Indice
- PILLOLE
- EDITORIALI
- POSTA
- ECO DELLA STAMPA
- FATTI DI LIGURIA
- Fuoco, fuochino, fochetto, focone. Boom
- Il futuro di Ansaldo Energia: continua il macabro balletto
- Piano Energetico Ligure 2020-2030: pura dichiarazione di sentimenti
- Il senso dimenticato del Carnevale
- L’ultima follia: il medico a gettone
- Scajola uno e trino, nella crisi idrica del ponente
- Disparità di genere e alta formazione STEM in Liguria
- Bosch, Milano chiama Genova
- Alla ricerca della solidarietà invisibile
- Elezioni a Sarzana. Il PD va contromano
- Nostalgia delle Bocca di Rosa e di Princesa

uno strumento di contro-informazione per il dibattito pubblico ligure
LA VOCE DEL CIRCOLO PERTINI
Numero 46, 15 marzo 2023
I vari argomenti trattati potranno anche essere letti e commentati nel Gruppo di Facebook CONTROINFORMAZIONE al link https://www.facebook.com/groups/540444987595900
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PILLOLE
Né carrarmati né motocross tra i vigneti e nel parco dei Colli di Luni

Un motoclub di Santo Stefano Magra ha presentato il progetto per realizzare piste da motocross in un terreno che appartiene ancora alla società Oto-Melara che, un tempo, vi aveva realizzato una pista per il collaudo dei carri armati. Da oltre 30 anni, la pista è abbandonata, nella parte a monte dell’autostrada è stato realizzato un grandissimo vigneto per la produzione del pregiato Vermentino dei Colli di Luni. La parte tra l’autostrada e il fiume è invece zona parco. Rientra nell’area del Parco Montemarcello/Magra/Vara. Durissima la reazione degli abitanti e delle associazioni ambientaliste. Il regolamento del parco vieta l’introduzione di mezzi a motore. Nel frattempo la zona si è naturalizzata e ospita diverse specie di fauna. Aspettiamo la voce del comune di Sarzana. |
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Il Secolo prende fischi per… diamanti
Povero Secolo XIX, adesso rischia una causa pesante: dieci anni fa tre risparmiatori genovesi della BPM (allora Banca Popolare di Milano) su suggerimento della banca stessa avevano acquistato diamanti per 31.000 euro. Il valore reale era meno della metà, e quando i tre malcapitati si sono accorto della fregatura hanno fatto causa alla banca, in qualità di mediatore della IDB, Intermarket Diamond Business. Il Secolo XIX ha riportato la notizia, scambiando tuttavia la IDB con l’Inter American Development Bank, scritta per esteso, e dichiarandola fallita. E nessuno ha verificato la notizia. La banca citata non ha niente a che fare con i mariuoli dei diamanti, e pare si occupi anche di povertà e diseguaglianza. Come diceva il buon Fede? Che figura di m…
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Goodnews, ma non troppo
Facciamo sempre le pulci a tutti, senza distinzione di colore politico, di estrazione sociale, di lingua, di etnia o di ruolo nella P. A. o nelle forze di Polizia. Stavolta però il plauso (vero) va alle Dogane di Genova, che hanno sequestrato un container con 7 tonnellate di un pesticida, che cercava di entrare illegalmente in Italia sotto il falso nome di un fertilizzante per agricoltura. Prodotto altamente nocivo e pericoloso che verrà bruciato. Di provenienza cinese, ma con importatore italiano, che si è beccato una denuncia penale. Peccato che su nessun organo di stampa è trapelato il suo nome. Perché il peccato e non il peccatore? Come nel caso di negozi che vendono merce contraffatta o di ristoranti con i topi nel cibo. In quel caso i nomi si fanno, ma solo se si tratta di “poveracci”.
EDITORIALI
Un Report della Regione sulla criminalità organizzata in Liguria e un commento di Roberto Centi

