uno strumento di contro-informazione per il dibattito pubblico ligure
LA VOCE DEL CIRCOLO PERTINI
PILLOLE
Paita: il tourbillon destra-sinistra e ritorno
Elezioni Comunali Genova 2022, alle comiche finali. La Pasionaria senza passioni di Italia Viva (ma è viva?) Lella Paita annuncia che il partitino di Renzi sosterrà Marco Bucci perché: “ha fatto cose di sinistra”. E non voleva dire sinistre ma proprio di sinistra. Però con il tipico cerchiobottismo: “senza simbolo, perché non può stare accanto a quelli di Lega e Fratelli d’Italia”. Cioè stiamo con la destra perché fa cose di sinistra, e lo diciamo ma senza mostrarci. Senza spiegare l’ossimoro. Ma se la sinistra facesse cose di destra, la Paita che è di destra sinistra, appoggerebbe la destra o la sinistra? D’altra parte da chi dice che in Arabia Saudita è in corso il “nuovo rinascimento” (Renzi) queste doppi e ridicoli salti carpiati per arraffare una poltroncina sono quisquilie.
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Bucci e i bermuda

Finalmente Bucci si dimostra all’altezza della situazione. Utilizzando i locali vuoti del comune per chi è sfrattato? Provvedendo alla sistemazione delle strade piene di buche? Rifacendo percorsi ciclabili attualmente fuori legge e pericolosi? Prendendo posizione contro il trasferimento dei depositi chimici a Sampierdarena? Aumentando i controlli di polizia locale nelle zone di spaccio della droga e degli scontri tra bande? Portando, come promesso, la raccolta differenziata dei rifiuti al 65%, visto che ora Genova è sotto al 35%? No, molto di più. Con un provvedimento della giunta approvata dal consiglio, i tassisti genovesi avranno il permesso di portare i bermuda, “purché al ginocchio e a tinta unita”. Grazie Sindaco (per ora), è questo di cui la città ha bisogno. |
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Amministrative genovesi: i testi del Centro-Sinistra li scrive Tafazzi?

La campagna per la poltrona di Tursi sta partendo e prende il via la battaglia della comunicazione a slogan. Fa subito capolino l’immancabile sconfittismo di chi dovrebbe scalzare Marco Bucci e la maggioranza di Destra. Difatti, mimetizzati nei gabbiotti delle fermate d’autobus, ci imbattiamo nei manifesti del candidato di Centro-Sinistra – l’avvocato Ariel Dello Strologo – che accompagna l’espressione arcigna e professorale con il motto misterico “allarghiamo gli orizzonti/riduciamo le distanze”, concepito per pochi intimi cultori di sociologia. in grado di decodificarne il messaggio (visione e inclusione?). Intanto a Destra si gioca sul sicuro: “al lavoro per Genova”, “proposte concrete”. Banale ma comprensibile. Andrà appurato se questo puntare a perdere è autolesionismo o che altro? |
EDITORIALI
Primo Maggio, lotta e resistenza
Quanto celebriamo nel Primo Maggio è una storia di lotta e resistenza, concetti urticanti per l’attuale pacifismo; talvolta appannaggio dei sepolcri imbiancati che sono stati scoperchiati dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e prima di lui dalla Senatrice a vita Liliana Segre (“il 25 aprile canterò Bella ciao pensando all’Ucraina”) e subito dopo dalla Vice Presidente dell’Anpi Albertina Soliani (“io credo che – con tutto il travaglio di coscienza che attraversa molti di noi, me di sicuro – sia prioritario sostenere le vittime perché disarmino l’aggressore e quindi capisco che si possano anche dare forniture di armi, commisurate alle necessità della difesa. La moralità sta nel non voltarsi dall’altra parte mentre loro soccombono”).
La lunga storia antagonista attraverso la quale il lavoro divenne soggetto politico costituente; anche in questo caso grazie alla resistenza, nonostante rapporti di forza assolutamente sfavorevoli. Che inducevano pure allora le anime belle a predicare desistenza, esortando i resistenti a confidare nella compassionevole benevolenza dell’aggressore.
Un lungo conflitto, segnato da date che marcano la storia della Modernità. Si pensi all’8 marzo, che al di là dei riti festosi delle mimose sta a commemorare l’ondata di scioperi e manifestazioni per laparità di dirittie per ilsuffragio universale che portava moltissimedonne nelle piazzedi tutto il mondo. In America unepisodio tragico marchiò in maniera indelebile il periodo: la morte di 123 operaie, non soccorse nel rogo della fabbrica Triangle a New York, il 25 marzo del 1911.
Idem per il Primo Maggio, che celebra, grazie a imponenti manifestazioni popolari, l’entrata in vigore negli Stati Uniti della prima legge sulle otto ore lavorative giornaliere; il 1 maggio 1867. La notizia giunse anche in Europa, dove all’inizio del settembre 1864 era nata a Londra l’Associazione internazionale dei lavoratori. E dove era ancora fortissimo il ricordo del cosiddetto “massacro di Peterloo” (nome creato dal quotidiano radicale Manchester Observer mixando St. Peter’s Field nei pressi di Manchester e Waterloo) il 16 agosto 1819. Si trattava del raduno di 60mila manifestanti per contestare le politiche governative, in particolare la legge a favore della speculazione alimentare contro i poveri Corn Laws. Manifestazione pacifica interrotta dalla carica del XV reggimento ussari che uccise undici persone e ne ferì seicento. Lo scandalo che ne seguì costrinse il governo a rinunciare alle azioni antipopolari e – in particolare – abrogare la malfamata Corn Laws.
Momenti topici per la conquista del ruolo di soggetto politico del lavoro, poi parte costituente di quel compromesso storico con il capitalismo tradotto in New Deal negli Stati Uniti e nel Welfare State europeo. Le più civili realizzazioni della storia occidentale.
Alcuni storici ritengono che quanto nato da un massacro è stato concluso da un altro massacro. Quando Margaret Thatcher scatenò il 18 giugno 1984 a Orgreave, nello Yorkshire, l’omonima battaglia per stroncare la resistenza dei minatori in sciopero da un anno. Scontro segnato dall’inaudita violenza della forza pubblica in assetto militare, che picchiò, arrestò, uccise due lavoratori e ne ferì migliaia. Il momento in cui l’egemonia neoliberista emarginò il lavoro organizzato e aprì la stagione della Gig economy; gli odierni lavoretti deregolati.
La fine di come eravamo, che va ricordata per tornare a pensare come dovremmo essere.
