25 Aprile. Ricordare vuol dire non morire
Ti lascio la mia lotta incompiuta/ E l’arma con la canna arroventata/ Non appenderla al muro. Il mondo ne ha bisogno (Testamento, Kriton Athanasulis)
Mai come ora suonano profetiche alle nostre orecchie forse disilluse le parole che il poeta della Resistenza greca scriveva nel lontano 1957.
Ora, quando perfino nel giorno consacrato al ricordo – il 25 aprile – l’epopea prima di tutto civile dei ragazzi rapidamente fattisi uomini che, con il mitra a tracolla, scesero dalla montagna e liberarono le città dal giogo nazi-fascista, degli operai che nelle città e nelle officine difesero a prezzo della vita i macchinari che avrebbero consentito la ricostruzione, mentre la Wehrmacht intendeva sequestrarli per trasferirli altrove, delle ragazze partigiane che da staffette correvano forse i rischi maggiori, dei parroci e dei civili che protessero gli ebrei nascondendoli nelle loro canoniche e abitazioni per salvarli dalla deportazione, questa straordinaria sequenza ininterrotta di eroismi, durata due lunghi inverni, mai come prima appare vittima di un indecente tentativo di svuotamento e sterilizzazione nei suoi significati più alti e nobili. La cancellazione del suo incancellabile merito di aver salvato l’onore dell’Italia dopo un ventennio mussoliniano in cui si dovette assistere a troppe accondiscendenze e diffusi compromessi opportunistici. A un’adesione al regime spesso per quieto vivere nel Bel Paese del tirar a campare; in cui su oltre 1.200 docenti universitari solo 18 rifiutarono di sottoscrivere il giuramento di fedeltà alla dittatura fascista. L’eterna, furbesca, italica transigenza auto-giustificatoria, già smascherata dall’intransigenza dei pochissimi, spazzata via nella breve stagione resistenziale. Una breve stagione in cui si sognò la rifondazione etica nazionale e che, dopo la Liberazione, presto venne proiettata in una dimensione meramente celebrativa per delimitarne, contenerne e infine metterne fuori gioco le insidiose potenzialità critiche. Il bieco tentativo di trasformarla in una sorta di astorico reperto museale, deprivato della sua forza di irradiamento; vago stendardo da esibire nelle feste laiche comandate.
Eppure ancora gli odierni adepti dell’antica ignominia ne osteggiano le pur flebili celebrazioni denunciandone la natura “divisiva”. Nonostante la settantennale dissipazione di quella epopea, fatta da chi doveva esserne custode. Chi non ha mai contrastato il lavorio corrosivo del principio antifascista che impronta la nostra carta costituzionale, ispirata ai valori della Resistenza.
Ebbene sì. Il ricordo di un’Italia che alzò la testa e volle resistere continua a essere “divisivo”. Se ciò significa distinguere, separare colpe e meriti; se un bullo sfascista – oggi al governo – può provare a silenziarne il messaggio buttandola sull’irrisione più cialtronesca; ridurla a “un derby tra comunisti e fascisti”. Proprio lui, che in gioventù si impancava a “comunista padano” e ora tresca con tutti i vecchi fascismi balzati fuori dai loro sacelli; rivitalizzati da una stagione che ne ha cancellato l’esecrazione popolare consentendo loro mano libera e nuovi mimetismi, assicurati dall’azzeramento di ogni memoria storica. In questa palude dove la distinzione politica affonda nell’indistinto, per cui perfino Destra e Sinistra risulterebbero categorie antiquarie. Da quando il fronte progressista decise di rinunciare ai propri tratti distintivi per inseguire una Destra che appariva vincente nel nuovo ordine globale finanziarizzato. Quando la Sinistra post-laborista ha incominciato a vergognarsi di se stessa e del suo radicamento sociale nel lavoro, cercando di riciclarsi in caporalato del consenso al servizio dei nuovi vincitori. E ha portato a termine, per quanto le competeva, l’opera di liquidazione della Resistenza iniziata il 22 giugno 1946, quando il guardasigilli Togliatti, nella sua costante ricerca di accreditamento negli equilibri post-bellici, varò l’amnistia dei crimini fascisti. E Pietro Calamandrei dichiarò che «era venuto meno lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla rivoluzione».
Scelta proseguita a sinistra con l’opera di marginalizzazione – graduale quanto costante – delle energie di rinnovamento civile emerse dalla Resistenza. Un formidabile patrimonio di virtù repubblicana e democratica troppo a lungo tenuto in stato di ibernazione. Tanto che da far parlare di “Resistenza tradita”. Sorte non diversa da quella che gravò anche sul primo – di Risorgimento – simboleggiata dall’amaro destino delle due principali menti politiche italiane del tempo: Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini, emarginatiti nella condizione di stranieri in patria.
