun il Covid-19 ha aggravato un quadro già di per sé drammatico per la popolazione, in particolare per gli sfollati delle due regioni anglofone a Sud-Ovest e Nord-Ovest del Paese. Dalla fine del 2016 si sono rafforzate le istanze dei nazionalisti delle due regioni, fino alla richiesta di secessione dal Camerun: da allora la spirale di violenza, quella separatista e quella dell’esercito governativo che la reprime, si abbatte anche sui civili. Entrambe le parti continuano a uccidere, a torturare, a distruggere villaggi.
Alle centinaia di migliaia di sfollati di queste regioni vanno aggiunti altri sfollati interni, vittime degli attacchi del gruppo terrorista jihadista Boko Haram nella parte Nord del Paese, confinante con la Nigeria, e i rifugiati stranieri, principalmente dalle vicine Repubblica Centrafricana e Nigeria. In tutto oltre un milione di sfollati, in un Paese di 25 milioni di abitanti.
Nel Camerun l’Indice di Sviluppo Umano si posizionava già prima dell’emergenza sanitaria alla 150esima posizione su 189. Ora tutto è più grave ancora a causa dei contraccolpi della pandemia, non solo sanitari ma anche economici e sociali: le restrizioni hanno infatti reso drammatica la situazione dell’economia informale, cioè delle persone che vivono di lavoretti alla giornata.
Dopo 39 anni di potere indiscusso il Presidente Paul Biya, 88 anni, appare del tutto inadeguato a fronteggiare la tragedia in atto. Ma, nonostante tutto, c’è una società civile che non si arrende. E che trova supporto in un’Italia che resta “estroversa” e umana.
Un piccolo ma significativo esempio è quello dell’azienda che produce pannelli fotovoltaici promossa nel 2017 da Bolivie Wakam, laureato in Ingegneria all’Università di Savona, rientrato in Camerun dopo gli studi. Wakam ha anche promosso, insieme a diversi altri professionisti, l’associazione di cooperazione internazionale Universo, che lavora costantemente in partnership con Januaforum, l’associazione dei cooperanti liguri.
Universo sta illuminando, da inizio marzo, le case di 200 famiglie in una zona rurale del Paese, priva di energia elettrica. E lo sta facendo in modo sostenibile: con l’energia solare, a un prezzo di 50 euro per ogni abitazione. Il kit comprende un pannello, una batteria, tre lampadine, un posto per caricare il telefono e un regolatore. L’elettrificazione di tre stanze ha un forte impatto positivo: dà la possibilità ai bambini di studiare la sera, riduce le malattie causate dalle lampade a petrolio, consente di avviare attività economiche… Il progetto è realizzato anche da giovani studenti, che sono stati appositamente formati in un corso organizzato con il Comune.
Il progetto sta riguardando il villaggio di Bayangam. Potrà continuare in altre zone rurali prive di energia solo con la raccolta fondi, in cui anche Januaforum è impegnata: l’obiettivo è raccogliere 15 mila euro, per illuminare 3 mila abitazioni
Ecco il riferimento bancario per una donazione a sostegno di una famiglia:
IBAN IT36J0501801400000016930083
Intestato a: Januaforum ApS
Causale: Progetto “Illumina l’Africa – Luce per una famiglia”.
G.P.