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La Liguria del lavoro: 1996, l’ultima occasione mancata
Il modello competitivo d’impresa che caratterizzò per tre quarti del secolo scorso il sistema ligure, basato sulla grande industria partecipata dallo Stato, entrò in crisi irreversibile nel corso degli anni Ottanta: una specializzazione competitiva centrata su siderurgia e cantieristica insidiata dal basso costo del lavoro nei Paesi di nuova industrializzazione.
Una sfida in larga misura mortale.
In occasione del Primo Maggio – festa del Lavoro in un territorio largamente deindustrializzato, quale il nostro attuale – può essere utile riflettere sulle opportunità che erano maturate in quegli stessi anni e che non vennero colte per insipienza manageriale e incapacità programmatoria della politica. E forse per qualche altra inconfessabile magagna.
Si pensi in primo luogo a Italimpianti-Iritecna (la società nata accorpando le società di engineering dell’IRI) presieduta dal professor Franco Bonelli. L’eminente civilista che così ne ricostruì la vicenda in un’intervista del 2001: “già allora, e in largo anticipo sui tempi, facevamo capitalismo della conoscenza. Un’attività tutta soft e niente hard in cui si fungeva da general contractor operando con modalità a rete, anticipando le catene del valore delle imprese transnazionali che oggi vengono portate a modello. L’azienda, le sue commesse se le andava a conquistare sui mercati mondiali. Certo, un’attività svolta in un ambiente che non ne percepiva la natura profondamente innovativa. Lo dimostra la vicenda sconfortante del suo smembramento – si era all’inizio del ’96 – quando venne venduta a tranches (a Fiat, Mannesman e Techint). Allora la valutazione fu fatta esclusivamente ai suoi irrisori valori immobiliari e la cessione avvenne per l’inezia di 60 miliardi”. Due cocomeri e un peperone, si potrebbe dire.
Di certo i cedenti non sapevano con chiarezza quale azienda d’avanguardia avessero in mano e quali processi imitativi avrebbe potuto indurre, mentre l’intera impresa Italia si avviava priva di modelli industriali verso il post-industriale, l’esperienza di chi già negli anni ’60 aveva progettato e realizzato l’impresa ciclopica della diga Kariba sul fiume Zambesi. Di certo non lo sapeva chi la presiedeva. Scelto secondo il costume locale dell’epoca tra i professionisti di fiducia del ceto politico. Quegli avvocati conoscitori del diritto e – magari – eccellenti negoziatori ma sprovvisti di visione strategica, come l’avvocato Beppe Pericu – insediato sindaco di Genova dal PCI di Burlando che aveva fatto fuori Adriano Sansa, in quanto primo cittadino avversario di qualsivoglia logica affaristica. Il Pericu che inaugurò la prima conferenza strategica del Comune dichiarando che Genova non aveva bisogno di strategia. Quella prospettiva che – a differenza del professor Bonelli e del sindaco Pericu – magari era nelle corde dell’AD Iritecna: l’ingegnere Alberto Lina. Guarda caso genero del Rocca patron del Gruppo Techint, un beneficiario dello spezzatino d’impresa pubblica.

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POSTA
Riceviamo dal professor Salvatore Turi Palidda, docente di sociologia in pensione a Scienza della Formazione:
Chi ha scritto il vostro pezzo: Toti e Bucci: invoca l’ordine e crea disordine non sa nulla di quello che scrive!!!
Bucci non ha affatto diminuito i fondi per le forze di polizia locale. Al contrario ha vergognosamente speso ingenti somme per reclutare nuovi agenti di polizia municipale a tal punto che le strade della città sono sempre piene di questi agenti che non si capisce che ci stanno a fare e i loro dirigenti pretendono mettersi in concorrenza con PS e CC distribuendo volantini per invitare a chiamare la polizia municipale in caso di furto e altri reati. Questo è di fatto una sorta di distrazione di fondi perché la polizia municipale dovrebbe occuparsi –senza bisogno di essere armata – di viabilità, annonaria, prevenzione e controllo per la tutela dell’ambiente, per evitare rischi sanitari e ambientali e contro le economie sommerse (lavoro semi nero e nero ecc.) e smaltimento illecito rifiuti … Non spetta alla polizia municipale la repressione di reati penali o la persecuzione di delinquenti ecc. Fraterni saluti prof. dr. Palidda
Il prof. Palidda mi accusa di non sapere ciò che scrivo in merito alle funzioni di polizia locale, che secondo lui dovrebbe occuparsi solo“…senza bisogno di essere armata, di viabilità, annonaria, prevenzione e controllo per la tutela dell’ambiente…(lavoro semi nero e nero ecc.) e smaltimento illecito rifiuti” Mi spiace deludere l’accademico, ma tali funzioni, di competenza regionale secondo la Costituzione, sono molteplici, tra cui (G.U. 92/21.4.98): “vigilare sull’osservanza delle leggi, regolamenti, ordinanze e altri provvedimenti amministrativi dello Stato, della Regione e degli Enti locali” e “…funzioni ausiliare di pubblica sicurezza”. Che poi questi poliziotti abbiano pistole, teaser o bolas è un altro discorso che mi vede contrario: vorrei il vigile di quartiere armato solo di fischietto. Nel mio articolo prendo solo atto che, visto che hanno anche funzioni di “polizia”, che almeno le esercitino quando serve. Carlo A. Martigli
FATTI DI LIGURIA
L’Euroflora invade i parchi di Nervi
Là Ceppaia, cioè quel che resta dell’unico esemplare di vera Canfora nera, potevamo ammirarlo nel parco di Nervi. Era un albero pluri-centenario. Le altre canfore presenti nei parchi sono esemplari di falsa Canfora. E non è che l’ultimo caso di alberi abbattuti a Parco chiuso. Fossero state esigenze vere, l’Aster sarebbe intervenuta al momento necessario e a parchi aperti. Assurdo che una manifestazione come Euroflora sia la scusa per eliminare nei parchi di Nervi essenze rare e preziose, per allargare parcheggi e zone espositive. Quando Euroflora se ne andrà non sarà piantato neanche un albero in più, ma avremo tutti i prati distrutti da arare per togliere il compattamento del terreno e da riseminare. Per inciso, l’ultima Euroflora era pure in perdita economica.