Eppure questa Resistenza tradita, irrisa, normalizzata, denigrata continua a vivere nei cuori di chi ancora non rinuncia al sogno di un’Italia diversa. Diversa da una Prima Repubblica precipitata nel buco nero di Tangentopoli, da una Seconda segnata dal marchio d’infamia dell’egemonia berlusconiana, dalla Terza in avvio: troppo inconsistente per fronteggiare la truce barbarie di assatanati mercenari discesi dalle valli per fare bottino. Calpestando valori e decenza per puro e semplice tornaconto.
Mai come ora urge rinnovata resistenza. Per contrapporre in un’opera di verità il coraggio repubblicano e democratico all’oscurantismo della reazione in cerca di rivincite senza prigionieri e alla miserabilità dei giustificazionisti, rapidi quanto corrivi nell’adattarsi a ogni compromesso pur di sopravvivere. Resistere in attesa di una nuova mobilitazione per nuove lotte di liberazione.
Nel frattempo bisogna ricordare. Perché – riandando ancora al nostro poeta greco – ricordare vuol dire non morire.
PFP
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“L’uomo che crede nei valori è sempre in allarme, la libertà è quella che si conquista di giorno in giorno, l’uguaglianza è quella per cui si lotta e non è mai raggiunta, la pace è quella che si difende dagli assalti dei violenti. L’unico modo di difenderci dallo sconforto è quello di essere sempre pronti” (Norberto Bobbio, Discorso ai partigiani, 1960)
Raccontare testardamente la storia della Resistenza
L’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta, spinta dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza, ha raccolto ben più di un successo. Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”. Se così è, serve tornare testardamente a raccontarne la storia e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Come cerchiamo di fare in questo numero della newsletter, da cui emerge un’esperienza collettiva e di popolo che vide protagonisti non solo gli eroi della Resistenza armata ma anche quelli della Resistenza civile che la sostenne: Rudolf Jacobs come la contadina che lotta in quanto madre.
L’offensiva revisionista cominciò con la sconfitta e la crisi del PCI alla fine degli anni Settanta, avallata dalla riabilitazione del fascismo come “autoritarismo all’italiana”, ben distinto dal nazismo, operata da uno studioso autorevole come Renzo De Felice. Si tentò di promuovere una nuova memoria pubblica “pacificata”, svincolata dalla contrapposizione fascismo-antifascismo. Il tentativo non riuscì, ma oggi assistiamo alla sua recrudescenza, alimentata dalla destra sovranista nazionale: a un nuovo tentativo di “pacificazione”, in nome della lotta a tutti i totalitarismi. Dimenticando ciò che hanno affermato gli storici e gli uomini di cultura firmatari del documento “Per la difesa della memoria e della storia”: non si può “cancellare una differenza di fondo: mentre il nazifascismo, nel dare vita a una spietata dittatura e nel negare ogni spazio di democrazia, di libertà e persino di umanità, nel perseguitare fino allo sterminio proclamato e pianificato, le minoranze religiose, etniche, culturali, sessuali, cercò di realizzare i propri programmi, i regimi comunisti prima e dopo la guerra, allorquando si macchiarono di gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e delle libertà tradirono gli ideali, i valori e le promesse che il comunismo aveva fatto”. Dimenticando che fu proprio la Resistenza, come notò il partigiano azionista Vittorio Foa, “a rendere i comunisti italiani costruttori e protagonisti della democrazia”, in un movimento pervaso “da un sentimento fraterno, unitario, che ci legava tutti, malgrado le diversità ideologiche”. Con un tratto comune alle tre guerre diverse che secondo Claudio Pavone caratterizzarono la Resistenza, la guerra patriottica, quella antifascista e quella di classe: l’ansia di libertà.
Certamente nel dopoguerra sopraggiunsero, rispetto alla richiesta di un cambiamento profondo, le delusioni. Affiorarono i tenaci legami con il passato e una destra profonda, emerse la continuità dello Stato. E ci furono errori del PCI e delle sinistre. Ma aveva ragione ancora Foa:
“In realtà quel che veniva avanti non era una restaurazione vera e propria, ma una spinta più complessa. Era ricominciato, con il 1944, in forme inedite, un certo cammino, un difficile processo. Il processo bloccato dal fascismo nel 1921. Dopo la prima guerra era emersa con forza la necessità di dare rappresentanza politica alle masse escluse. Operai e contadini prendevano per la prima volta, e in massa, la parola. Il 1944 fu la riaffermazione esplosiva di quel processo bloccato nel 1922. La delusione azionista non teneva conto della profonda novità costituita dall’irruzione della democrazia distrutta dal fascismo”.