Un parco pubblico – cioè tutto di tutti per tutto l’anno – viene utilizzato gratis da una Spa di diritto privato (anche se di proprietà pubblica), danneggiandolo gravemente, allo scopo di scatenare per soli 15 giorni l’orgia di un’inutile turismo mordi e fuggi e le vendite dei negozi circostanti usando le tasse di tutti noi. La UE lo chiamerebbe aiuto di Stato. Una gestione saggia e lungimirante dei parchi storici genovesi attirerebbe un turismo compatibile e consapevole praticamente tutto l’anno, invece che un’orgia di 300.000 persone in 15 giorni che arrivano al mattino e se ne vanno la sera come le cavallette.
Se i musei funzionassero, le due palestrine ospiterebbero continue mostre tematiche speciali e transitorie e non sarebbero dei vuoti abbandonati da anni, da dare in concessione a qualcuno per togliersi il problema
Se il Comune avesse una programmazione del territorio con una visione di insieme complessiva ed organica, attenta ai bisogni dei cittadini, trasformerebbe il parcheggio della stazione in campi sportivi e palestre e locali per attività sociali e culturali; magari anche in un teatro dei parchi dove ospitare tutto l’anno spettacoli cinema e balletti senza rovinare i parchi. Facendo così eliminerebbero finalmente gli ingorghi traffico e inquinamento nel centro di Nervi… Vogliamo una nervi green e non una Nervi al green!
Aggiungiamo una piccola notazione su Euroflora: viene sottratta alle attività sociali sportive anche la palestra (chiamata palestrina). E non si sa in quali condizioni verrà restituita.
Circolo Nuova Ecologia
Andrea Moizo da shippingitaly.it
Il supervisore della nuova diga del porto di Genova si dimette
In attesa che il Ministero della Transizione Ecologica rilasci l’annunciato decreto di Via al progetto di fattibilità tecnica ed economica della nuova diga foranea del porto di Genova, sbloccando la più importante opera portuale italiana, cavallo di battaglia del sindaco Marco Bucci (commissario per il piano delle opere straordinarie del porto in cui rientra la diga) e della stazione appaltante, l’Autorità di Sistema Portuale presieduta da Paolo Signorini, si abbatte una doccia gelata: una relazione di 32 pagine in cui Piero Silva ha messo in fila le ragioni per cui a marzo si è dimesso per evidenti ragioni etico-deontologiche dall’incarico di direttore tecnico che, in ragione dei suoi 41 anni di esperienza da ingegnere idraulico e marittimo in giro per il mondo, gli era stato assegnato da Rina Consulting, aggiudicataria dell’appalto da 19 milioni di euro per il Pmc (Project Management Consulting) dell’opera (aggiudicazione annullata dal Tar e oggetto di appello in discussione a luglio). La cui prima fase (peraltro proprio un paio di giorni fa riaggiudicata a Rina Consulting dalla locale Autorità di sistema portuale col placet di Progetti Europa & Global, la ricorrente che ha ottenuto l’annullamento) consiste proprio nel predisporre, la documentazione per il bando integrato per progetto definitivo, esecutivo e i lavori. Silva spiega che le dimissioni sono state una scelta inevitabile, “verificata l’impossibilità di modificare significativamente il progetto del Pfte (Progetto di fattibilità tecnico-economica), in cui non credo”. Le criticità individuate sono molteplici, dalla scelta del doppio canale alla “lunghezza della diga largamente sopra-dimensionata”, e comportano “problemi di fattibilità tecnica” a causa delle dimensioni fuori da ogni standard. Ma da un punto di vista tecnico preoccupano Silva anche “l’importanza dei volumi di rocce da cava necessari per creare l’imbasamento, nonché la logistica per il loro trasporto e versamento in sito”, dato che gli 11 milioni di tonnellate di rocce in questione arriveranno per lo più via mare e saranno stoccate (secondo il Pfte) su una porzione del terminal Psa di Pra’, con evidenti ricadute sull’accessibilità e sull’operatività dello scalo.
Con l’ulteriore enorme problema che i “sondaggi geotecnici hanno messo in luce la presenza di uno strato superficiale di limo argilloso, avente consistenza in pratica nulla e spessori variabili dai 5 ai 25 metri”. Cioè meno appropriati per il consolidamento dell’opera: “Applicare una tecnologia molto delicata e sperimentata a grande scala su fondali dell’ordine dei 30 metri a fondali di 20 metri più profondi, necessiterà la progettazione e la costruzione di macchinari speciali differenti, e non c’è attualmente alcuna garanzia sulla fattibilità tecnica – in costi e tempi ragionevoli – di tale operazione”. Come detto le alternative tecniche esisterebbero, ma sono state scartate, anche perché l’iter burocratico, compresa la Via, è ormai stato istruito. Da qui la constatazione che per la diga (prima fase) ci vorranno “ottimisticamente 1.700 milioni di euro (e non i 950 previsti) e 132 mesi (e non 60)”, ma “tenendo conto che è in pratica impossibile che tutto fili liscio in un progetto di tali dimensioni, ritengo che – posto e non concesso che il consolidamento geotecnico si riveli fattibile – ci vorranno almeno 2 miliardi di euro e 15 anni di lavori”.
Le perplessità di Silva sono agli atti e, secondo quanto si è potuto apprendere, conosciute da Bucci e Signorini, ma le sue dimissioni fanno pensare che tornare indietro sia ormai quasi impossibile.
Porto di Savona: un grande futuro dietro le spalle
Nella Liguria la cui principale industria è quella portuale in tre provincie su quattro, l’andamento dei traffici marittimi dovrebbe essere il primo dato da tenere sotto osservazione. Soprattutto perché le tendenze logistiche sono in costante evoluzione nel perenne ridisegno geo-economico. Dunque, minacce fuori dal controllo territoriale, come la banalizzazione delle operazioni portuali pur in presenza di aumenti nei volumi, o la stretta interdipendenza tra waterfront e interland, per cui i containers provenienti dal Far East vanno verso i porti con un importante retroterra industriale che assicuri di farli viaggiare a pieno carico nei due sensi (e questo non è il caso del sistema produttivo lombardo in accelerata deindustrializzazione, quanto prevalente nella supply chain genovese). Ciò nonostante ci sono interventi regolativi, organizzativi e promozionali consentiti alle politiche di territorio. Ed è un guaio quando sono palesemente male indirizzati come la riforma portuale del 2016, che porta il nome dell’allora ministro Graziano Del Rio. Di cui la situazione savonese è la più lampante riprova. Lo scalo che dal 1996 era entrato in una fase di incessante sviluppo, anche per la scoperta della vocazione a homeport delle crociere, e ora presenta risultati di segno negativo: -7,3% per il traffico commerciale nel comprensorio Savona-Vado e -91,5% per la crocieristica (indubbiamente attribuibile anche al Covid). Fatto sta, gli operatori marittimi denunciano sottovoce il fatto che l’attuale accorpamento tra Genova e Savona, baricentrato sul capoluogo regionale, ha largamente marginalizzato l’altro scalo, azzerandone la capacità strategica e di risposta alle sfide del mercato. Dunque, un intervento di presunta razionalizzazione – quello Del Rio – gravemente lesivo del buon funzionamento del soggetto di autogoverno – la Port Authority – nella misura in cui silenzia la voce delle rappresentanze locali, creando un asse verticistico ad alto grado di subalternità tra il presidente dell’Ente e il ministro che lo ha nominato (nel caso genovese la subalternità del presidente Signorini è anche nei confronti del sindaco Marco Bucci, in campagna elettorale per la rielezione). Il tutto alla ricerca di una presunta efficienza in linea con la perniciosa idea di statualità perseguita dal governo di cui Del Rio era parte; poi confermata dall’impostazione del progetto di riforma istituzionale Boschi-Renzi – respinto dal referendum del 4 dicembre di quello stesso anno – in cui si pretendeva di governare la complessità attraverso la puerile semplificazione dell’uomo solo al comando (o della sfoltitura dei contrappesi di bilanciamento decisionale, come nella perseguita abrogazione del Senato o delle Provincie). Il mito retrogrado del dictator che decide al meglio, in fretta e senza impicci (contro qualunque teoria organizzativa moderna); modello arcaico, che se non funzionava per la riforma della scuola, a maggior ragione risulta devastante nella gestione dei flussi di traffico. Stante che non sono certo i porti a imporre alle merci i percorsi da privilegiare. Mentre – sempre in base a quanto sussurrano gli operatori del settore – la fusione tra Spezia e Carrara che sembra funzionare (ripartizione di ruoli, con il porto ligure che si concentra su container e crociere mentre quello toscano sulle rinfuse) dipende non da coordinamenti di vertice, ma da irrituali negoziazioni informali che nascono da iniziative di territorio. Come volevasi dimostrare. PFP
Un libro, una testimonianza antifascista
Roberta Canu: “Non sapevo neppure il suo nome: un inno alla memoria” (Albatros)
È in apparenza scanzonato, il protagonista del libro di Roberta Canu, Osvaldo Longhi, suo nonno. Come può esserlo un uomo che ha sopportato esperienze estreme, dalle privazioni più elementari, come il cibo e l’acqua, alla libertà. Lo è come una persona che è stata in pericolo di vita per una mira di espansione che non condivideva, lui proveniente da una famiglia comunista, libera e anarchica. È scanzonato, come un uomo costretto a sopportare di tutto, dalla guerra in prima persona in Africa, tra caldo, insetti, sudore, fatica, alla sua stessa deportazione per lavoro coatto in Germania. Lo è come chi ha visto l’orrore della guerra, l’assurdità delle morti dei commilitoni, così come quelle degli Africani. Lo è come chi, allestendo il campo in Africa, ha visto spuntare dalla terra i piedi di cadaveri o altri cadaveri di soldati, marcire nelle pozzanghere dalle quali andava ad attingere acqua da bere. Lo è come chi, dal dolore devastante, non può che trovare un’unica consolazione: l’ironia. E di ironia Osvaldo ne ha proprio tanta, perché se è vero che le esperienze formano, è la mediazione tra ciò che si è sopportato, la propria indole, la sensibilità e l’intelligenza, che si giunge alla formazione di un uomo nuovo. Si può ritenere che quell’apparire scanzonato, derivasse anche da un meccanismo di difesa, necessario a staccarsi dagli orrori vissuti, così da riuscire a parlarne come un racconto che sembrava quasi non coinvolgerlo, per non dover soffrire ogni volta, rivivendoli. Osvaldo era ribelle, coraggioso e insofferente alle regole. Ma era anche generoso, come quando si ostinò a salvare quel giovane medico che stremato dalla fatica, appoggiato a un albero voleva essere lasciato nella foresta a morire. Se Osvaldo avesse eseguito gli ordini, avrebbe dovuto abbandonarlo, ma non poteva consentirlo: gli cedette la sua acqua, che equivaleva a rischiare la vita, se lo caricò in spalla ed entrambi ne uscirono vivi! Come definire un uomo simile, se non un Giusto? Nel 1939 Mussolini gli conferì la Croce al merito di guerra, magra “consolazione” per un pacifico antifascista, che della guerra avrebbe fatto molto volentieri a meno! Non tutti però, ebbero in famiglia la stessa sua fortuna: un fratello partigiano, Aleandro, fu torturato e ucciso dai fascisti. Significative le lettere che scrisse alla madre. Un altro fratello, impazzì a causa dei traumi subìti in 7 anni di guerra, combattuta tra Africa e Albania.