Di fronte allo sconcerto e all’amarezza, la prospettiva cambia se si osserva, come fece lo storico, anche lui azionista, Guido Quazza: “diventa ovvio che non può essere rivoluzione mancata ciò che non è mai stato potenzialmente rivoluzione”, perché troppo eterogeneo. Meglio allora valorizzare i risultati nonostante tutto raggiunti: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura fascista, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro.
Superata da tempo l’ideologia dell’“attesa del socialismo”, ora si comprende sempre più che la realizzazione dei valori a cui si pensava negli anni dai Cinquanta ai Settanta è sempre stata in atto in virtù della Costituzione, e coincide ancora oggi con l’impegno per la sua attuazione. In una democrazia, voluta dai costituenti, che parte dal basso, non dal potere, riconosce e promuove ogni contributo -anche il più umile- offerto dalle persone all’edificazione di una società più giusta.
Di fronte alla scomparsa dei partiti e della sinistra, vale sempre l’insegnamento della Resistenza. Quello che spiega Pietro Benedetti scrivendo alla moglie: “Ma che fare? Vi sono nel mondo due modi di sentire la vita. Uno come attori, l’altro come spettatori” (dal libro più bello, “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”). Non è “dall’alto” dei poteri costituti, da soli, che possiamo pensare di ricevere la salvezza. Sono i germogli che nascono dalla società, spesso tra i più umili, dove si trova talora la consapevolezza che manca altrove.
GP
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Angelo Ciani, Monica Faridone, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Giorgio Pagano, Pierfranco Pellizzetti
Il Nostro 25 Aprile
Storie della Resistenza armata nel Levante
Nei racconti che ho raccolto in questi anni[1] emerge che la violenza esiste già, è la condizione in cui i partigiani si trovano a vivere, provocata dal conflitto e dall’occupazione. I partigiani accettano la violenza come mezzo, innanzitutto per difendersi. Anche chi, come chi scrive, non ritiene la violenza un valore e anzi la ripudia, può trovare gli argomenti per giustificare, di fronte all’aggressione nazista e fascista, una pratica che smentisce il suo pensiero. La violenza a volte è legittima, come quella di Renzo contro don Rodrigo.
Il 12 marzo 1944 (secondo alcuni il 13) la banda Betti, in cui i partigiani spezzini erano prevalenti, assaltò il treno alla Stazione di Valmozzola, nel parmense, e liberò alcuni prigionieri. L’azione ebbe una ripercussione eccezionale: fu il segno del “si può”, che animò speranze e invitò alla lotta. Vennero fatti una quindicina di prigionieri, sette fascisti furono uccisi. Racconta Paolino Ranieri “Andrea”: “Li abbiamo uccisi perché li avevamo visti sparare. Due tedeschi non hanno sparato e li abbiamo liberati. Noi siamo andati via perché temevamo un rastrellamento, i due tedeschi sono tornati a Valmozzola, sono andati nella casa che ci ospitava, hanno portato uno in Germania e hanno bruciato tutto. Abbiamo sbagliato a lasciarli andare via!”.
E’ un esempio della violenza usata come necessità, consapevoli del suo male intrinseco: tant’è che si cercava di individuare coloro per cui la morte era davvero necessaria.
E’ in particolare nei racconti delle donne che le armi sono considerate uno strumento temporaneo di lotta e non un elemento fondativo. Nelle partigiane emergono spesso un’insofferenza e un disagio. Laura Seghettini, del Battaglione Picelli, dice: “Non ho mai ucciso nessuno. Ho sparato, ma stavo attenta a sparare ai mezzi, non alle persone”. Rosetta Solari, dopo un’azione con la Brigata Centocroci a Varese Ligure, va in osteria con i suoi compagni: “E’ questa per me la parte più difficile, mi sento stanca e la mia prospettiva cambia. Una prospettiva di donna: il mondo torna maschile, e io vorrei conoscerlo, ammirarlo a mille miglia di distanza, questo mondo di scoppi, di distruzioni e di morti, questa brutta storia a puntate che non hanno fine e vorrei scappare, fuggire a nascondermi, chiudere gli occhi, non vedere, non sentire”.
La complessità non è solo tra le persone, ma dentro le persone stesse. Racconta Vera Del Bene, del Battaglione Gramsci-Maccione: “Nonostante le brutture della guerra quello fu il periodo più bello della mia vita, agivo come diceva il mio istinto di ribelle, ma mi ha portato via la felicità, mi ha portato via il sorriso. Amo moltissimo la vita, ma dopo aver visto tanta morte mi sento infelice”.
Il recupero della complessità, il calarsi nella realtà dura e drammatica di quegli anni, ci fanno capire che l’umana pietà per i morti di tutte e due le parti non può far dimenticare la verità: una parte fu costretta alla guerra perché l’altra parte aveva un esercito con cui voleva sottomettere e distruggere il mondo con la violenza e la dittatura.