È un libro-testimonianza delle atrocità e dell’inutilità della guerra, perpetrata ai danni dei più deboli per risolvere interessi e controversie dei potenti, come l’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, e delle oltre 30 guerre in corso nel mondo. I soprusi, le atrocità, le mire imperialistiche, le ingiustizie, il male dell’uomo sull’uomo, sono i principali demoni da sconfiggere, se vogliamo raggiungere un grado di civiltà tale, che un individuo abbia il proprio posto in un mondo giusto. Non è utopistico immaginare un mondo di pace e di eguali, è questione di volontà: va costruito ogni giorno nelle azioni di ognuno; le stesse che dovrebbero fare proprie coloro che hanno la responsabilità del potere. Il passato deve insegnarci a preservare quei valori antifascisti fondamentali della democrazia per i quali, così come Aleandro Longhi (medaglia d’argento alla memoria al valor militare per la Resistenza), in tanti, hanno dato la vita. Ricordare dovrebbe servire a far in modo che gli sbagli non si ripetano, perché nessun uomo debba più soffrire per cause ingiuste. E la giustizia si fa anche con la memoria, collocando al posto giusto coloro che ne sono stati i protagonisti. Floriana Mastandrea
Chi se ne frega dei disabili? Trenitalia e non solo
Ancora una volta Genova è balzata ai tristi onori della cronaca nazionale. Per quell’assurdo e vergognoso episodio dei ventisette disabili alla stazione Principe cui è stato impedito di salire sul treno per Milano. Nonostante avessero la carrozza ad hoc prenotata. I fatti in breve: Trenitalia, sostituisce a Savona dei vagoni vandalizzati, e fa casino, evidentemente. Perché pare manchi una carrozza e siamo nel caos di Pasqua. A quel punto i ragazzi disabili trovano la carrozza occupata da altri passeggeri che nonostante l’intervento dei controllori (e pare dopo della Polfer) non lasciano la carrozza. Inefficienza di Trenitalia come minimo: fanno scendere l’immigrato senza biglietto (per carità, giustamente, la legge è legge, anche se la giustizia è cosa diversa), ma lasciano stare il turista ignorante e senza diritto a occupare abusivamente il posto prenotato da altri. E che altri, persone disabili. Esaminiamo il fatto con le colpe e le responsabilità che sono più che evidenti: in primis quelle a carico dei passeggeri abusivi, maleducati, insensibili e arroganti. Un giudice della common law comminerebbe loro un mese di assistenza a qualche centro per disabili per imparare a vivere. In secundis, l’altra responsabilità colposa va a carico degli imbelli controllori che non si sono fatti valere o non hanno voluto farlo. E non mi risulta che i passeggeri fossero la squadra di hockey americana (extracomunitari, comunque) i cui giocatori sono alti un metro e novanta per cento chili di peso. La domanda tuttavia che mi sono posto è perché l’episodio è successo. Credo che ogni lettore di questa rubrica, pur protestando con il personale ferroviario per aver distratto una carrozza ed essendo costretto a un eventuale viaggio in piedi, avrebbe lasciato la carrozza ai ragazzi disabili. Perché era giusto e perché risultavano la parte più debole, senza tanti rigiri di parole o eufemismi. Ma i lettori di questa rubrica sono gente che pensa, che ha, pur nelle varietà di pensieri e opinioni, una certa idea della vita: esagerando, una certa filosofia di vita. Invece oggi sembra vincente il pensiero arrogante, il pensiero prima io e gli italiani, il pensiero io sono più forte, il pensiero anti-solidale, il pensiero egoista, il pensiero del vincitore sono io e guai ai vinti. E’ quello che domina in Liguria, perché, anche qui senza tanti rigiri di parole, domina la destra becera, il fascio più o meno nascosto, quello dei calci in culo agli accattoni (Farassino) e delle celebrazioni del ventennio nei cimiteri coperte dalle istituzioni. Il potere del muscolo sotto il quale il cervello e i sentimenti sono soffocati quando sono assenti fin dalla nascita. Da qui probabilmente da parte dei passeggeri senza ritegno l’esempio e l’imitazione (non di Cristo, manifesto medievale del buon Cristiano, forse di Jean Gerson) del potere arrogante, che si vede in tv nelle tronfie dichiarazioni di certi nostri amministratori, nei sorrisini di condiscendenza nei confronti della voce (purtroppo flebile) dell’opposizione. In sostanza, avranno pensato, se lo fanno loro, e restano impuniti, perché non farlo anch’io? CAM
La costiera amalfitana chiama. Albenga e San Remo rispondono?
Mentre crescono le preoccupazioni per le più che probabili carestie energetiche prossime venture che dovremo affrontare (e già ora il caro bollette toglie il sonno a tante famiglie italiane), apprendiamo notizie che lasciano assolutamente basiti. Se è vero che è proprio il ritardo nella transizione energetica verso le rinnovabili a causare questi rincari, va sottolineato come a frenare la decarbonizzazione ci siano sia la burocrazia che il sistema normativo, nell’evidente disallineamento tra istituzioni centrali e territoriali. Basti prendere atto di come il 91% dei nuovi progetti eolici attenda almeno cinque anni per ottenere l’autorizzazione. Tutto questo mentre nelle ultime settimane abbiamo assistito a un prezzo dell’energia elettrica prodotta con il gas molto oltre i 200 €/MWh. Nello stesso periodo i nuovi impianti rinnovabili si sono impegnati a vendere per venti anni l’elettricità a 65 €/MWh, quasi un quarto rispetto al prezzo all’ingrosso. Purtroppo nel 2022 l’Italia produrrà solo il 40% dell’energia elettrica con le rinnovabili e si stima che pagheremo una bolletta elettrica di 95 miliardi di euro, più del doppio rispetto ai 44 miliardi di quella 2019. Mentre entro il 2030 l’Italia produrrà il 72% dell’elettricità con le rinnovabili. Se avessimo già ora raggiunto questa quota, nonostante l’enorme aumento del gas, la bolletta 2022 sarebbe sostanzialmente pari a quella 2019, con un risparmio di 50 miliardi. Va comunque detto che il quadro è in movimento e quanto emerge è uno scenario a pelle di leopardo. Con ritardi, ma anche con iniziative d’avanguardia che colgono al meglio e in anticipo le opportunità dell’innovazione in campo energetico.
Il noto economista Tito Boeri ci invita a prestare molta attenzione a quanto è in corso di realizzazione nell’area campana, con particolare attenzione alla costiera amalfitana. Qualcosa che dovrebbe interessare particolarmente gli ortofrutticoltori del nostro Ponente.
Il fatto che sia diventata una regione virtuosa da questo punto di vista lo dimostrano alcune rilevazioni nel settore: stando ai dati raccolti, il 30% dei consumi elettrici in Campania verrebbe attualmente soddisfatto proprio dalle fonti green e, in particolar modo, dal fotovoltaico. A fare la parte del leone nel settore delle rinnovabili è l’energia solare, che rappresenta oltre il 97% degli impianti presenti. Il restante 3% dell’ammontare energetico viene coperto dal settore eolico, idroelettrico e dagli impianti a biomassa. Sicché In soli otto anni, la Campania è riuscita a raddoppiare la produzione di energia green. L’aspetto di questo vasto processo che – come si diceva – dovrebbe attivare le antenne degli amici della piana di Albenga e di San Remo, è il fatto che questa evoluzione in materia energetica ha comportato l’installazione delle rinnovabili in buona parte delle serre amalfitane. Un cambiamento che assicura duplici vantaggi: l’abbattimento dei costi di riscaldamento e la possibilità, nei mesi in cui l’utilizzo a scopo termico non risulta necessario, di rivendere l’energia accumulata sul mercato. Un precedente su cui dovrebbero riflettere gli operatori nel settore agricolo della nostra regione e le loro associazioni. PFP
In previsione delle prossime elezioni amministrative a Chiavari, Genova e La Spezia pubblichiamo, dopo Antonella Marras, Maura Galli e Carla Scarsi, l’intervento di Monica Lanfranco sul tema “una politica al femminile”.