GP
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La mia lunga notte del ‘45
Era diventato ormai un gioco. La galleria ‘Mameli’ – che da Piazza Palermo conduce al mare – era la nostra seconda casa. Appena suonava l’allarme, mia madre mi prendeva in braccio e correva alla galleria, dove avevamo montato una piccola tenda, proprio nella grande curva che sale verso via Zara. Mio padre, lui continuava a dormire, nel suo letto, nel sonno ‘maledicendo gli Inglesi’, come gli aveva insegnato il giornalista del regime, Mario Appelius. Ma quella notte di aprile del ’45 tutto era diverso. La gente non sembrava più spaventata: in preda, piuttosto, a una contagiosa e per me inspiegabile allegria. Ci rifugiammo in un braccio laterale della galleria.
Nessuno dormiva, tutti chiacchieravano eccitati. Qualcosa di straordinario stava per accadere.
Ricordo un mucchio di sabbia e una pala: felicità! Neppure io riuscii a dormire. Dovevo lavorare.
Per tutta la notte – così parve al bambino indaffarato con la sabbia e la pala – si sentì il rombo di carri armati e veicoli pesanti che percorrevano la galleria diretti al centro città.
A Villa Migone il generale Meinhold firmava la resa dei tedeschi.
Cessato il fragore della ritirata, uscimmo tutti all’aperto, frastornati, in silenzio, affrontando un mondo diventato improvvisamente ignoto.
Era ancora buio e io – bambino di quattro anni, vissuto nell’oscuramento e sotto i bombardamenti – per la prima volta vidi Genova illuminata: spettacolo meraviglioso inaudito della normalità che si ristabiliva. I primi tranvai lasciavano le rimesse. Gli uomini uscivano cauti dalle loro tane notturne. ‘Dove andare, con chi stare, sotto quali bandiere? ’si chiedevano.
Che direzione avrebbe preso la nuova, fresca, rischiosa libertà di quel 25 aprile?
MM
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29 novembre 1944: il grande rastrellamento nazifascista contro la Brigata Muccini
Dal racconto di mio padre, il partigiano Rinaldo Caprioni.
I tedeschi questa volta erano in massa. Impiegarono più di 10.000 uomini, ai quali si aggiunsero reparti fascisti della divisione Monterosa. Si trattava di truppe da montagna, molto esperte nei rastrellamenti. Avevano anche una forte copertura di artiglieria. L’obiettivo era l’annientamento della Brigata Garibaldi Muccini, costituita in larga parte da sarzanesi. La brigata era collocata in una posizione altamente strategica, immediatamente alle spalle della linea gotica, poteva insidiare i rifornimenti tedeschi al fronte e tagliare le strade. Tuttavia era una posizione scomoda, difficilmente difendibile, perché era in basse colline e non in montagna, tra l’altro attraversate da una fitta rete stradale. Il distaccamento Righi, del quale mio padre era il comandante, era stato inviato dal comando di brigata nei paesi di Gorasco e Capriola, col compito di recuperare un buon rapporto con i paesani, che era stato compromesso dagli uomini di “Tullio”. La situazione era difficile, scarseggiavano viveri ed equipaggiamenti, ma soprattutto erano a corto di munizioni, tanto che l’ordine era di sparare solo in condizioni estreme.
All’alba del 29 novembre, arrivò l’ordine del comando di ripiegare nella massima fretta a Canepari. In realtà i tedeschi avevano già occupato Ponzanello, aggirandoli. Si trovarono costretti a spostarsi nel vallone della Selva verso Fosdinovo. Qui si accorsero di essere circondati, ma, per loro fortuna, erano ben nascosti ed erano stati superati dall’accerchiamento, così si trovarono al di fuori del rastrellamento. Fu così, per uno strano paradosso della storia, che il distaccamento Righi, che era stato l’unico investito drammaticamente dal grande rastrellamento dell’agosto, fu l’unico non coinvolto in quello del 29 novembre. Nei giorni precedenti, la brigata aveva subito la perdita dolorosa di Miro Luperi, medaglia d’oro, amico di mio padre, che aveva anche giocato con lui nella Sarzanese calcio. Furono giorni terribili. La Brigata ebbe perdite ingenti. Sono riuscito a recuperare i nomi dei caduti e, insieme a voi, rendo loro un doveroso omaggio:
Ferdinando Baria, Arrigo Boriassi, Ugo Boriassi, Enzo Meneghini, Valdo Boriassi (pipa), Rufinengo Tenerani, Oriano Musso, Vittorio Spino (ultimo) di Potenza, Tarzan Baudone, Toni (il polacco barbiere della brigata), Ivano Corsi, Bruno Gazzoli, Armando Gramolazzo, Giuseppe Ponzanelli, Pietro Quadrelli, Matteo Persico (di Genova) Filippo Battilani, Bruno Marsella, Sergio Carlini.
NC
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Saremo capaci, oggi?
23 Aprile 1945: Genova è ancora occupata da 30.000 nazisti e dalle milizie fasciste. Gli alleati sono ancora alla Spezia. Il CLN proclama lo sciopero generale per il giorno 26. Il generale Gunther Meinhold è sotto pressione. Hitler ha ordinato che in caso di abbandono dovrà bombardare e distruggere la città, già minata nei punti strategici, com’è accaduto con Varsavia. A Villa Migone il 25, alla presenza di Remo Scappini e altri partigiani, del cardinale Boetto e dello stesso Meinhold, si decidono le sorti di Genova. D’improvviso, alle 19.30, quando tutto sembra perduto, e si sta per arrivare allo scontro, il generale ci ripensa, e firma un foglio battuto a macchina con la resa incondizionata. Il documento originale è conservato a Tursi, e va visto, perché forse oggi i liguri non si ribellerebbero più. Ahimè.
CAM
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Osiglia, una repubblica dimenticata
Nella storia della Resistenza in Liguria emergono talvolta episodi non sufficientemente ricordati, se non proprio obliati dalla nostra memoria.
Proviamo allora a ricostruire il ruolo di Osiglia, un piccolo comune dell’Alta Val Bormida che durante la guerra era comunemente appellato come “la capitale dei partigiani”.
Un ruolo considerato essenzialmente sul piano strategico – militare trascurando il fatto che Osiglia fu per oltre un mese, nell’inizio di autunno del 1944, davvero capitale di una micro-repubblica partigiana.
Posta a quasi settecento metri di altitudine, a cinque chilometri da Millesimo, la prima località presidiata da reparti nazifascisti, Osiglia godeva di una fitta rete di comunicazione che andava in tutte le direzioni.
Per circa un mese, tra l’ottobre e il novembre 1944 (in precedenza dunque al “proclama Alexander”), la popolazione attiva di questo borgo (all’epoca di oltre 1.000 abitanti, oggi abbondantemente ridotti di due terzi), attraverso i suoi rappresentanti organizzò un governo politico del paese, intervenendo su tutti i problemi immediati, dagli approvvigionamenti ai servizi sanitari, all’amministrazione della giustizia, ma anche sulle questioni di prospettiva, le questioni del domani.
Come capitò anche ad altre analoghe esperienze anche la mini-repubblica di Osiglia fu travolta e distrutta proprio nel momento in cui l’esperienza di governo e di amministrazione stava raggiungendo la massima espansione e i migliori risultati. Un’interruzione traumatica e altamente drammatica. Osiglia, come tutta la zona tenuta dalle divisioni partigiane dalla costa all’entroterra oltre Appennino, fu investita da diversi attacchi di assaggio, seppure a volte assai pesanti, nel mese di novembre. Il 29 e 30 novembre fu scatenato un attacco concentrico da un potente schieramento che aveva circondato tutta la zona. I partigiani lo chiameranno il “grande rastrellamento”. Tre delle quattro brigate garibaldine furono travolte e costrette a passare in Piemonte, filtrando tra le maglie nazifasciste, passando il Tanaro a guado con la prospettiva poi abbandonata di passare le Alpi e farsi internare in Francia.
Sulla zona abbandonata i garibaldini sarebbero poi tornati per organizzarsi. Ma la Repubblica di Osiglia non fu ricostituita, come avvenne per tutte le altre repubbliche e zone libere partigiane.
L’obiettivo prioritario era ormai un altro: prepararsi all’attacco finale contro tedeschi e fascisti in ritirata e in fuga: scendere nelle città per sostenere l’insurrezione che avrebbe portato alla loro liberazione, quasi ovunque prima dell’arrivo degli alleati.
Franco Astengo
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Rudolf Jacobs, l’ufficiale tedesco che combatté il Nazismo
Rudolf Jacobs era nato a Brema il 26 luglio 1914. Il padre era un famoso architetto. Giovanissimo decise d’imbarcarsi su navi della marina mercantile, navigando prevalentemente nell’Oceano Indiano. Questo lungo periodo di navigazione dal 1932 al 1938 lo tenne lontano dalla Germania, proprio negli anni nei quali il nazismo si era affermato e aveva nazificato tutto il paese.