Si può desiderare un governo di lei?
Meglio sottosegretarie piuttosto che nulla? Oppure è più efficace costituirsi in una corrente dentro ai partiti? Magari fondarne uno, di partito? Ma con chi? E poi come chiamarlo: femminista, femminile, delle donne? Che gigantesca fatica essere femmine, che immane fortuna essere maschi, in questo caso. Loro non devono farsi domande perché è ovvio che gli uomini in politica ci siano sempre, e da sempre, in ogni governo, ed è altresì ovvio che siano la stragrande maggioranza della rappresentanza istituzionale ad ogni latitudine.
Sgombriamo però subito il campo da un equivoco, generato da uno stereotipo: nonostante le pur grandi differenze all’interno del femminismo non conosco attiviste che vogliano soltanto donne al governo. L’attivismo femminista ha sempre considerato prioritaria la visione, il cambio di passo rispetto al senso della politica, intesa come polis e quindi come luogo dove si progetta la convivenza tra gli esseri umani sul pianeta. Non a caso l’eco-femminismo considera la terra un organismo vivente: il grande e fragile corpo di Gaia, tanto cara alla giovane Greta e a parte della sua generazione. Non è un caso che tutti gli appelli pensati dalle associazioni e dai gruppi femministi in Italia tendano a sottolineare che la rappresentanza politica femminile non si può ridurre al concetto di pari opportunità. “Le pari opportunità, misurate sul filo di risibili quote rosa, sono una piccola concessione mirata ad aggiustamenti che nulla hanno a che vedere con la dimensione tragica causata dalla volontà di mantenere in posizione di sudditanza l’intera popolazione mondiale delle donne” – sottolineava qualche anno fa una nota di Udi e di Rete per la parità, quando insieme ad altre associazioni chiedevano “che si tenga conto che l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo sostenibile ha inserito tra i 17 obiettivi da perseguire per il futuro dell’umanità, l’obiettivo 5 parità di genere per la consapevolezza, ormai acquisita a livello mondiale, che senza parità uomo/donna non c’è rispetto per l’ambiente”.
In Europa il sogno del partito femminista, addirittura di una rete di partiti femministi, lo ha sognato e in parte realizzato, pur se per poco, la Svezia: nel 2014 Soraya Post, statuaria e socievole attivista di origine rom, fu eletta al Parlamento Europeo dal partito Feminist Initiative.
Per l’Italia suona come un film di fantascienza: eppure sono stati cinque anni straordinari, quelli dal 2014 al 2019, durante i quali Soraya Post ha girato l’Europa provando a radunare idee ed energie allo scopo di costruire una rete che, se le cose fossero andare diversamente, avrebbe potuto vedere in altri paesi europei la nascita di formazioni simili, o il loro consolidamento, come ad esempio in Spagna, Finlandia e Germania.
Invece la sconfitta di FI in Svezia insieme alla non rielezione di Post a causa della drammatica svolta sovranista nell’eurozona hanno interrotto quel sogno. In Italia un piccolo gruppo di attiviste ha iniziato a ragionare sull’esperienza svedese. L’associazione Iniziativa femminista hapreso spunto da un testo forse sconosciuto alle generazioni più giovani per disegnare un progetto politico di respiro più largo: l’ipotesi di un governo di lei. Il libro si chiama infatti Terra di lei, ed è stato scritto nel 1915 dalla sociologa e utopista statunitense Charlotte Perkins Gilman.
Capace di sottile umorismo nel guardare all’ottusità dei maschi del suo tempo Perkins Gilman racconta di un paese governato dalle donne, che i viaggiatori maschi giunti in quella ‘strana’ terra non riescono proprio a concepire: uno sconcerto che, a oltre cento anni di distanza, non è ancora finito, visto come vanno le cose nella politica italiana. Eppure. Eppure un governo di lei sarebbe possibile, se solo si mettessero in fila le centinaia di nomi femminili di ogni età in grado di offrire soluzioni ai problemi del paese, subito e in tutti i campi del sapere. Sarebbe già un bel passo avanti se, come hanno fatto in Svezia, si potesse sognare di essere femministe, di avere un partito femminista, e che pure gli uomini lo votassero, perché un governo di lei potesse vedere la luce. Monica Lanfranco
Il tema delle nuove forme del lavoro riguarda particolarmente i nostri giovani alla ricerca di occupazione. Per gentile concessione dell’editore Aragno pubblichiamo questo stralcio del volume “Dialogo sopra i massimi sistemi d’impresa” di recentissima pubblicazione.
Non chiamatelo smart working
Essere costretti dalle circostanze a lavorare in casa, senza averlo richiesto né concordato, ha ben poco di smart (“intelligente”). Semmai è vero il contrario. Se vogliamo rendere il lavoro più intelligente dobbiamo domandarci di quale lavoro stiamo parlando. Semplificando, possiamo riconoscere almeno tre categorie di lavoro. C’è il lavoro organizzato, che trova il suo senso solo all’interno di un’organizzazione; che finisce per rispecchiarsi in un luogo fisico (la fabbrica, l’ufficio, il cantiere, la redazione di un giornale, il call center). C’è poi il lavoro di coloro che operano in proprio: artigiani e liberi professionisti. Comunque esterno a ogni circuito organizzativo. Infine il lavoro della cosiddetta gig economy, ossia quello a chiamata, occasionale e temporaneo. Mondo caratterizzato non solo da scarse garanzie contrattuali, ma anche da una conflittualità che fatica a esprimersi. Peraltro trovo irrispettosa l’espressione gig economy, che allude a qualcosa di poco impegnativo. Più guardo i rider percorrere giorno e notte le strade della città, più cose apprendo sul modo in cui sono trattati e sulle retribuzioni, più mi convinco che il loro è tutt’altro che un lavoretto.