L’ambiente e la storia di Brema in Germania sono particolari. Brema è una città della Lega Anseatica, una potente unione di città marittime del Nord Europa di carattere commerciale, che dominò per secoli i commerci nel Baltico e nel mare del Nord. Ancora oggi, Brema è una città-stato, non appartiene a nessun lander tedesco, ed è sempre andata molto fiera della sua indipendenza. Per secoli Brema si fregiava del titolo di “Freie und Hansestadt” “Libera città anseatica”.
Il titolo le venne tolto dai nazisti, dopo che il Senato della città proibì ad Hitler di tenere un comizio a Brema.
Rudolf Jacobs rientrò in Germania per laurearsi in ingegneria. Nel 1939 fu arruolato dalla marina militare tedesca, esattamente come ufficiale del genio navale germanico. Nominato capitano, nel 1943 fu inviato alla Spezia, dapprima presso l’arsenale militare cittadino, poi gli fu affidato il comando delle batterie costiere nella zona di Punta Bianca e Montemarcello nel comune di Ameglia. Batterie, che, più tardi, quando gli alleati raggiunsero la linea gotica, che, sul fronte tirrenico iniziava tra Massa e Forte dei Marmi, erano in grado di sparare oltre le linee del fronte e di arrivare a colpire sino a Viareggio.
Il comportamento del capitano Jacobs era abbastanza originale per un ufficiale tedesco, la cosa non passò inosservata dapprima ad alcuni operai antifascisti dell’arsenale militare della Spezia e, poi, agli antifascisti di Lerici, che presero contatto con lui e lo misero in relazione con i primi gruppi partigiani.
Infatti Jacobs aveva preso a denunciare e perseguire chi faceva borsa nera, facendo sequestrare importanti quantità di cibo, distribuendolo gratuitamente alla popolazione, arrivò persino a utilizzare riserve alimentari della marina tedesca per sfamare gli abitanti del posto.
Ci furono anche soldati tedeschi che disertarono e si unirono alle forze della resistenza nei diversi paesi d’Europa. Autorevoli storici stimano che furono circa 10.000 i soldati tedeschi, passati nelle file delle varie resistenze europee. La stima non è facile, perché per orgoglio militarista e propaganda nazista non veniva mai riconosciuto il caso della diserzione, preferendo catalogare questi casi come dispersi.
A Sarzana, nel limite orientale della Liguria c’è stato un caso, unico in tutta l’Europa, un caso di grande importanza storica, ma anche morale e politica.
Il capitano della Kriegsmarine (marina da guerra) germanica Rudolf Jacobs, disertò insieme al suo attendente, un caporalmaggiore dal nome incerto (per alcuni Johann Fritz) e, caricato un camion di armi, viveri e benzina, raggiunse le formazioni partigiane locali e, insieme all’attendente combatté per circa un anno nelle fila della Brigata Garibaldi Muccini, dislocata sulle montagne intorno a Sarzana.
L’audacia in azione di Jacobs divenne leggendaria tra i partigiani locali. Lui progettò un piano veramente ardimentoso. La sera del 3 novembre 1944, decise di assaltare la caserma delle Brigate Nere nel pieno centro di Sarzana. La caserma era sistemata nell’Hotel Laurina, che i fascisti avevano requisito e trasformato in caserma. Per riuscire nell’impresa Jacobs vestì la sua uniforme di capitano dell’esercito tedesco, accompagnato dal suo fedele attendente Fritz, con loro erano altri sei partigiani, tra i quali due russi e uno jugoslavo. Altri partigiani erano appostati a copertura, più lontani e nascosti. Era stata scelta l’ora di cena, contando sul fatto che i militi fascisti, a quell’ora, si affollavano nei saloni del ristorante dell’albergo, trasformati in mensa, così li avrebbero trovati radunati e facilmente esposti al fuoco partigiano.
Finsero di dover consegnare dei prigionieri. Jacobs chiese al piantone di voler parlare col comandante. Sfortunatamente, il comandante, in quel momento, era assente, perché era alla Spezia al comando di zona. Si presentò il vice comandante. Jacobs sparò un colpo e lo uccise, ma quello fu l’unico colpo esploso dal suo mitra, che s’inceppò. Ci fu una sparatoria, anche l’attendente e un altro partigiano rimasero feriti, mentre morirono due fascisti. Uno ferito gravemente sarebbe morto il giorno dopo. Jacobs fu colpito a morte.
Mio padre, grazie ai suoi studi tecnici, da militare era stato trasferito dal suo reggimento, accasermato a Chiavari, al centro studi armi di preda bellica a Civitavecchia, dove aveva acquisito una straordinaria conoscenza delle varie armi. Mi raccontava che, la sera prima dell’attacco, lui si trovava insieme a Jacobs, il quale stava preparando le armi per l’azione del giorno successivo, ma, non avendo pallottole originali per la machine pistole tedesca, aveva deciso di utilizzare quelle del MAB italiano dello stesso calibro. Mio padre mi disse che lo aveva avvertito, che le pallottole del MAB, usate nella machine-pistole potevano creare problemi d’inceppamento. Jacobs lo ascoltò e provò a sparare con queste pallottole, senza alcun problema. A mio padre è sempre rimasta la convinzione che il problema dell’inceppamento che costò la vita a Jacobs, sia stato dovuto al munizionamento difettoso.