Ebbene, il primo di questi tre mondi ha l’opportunità di svincolarsi dall’ambigua pubblicistica dello smart working e approfittare della crisi per immaginare modi di lavorare più intelligenti, per i singoli e per le organizzazioni. Sembra più difficile che ciò possa avvenire per la seconda e la terza categoria di lavoro. Il punto è che la dimensione organizzativa e quella relativa al luogo – un luogo che deve essere fisico – costituiscono aspetti necessari allo scopo. Sono la premessa perché si possa immaginare un uso intelligente delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con l’obiettivo di liberare il lavoro. Liberarlo e non solo “efficientarlo”. L’occasione che abbiamo, con il digitale, di offrire nuovi strumenti per la definizione del senso cui, individualmente e collettivamente, l’esperienza lavorativa contribuisce, e non solo per accrescere il valore dei processi e aumentare la ricchezza prodotta. Sapendo che il digitale è cultura, non tecnologia: cultura codificata per essere veicolata attraverso il computer. O si innesta in un’organizzazione e in un luogo esistenti, nei quali la comunità già si riconosce, contribuendo a trasformarli, oppure il digitale sovrappone il vuoto al vuoto. Simboli e relazioni inesistenti non si possono neppure remotizzare, come invece qualcuno si illude di fare. Si possono solo rimuovere. Il lavoro ha bisogno di un luogo per costruire senso perché è proprio nel luogo – identificabile fisicamente, non virtualizzato – che si sviluppano relazioni di tipo dialogico. Da questo negoziato nasce, all’interno dell’organizzazione, il senso dello stare insieme finalizzato (che non significa amarsi, né condividere le stesse idee). Che tale luogo debba essere fisico dipende dalla natura dei nostri processi cognitivi; nel come definiamo la nostra identità sociale e costruiamo la nostra memoria autobiografica.
Lo smart working inteso come sostituzione della relazione in presenza è davvero poco smart. Se invece lo si immagina come alternanza ragionata di momenti fisici e virtuali, non solo diventa un modello efficace, ma può addirittura contribuire a superare certe disfunzionalità della comunicazione organizzativa in presenza. Paolo Costa
Costantini, o le illusioni perdute
Lo storico Claudio Costantini è morto nel 2009, di maggio. Vuole ora ricordarlo Archimovi, l’Associazione per un Archivio dei Movimenti, nata a Genova lo stesso anno, con l’obiettivo di raccogliere fondi documentari e materiale grafico prodotti da movimenti politici e sociali a Genova e in Liguria dagli anni ’60 in avanti.
È stato – quello – un periodo cruciale in un territorio a ragione considerato un polo dello sviluppo italiano del Novecento: sviluppo politico, industriale, sociale, economico. Non può essere che malinconico il raffronto tra quegli anni – anche tragici, ma sempre segnati da una impetuosa, contraddittoria vitalità – e la condizione in cui versa oggi la nostra regione invecchiata, impoverita, litigiosa, ridotta ai margini della vita politica, culturale ed economica del Paese.
Claudio Costantini è stato uno dei grandi protagonisti di quel periodo, come storico, attivista politico, poligrafo: testimone di una città – Genova – che sapeva resistere, protestare, riempire le piazze, impedire il ritorno dei vecchi e nuovi fascismi.
Opportuna è quindi l’iniziativa di Archimovi, che sta raccogliendo vari contributi di allievi, amici e compagni, destinati a formare un volume – il primo dei Quaderni di Archimovi – la cui uscita è prevista per il luglio di quest’anno.
Nell’occasione, è stato diffuso un testo di Costantini, indirizzato agli amici nel 1990, ‘Lettera ai compagni’, poi pubblicato nel 1994 col titolo di ‘Eguali’ in una delle sue ‘Lettere di storia, politica e varia umanità’ di cui era redattore, legatore, editore, distributore.
‘Eguali’ si apre con la constatazione che nel 1989 si poteva considerare ‘…finita la guerra fredda e forse chiusa per davvero l’epoca delle Grandi Guerre cominciata nella lontana estate del 1914’. M da allora – continuava Costantini con l’amara capacità di vedere al di là dell’immediato – ‘… la pace, una pace stabile, sempre promessa e sempre rinviata, è stata per antonomasia la Grande Illusione’.
La disfatta del comunismo – o di quello che si è inteso per tale – segna anch’essa la fine di un’altra Grande Illusione. Grande Illusione la pace, Grande Illusione il comunismo.
La Genova di Costantini era quella del 1960, dei fatti d Piazza De Ferrari, finalmente conquistata dal popolo, quella in cui, nell’anno successivo, proprio il gruppo di Costantini faceva uscire i tre numeri di ‘Democrazia diretta’. Il mondo nuovo che emergeva da quella rivista, la cui esistenza fu troppo breve, manifestava una vitalità, una effervescenza politica e culturale della città, che sarà difficile ritrovare in seguito. L’irrompere della piazza – subito soffocato dal Partito – segnava una stagione di inaspettate speranze, che univano studenti, intellettuali e anche operai, alcuni dei quali parteciparono alla redazione della rivista. Tra i collaboratori genovesi erano – oltre a Costantini – Bianco, Boccardo, Faina, Grendi, il ‘camallo’ Delucchi.
Esperienza anomala e preoccupante quella di ‘Democrazia diretta’, che non piacque al Partito, il quale ne decretò la fine prematura, come l’iniziativa di alcuni giovani indisciplinati, appartenenti a una generazione non più ‘resistenziale’, aperta alle diverse esperienze del socialismo europeo, là dove si preannunciava per il PCI un lungo, interminabile inverno.
Salutiamo dunque con favore e rinnovata speranza – le Illusioni non tramontano mai – il ritorno promosso da Archinovi a Claudio Costantini, ai sui compagni, ai suoi allievi genovesi e, perché no, a una nuova stagione di ‘democrazia diretta’. MM
Dura a Genova la vita del disabile!
Non è davvero facile essere disabili a Genova.
A parte alcune frettolose gettatine di cemento sui marciapiedi, a parte il fiorire – spesso non disinteressato – di parcheggi riservati, a parte la totale assenza di scale mobili o montascale nella maggior parte degli uffici e dei locali pubblici, l’amministrazione della città più vecchia d’Italia ( che verso i propri vecchi e i loro disagi ‘motòri’ dovrebbe mostrare riconoscenza e sollecitudine ) sembra piuttosto orientata se non alla loro soppressione, a rendere difficile la vita quotidiana dei più deboli. Li si preferisce – i disabili – chiusi entro la loro disabilità, affidati alla burocrazia o alla pubblica assistenza, ricoverati in appositi istituti: trattati comunque come un peso per la collettività e non come una preziosa risorsa.
Tuttavia, a partire dagli anni ottanta, l’attenzione verso i disabili (o ‘diversamente abili’) ha portato – nel Canada, nei paesi del Nord, ma anche in Francia, Cina, Giappone) alla creazione della figura del disabiliy manager. Non si tratta di una figura essenzialmente ‘tecnica’, ma di un soggetto istituzionale capace di vegliare e intervenire nei processi di inserimento, facilitazione, valorizzazione del disabile su un dato territorio: dalla formazione alla sicurezza, alla logistica, all’attuazione concreta nei suoi confronti dei principi costituzionali di eguale dignità e non discriminazione. Benché prevista dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, l’attuazione nel nostro Paese di questo elementare principio di civiltà ha incontrato e ancora incontra ostilità, indifferenza, ipocrisia. Non mancano fortunatamente gli esempi italiani. Esiste una Società Italiana Disability Manager. È istituito presso l’università Cattolica di Milano un corso di perfezionamento post-laurea per disability manager. Se ne sono dotati alcuni comuni: Bologna e Alessandria; ospedali, aziende USL, qualche azienda privata (Unicredit, Tim, IBM). E Genova? Abbastanza tipicamente, Genova non ha voluto essere tacciata di insensibilità e arretratezza: no, anche il comune – udite, udite! – ha istituito la figura del (‘della’, nella specie) disability manager.
Nel 2017, l’Ufficio Stampa del comune ha annunciato che la Giunta aveva deliberato l’istituzione della figura del disability manager,’figura di garanzia, coordinamento e promozione di iniziative innovative in tema di disabilità’. Ad assumere il prestigioso incarico – ‘ a titolo completamente gratuito’ – è stata chiamata l’architetto Cristina Bellingeri, ex assessore al sociale e scuola nel comune di Savona. Quello stesso comune – si legge sulla stampa locale – presso il quale l’esperienza della Bellingeri era stata ‘assai sfortunata’, tanto da indurre la sindaca Caprioglio, col benestare di tutti i partiti del centrodestra, a farla dimettere per sostituirla con un nuovo assessore. L’architetto tornava ora sulla scena pubblica grazie alla nomina del comune di Genova, ‘a titolo completamente gratuito’. La gratuità, si sa, è spesso sinonimo, più che di generosa disponibilità, di scarso rilievo della funzione attribuita. Confidiamo però che tra i compiti attribuiti all’architetto Bellingeri sia stato anche quello di riferire periodicamente sulle attività svolte, sulle risorse di cui il suo ufficio può disporre, sullo stato complessivo della disabilità nel nostro comune. Nella specie, a giudicare dalla situazione in cui versano i disabili a Genova, non sembra che molto sia cambiato, almeno in meglio: a parte alcuni convegni in cui ci si è spesi molto – a parole – su di un tema, e un problema tanto serio e importante per la nostra comunità. MM
La nostra rubrica Civic Journalism prosegue con un altro caso di bene pubblico dissipato, nella totale indifferenza del civismo e dell’interesse collettivo, spostandosi nel Chiavarese
La Colonia Fara: una meraviglia vista mare svenduta alla speculazione
In molte occasioni può capitare di guardare un edificio, molto spesso d’architettura storica, cadente o abbandonato, e incuriositi ci chiediamo a chi appartenga. L’apprendere che si tratta di un bene pubblico ci lascia desolati. La reazione, in tali circostanze, è di un ragionamento immediato, spesso amaro: perché un bene comune non è valorizzato e reso usufruibile dalla collettività? Questo è un vero caso nazionale, una prova dell’incapacità di saper trovare idee e soluzioni ad un patrimonio immenso, capace di produrre nuove economie culturali valorizzando e utilizzando tali beni. Nella città di Chiavari abbiamo un esempio esemplare: la Colonia Marina Gustavo Fara. L’edificio, raro esempio d’architettura futurista, progetto dell’architetto Nardi Greco, è eretto dal Fascio Genovese nel 1936; per realizzarlo sarà il podestà Tappani a predisporre, con un’apposita delibera, l’area attigua al Cantiere Gotuzzo: uno spettacolare terrazzo di fronte al mare del Tigullio. Nella primavera del 1938 sarà Benito Mussolini in persona ad inaugurare l’avveniristico edificio, un grattacielo con grandi camerate per ospitare i figli dei coloni libici. Saranno solo due i gruppi di giovani “balilla” ospitati nella colonia, il personaggio al quale è intitolata fu capo dello squadrismo genovese e “fascista della prima ora”. Già nel 1940 la prima trasformazione: la guerra chiede ospedali e la Croce Rossa Militare ne acquisisce l’intero edificio, sarà così sino alla fine del conflitto. Terminata la guerra iniziano molteplici riusi: gli Alleati trovarono un punto d’accoglienza prima del rientro nei rispettivi paesi; poi sarà la volta di un Centro Raccolta Profughi per gli italiani delle provincie iugoslave; poi un primo lungo periodo d’abbandono. Siamo negli anni Sessanta, l’edificio è ancora proprietà dell’Ente Fascista Gioventù del Littorio. Dovremo attendere gli anni Settanta, quando una legge abolirà gli “Enti Inutili”. Ma qui il primo scandalo: durante la fase di liquidazione viene venduto l’edificio attiguo alla Colonia: un architettonico cinema davanti al mare. Sarà il privato proprietario del cantiere navale ad acquisirlo. Poi l’intero edificio è trasformato in un Centro Internazionale Turistico, funziona benissimo, prezzi popolari molte comitive di giovani, sarà chiuso durante la liquidazione dell’ente proprietario. Ora è di pertinenza regionale, siamo nei primi anni Settanta, la Regione lo passa al comune di Chiavari, dopo qualche anno d’abbandono si tenta un utilizzo parziale: il piano terra e il primo elevato per una sperimentale scuola a tempo pieno, sarà così per qualche anno, nel frattempo si propongono riusi molteplici: ospedale, centro scolastico, nuovamente albergo. Così siamo agli anni Novanta, il tempo non è clemente con l’edificio, necessitano interventi di manutenzione, ma nulla si fa. Arriva il sindaco Agostino, un paleo leghista tutto fatti e niente parole, la sua soluzione è la vendita, quel che resta dell’opposizione tenta di richiamare l’attenzione sul bene pubblico e il suo potenziale valore. Niente da fare, è il tempo in cui il “bene comune” diventa fastidio, è necessario vendere, non avere i lacci e lacciuoli, vincoli e studi di fattibilità. Che fine ha fatto lo straordinario bene pubblico? È andato in vendita ad un privato, anzi doppia vendita: la prima mai pagata, la seconda con un pesantissimo sconto e varie gare deserte per abbassare il prezzo.
Ora, quando la gente passa può vedere l’intervento del privato, bello, suntuoso, con prezzi degli appartamenti “da trattativa riservata”. Una storia italiana, dove il bene comune diventa patrimonio privato: peccato! CV