Nella Brigata Muccini c’erano diversi partigiani stranieri, soprattutto russi e jugoslavi, ma anche polacchi e altri. Nel distaccamento “Righi”, del quale mio padre divenne comandante, c’erano due russi, uno jugoslavo, un ceco e un altro soldato tedesco, che combatté con loro sino alla fine della guerra.
Il caso di Jacobs è comunque unico. Si tratta dell’unico ufficiale tedesco, che disertò e combatté nelle file partigiane. A Rudolf Jacobs fu concessa la medaglia d’argento al valor militare della repubblica Italiana.
La moglie di Jacobs seppe della morte, ma senza informazioni precise. Le fu detto che era disperso in combattimento. Venne a sapere la vera storia, solo molti anni dopo, nel 1957, quando l’ex commissario politico della Brigata Garibaldi Muccini Paolino Ranieri, nel frattempo divenuto sindaco di Sarzana, riuscì a rintracciare la famiglia e a informarla dell’accaduto.
In un primo momento la cosa non fu facile. A differenza che in Italia, dove la diserzione dall’esercito di Mussolini era considerata un atto eroico e un dovere morale, in Germania la diserzione, anche per una causa più che giusta, era considerata come un tradimento della patria. Solo dopo molti anni, la situazione è cambiata. Di recente i disertori dell’esercito germanico non solo sono stati riabilitati, ma a molti di loro è stato riconosciuto il merito di aver combattuto il nazismo.
Per alcuni anni la stessa moglie di Jacobs preferì non raccontare in pubblico la storia del marito.
Negli ultimi anni, nell’ambito della campagna condotta in Germania per valorizzare i nemici del nazismo, la città di Brema ha dedicato a Rudolf Jacobs un convegno e una targa, dove riconosce i suoi meriti verso l’umanità.
Sulla vicenda di Rudolf Jacobs il regista cinematografico Luigi Faccini ha scritto un interessante libro biografico dal titolo “L’uomo che nacque morendo”, dal quale lo stesso regista ha tratto un bellissimo film dallo stesso titolo, che la televisione italiana dovrebbe fare conoscere maggiormente.
Gli Archivi Storici della Resistenza hanno inoltre prodotto un libro a fumetti sulla storia di Jacobs, dal titolo “Rudolf Jacobs, un ricordo indelebile”.
La vicenda di Rudolf Jacobs meriterebbe ben altro risalto, molto oltre le realtà locali, ma anche oltre le sfere nazionali d’Italia e di Germania. Rudolf Jacobs rappresenta una figura straordinaria di uomo giusto e amante della democrazia, che combatte e dona persino la sua stessa vita e lo fa al di sopra delle appartenenze nazionali o politiche, lo fa per l’umanità intera. Oggi l’Europa Unita dovrebbe assurgere Rudolf Jacobs come esempio, valorizzarne la storia e far sapere alle giovani generazioni da Capo Nord al canale di Sicilia, dal Portogallo agli Urali che questo uomo è un simbolo di libertà per l’umanità intera.
NC
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Ricordo di Virgola (Eraldo Fico)
I partigiani Riccio e Scoglio della Divisione “Garibaldi-Coduri”, attestata nel Levante genovese, vennero soprannominati “fratelli mitra” per la loro temerarietà. Due scavezzacolli tenuti a bada dal profondo rispetto per Virgola, il Comandante in capo. Così ne scriveva Riccio:
«Questo è il diario del mio primo giorno di “banda”. All’alba eravamo già in allarme. Un reparto di alpini della Monterosa aveva preso prigioniero il Grigio, il più anziano di noi. Virgola non ebbe esitazioni. Improvvisamente lo vidi trasformarsi. La sua voce divenne metallica quando disse: ‘Occorrono dei volontari!». Capimmo subito che intendeva attaccare per cercare di liberare il Grigio. Impugnando nella destra la vecchia Grisenti, ci guidò all’assalto. Vi furono alcuni attimi di indescrivibile caos. Con manovra temeraria Virgola si portò alla testa di alcuni partigiani su un fianco scoperto del nemico scatenando in quella direzione un fuoco infernale. Passò indenne tra raffiche rabbiose, piombò in uno scantinato dove si era barricato un gruppo di alpini e catturò i primi prigionieri. Altri caddero feriti mentre lui completava la manovra di aggiramento. Intanto il Grigio, approfittando della confusione, si era impadronito del fucile di un alpino caduto e si era unito a noi. Era il primo combattimento frontale vero e proprio: e anche la prima nostra vittoria. Avrebbe dovuto essere festa, ma non lo fu. Coduri, uno dei nostri migliori compagni era stato colpito a morte da una pallottola: il primo caduto di quella formazione che poi avrebbe assunto – in suo onore – la denominazione “Coduri”. Riunì gli alpini prigionieri e, mentre assistevo alla scena, notai nei loro occhi il terrore: temevano di essere fucilati. Disse loro: «Siamo uomini e per questo vi lasciamo liberi di decidere. Potete raggiungere le vostre case o fermarvi con noi. Ma guai se dovessimo ancora incontrarvi sulla nostra strada con le armi in pugno». Gli alpini si guardarono stupiti; qualcuno aveva gli occhi lucidi: avevano detto loro che i partigiani erano bestie. Si fermarono con noi. Dopodiché Virgola si avvicinò al corpo di Coduri, inerte su una lastra di marmo, e silenziosamente lo pianse con noi».
Questo documento mi fu consegnato prima di morire da Scoglio, mio zio Bruno Pellizzetti.
PFP
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Le donne della Resistenza civile
Senza l’aiuto della Resistenza civile non avrebbe potuto esserci Resistenza armata: in un territorio ostile un movimento clandestino non riuscirebbe a sopravvivere. Importantissimo fu il ruolo di sostegno dei contadini e in particolare delle donne.
Quando l’8 settembre si manifestò drammaticamente la liquefazione dello Stato furono soprattutto le donne a soccorrere i soldati che sbandavano in un Paese occupato, nel nome della solidarietà umanitaria e dell’odio contro la guerra. Donne molto diverse tra loro: ma per tutte fu il momento della “scelta morale”, dell’assunzione di responsabilità, che si trasformò poi in partecipazione e autonomia. Le donne proseguirono su questa strada, innanzitutto nascondendo: durante i rastrellamenti nazifascisti furono loro a rendere invisibili gli uomini di fronte alla minaccia della deportazione. E poi tacendo e vigilando, in una situazione che si fece via via sempre più difficile. Resistettero quotidianamente sotto i bombardamenti, con i carretti andarono a cercare cibo, risalendo faticosamente e pericolosamente la Cisa verso Parma.
Nei racconti che ho raccolto questo impegno emerge ovunque. Per esempio nel momento epico della Resistenza in Val di Magra, il rastrellamento del 29 novembre 1944. Le donne affrontarono i nazifascisti ricorrendo ai più svariati stratagemmi e alle tecniche di dissuasione tipiche della creatività di genere: dal fingersi affette da malattie infettive, come Aldemara Gianrossi di Caprognano di Fosdinovo, a cucinare per i nemici mantenendo la calma e fingendosi disinteressate della sorte di mariti e figli, come Maria Carlini di Castelnuovo; dal nascondere, sfamare e assistere i propri uomini fino a curare i corpi dei morti, a rischio della propria vita, come la castelnovese Gemma Tenerani, sorella di Rufinengo. Nessuna donna tradì: come sottolinea Nella Lazzini di Caprognano, “la clandestinità senza spie funziona”
Al lato opposto della provincia spezzina, la Val di Vara, è vivo il ricordo di Carmela Lurpini, per tutti “la Mamma”. Madre di otto figli, vedeva nei ragazzi che avevano scelto la sua casa di Boschetto, poco sopra Antessio di Sesta Godano, come sede del Comando di Zona, il proprio figlio che aveva in guerra in Russia. La casa ospitò centinaia di giovani che avevano bisogno di lei. Nel momento epico della Resistenza in Val di Vara, il rastrellamento del 20 gennaio 1945, Carmela fu eroica. Un ufficiale tedesco la terrorizzò perché parlasse, minacciando di incendiare la casa. Lei lo affrontò da sola con straordinario coraggio. Possiamo solo immaginare la sua disperata difesa verbale, con un diluvio di parole in un dialetto quasi incomprensibile, mentre mostra al tedesco la foto del figlio disperso in Russia. Alla fine l’ordine “Feuer”, fuoco, non fu pronunciato e tutto fu salvo.
Leonardo Paggi ha auspicato una concezione della Resistenza “in cui la madre non abbia uno spazio minore del partigiano”. Una concezione che è un potente strumento di trasformazione culturale: perché insegna che tutti e tutte, e quindi anche i più deboli, e in ogni occasione, possono fare qualcosa.
GP
[1] Nei libri “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945” (Edizioni Cinque Terre, 2015) e “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana” (Edizioni Cinque Terre, 2017), quest’ultimo scritto con Maria Cristina Mirabello.