“La Liguria si conferma regione in cui spiccano numeri alti per la gestione dei traffici illeciti a fianco a numeri bassi per il controllo violento del territorio. Una situazione che dimostra la presenza di mafie sempre più silenti, di colletti bianchi, che fanno affari insinuandosi tra appalti e bandi di quasi ogni genere”. Così il presidente della Commissione Regionale Antimafia della Liguria Roberto Centi, intervenuto stamane alla presentazione dei nuovi report dell’Osservatorio regionale sulla sicurezza e sulla criminalità organizzata realizzati da Liguria Ricerche. “Dal report sulla criminalità organizzata si evince che in Liguria si trovano 476 immobili confiscati allemafie, di cui 329 (il 69%) ancora in gestione da parte dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) e 147 (il 31%) già destinati ad un nuovo uso – sottolinea Roberto Centi – In quest’ottica è sempre bene ricordare il lavoro svolto dalla Commissione che presiedo, in collaborazione con l’assessorato alla Sicurezza, per l’emanazione del bando da 500 mila euro destinato ai Comuni liguri per progetti di riqualificazione dei beni confiscati (bando a cui hanno partecipato 6 Comuni con 8 progetti utilizzando quasi interamente la cifra stanziata e generando investimenti totali per oltre 700 mila euro). Bando che, grazie ad un proficuo lavoro in fase di Bilancio regionale, nella nuova versione per il 2023 vedrà aumentare le risorse a disposizione dei Comuni da 500 mila a 600 mila euro”. “Il monitoraggio numerico e tipologico presentato stamane è utile al nostro lavoro per i beni e le aziende confiscate e sarà utile anche per i cittadini che grazie alla nuova dashboard e ai report di Liguria Ricerche avranno una più semplice accessibilità ai dati – aggiunge Centi – Su questo tema è emerso come oggi il volume più alto degli immobili si trovi tra le province di Genova e Savona, mentre la quota maggiore di immobili destinati si rileva nell’area della Spezia e quella minore nella provincia di Imperia. Sul fronte delle aziende confiscate alle mafie oggi sono 50 in Liguria, delle quali 31 (il 62%) ancora in gestione e 19 (il 38%) già destinate”.
Il lavoro eminentemente quantitativo di Liguria Ricerche per il presidente della Commissione Regionale Antimafia sarà utile anche per l’elaborazione in itinere di un testo condiviso, in attesa dell’audizione decisiva dei vertici nazionali e del Nord Italia dell’ANBSC prevista per il 14 marzo. “Questa iniziativa – osserva Roberto Centi – ci è utile come Commissione per approfondire ulteriormente lo studio prospettico per la messa in pratica della legge, che è sempre stato un tratto caratteristico della stessa Commissione. Apprezziamo quindi i nuovi strumenti messi a disposizione, senza tuttavia dimenticare il prezioso lavoro effettuato dal precedente Osservatorio sulla Sicurezza urbana e la criminalità organizzata, coordinato dal professor Stefano Padovano dell’Università di Genova, che per 15 anni aveva saputo accompagnare ai dati quantitativi un necessario approfondimento qualitativo, che sviluppava ciò che i numeri inizialmente dicono, nell’analisi e nella individuazione di strategie integrate sulla criminalità organizzata”. |
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Genova: la fuga delle famiglie del porto
Nel ‘900 le gambe su cui camminava l‘economia ligure erano sostanzialmente due: la grande fabbrica partecipata dallo Stato e l’impresa familiare; quest’ultima, se del comparto manifatturiero, molto spesso di piccola taglia e altrettanto spesso posizionata nelle nicchie di subfornitura all’impresa pubblica.
Nell’ultimo quarto del secolo scorso abbiamo assistito alla catastrofe delle PpSs, che è proseguita anche nel nuovo secolo facendo terra bruciata di un patrimonio prezioso di competenze competitive e di traino dell’intero tessuto produttivo locale. Una catastrofe che ha portato via con sé anche buona parte di un indotto incapace di riconvertirsi.
In questo quadro amaro reggeva ancora l’impresa familiare versione professional ownership, ossia l’impresa gestita da un gruppo parentale che ha saputo managerializzarsi. Secondo l’economista Marco Vitale, “lungi dall’essere superata, l’impresa familiare si sta dimostrando una delle forze più vitali dello sviluppo economico-sociale. Se riesce a trasformarsi in impresa familiare professionale, evitando la caduta nel familismo, essa è più solida e più sana dell’impresa anonima impersonale”. E le famiglie del porto di Genova ne erano una delle più convincenti riprove. Come la Rimorchiatori Riuniti delle famiglie Gavarone e Dellepiane, fondata nel 1922 da Giovanni Gavarone aggregando piccoli operatori portuali, tra cui la Gazzo & Gavarone, disposti a portare a fattore comune chiatte e rimorchiatori delle rispettive aziende parentali. Un anno e mezzo fa, l’indagine su questa realtà socio-economica in chiave locale, promossa da Fondazione Garrone, Banca Passadore e Studio Bonelli Erede, aveva raccolto le testimonianze dei protagonisti nel rapporto “Dalle Maone all’impresa a rete”; tra cui spiccava l’intervento di Gregorio Gavarone, appunto CEO della Rimorchiatori Riuniti. Che faceva dichiarazioni importanti: «terminati gli studi sono arrivato in Ditta alla fine degli anni ’80 dopo aver onorato l’antica tradizione genovese dell’apprendistato all’esterno. Qualcosa di analogo a quanto affronterà la nostra quinta generazione, che ormai sta arrivando»; «il porto è la prima risorsa a disposizione per un rilancio di Genova, dopo l’esaurimento della sua condizione di ‘città delle Partecipazioni Statali’, che perdurava già dalla fine della Prima Guerra Mondiale. Conseguenza anche di una sorta di disaffezione dell’imprenditoria privata che ne ha impoverito spirito e intraprendenza»; «lo dico da genovese, che ha qui le proprie radici non solo biografiche ma anche imprenditoriali». Per arrivare al botto finale: «l’impresa familiare che oggi mi trovo a guidare trova il proprio elemento di continuità in uno spirito di dedizione e di coinvolgimento emotivo che si tramanda tra le generazioni». Un anno dopo tutte queste belle parole, il 22 ottobre 2022, Gregorio Gavarone rendeva nota la cessione dell’azienda di famiglia al gruppo ginevrino Msc. Pare per un miliardo di euro. Nonostante il malloppo, in una lettera ai dipendenti il CEO si mostrava inconsolabile: «Come potete ben immaginare la cosa non è avvenuta senza una profonda sofferenza dal punto di vista sentimentale da parte di tutti i soci, ma soprattutto da parte delle famiglie, di cui anch’ io faccio parte, che ne hanno curato con impegno e sacrificio la gestione attraverso un secolo di storia». Del resto – da qualche tempo – questo caso di port professional ownership genovese in fuga non è certo il primo né l’ultimo. Per cui – ahinoi – si direbbe abbia ragione il tandem Toti-Bucci, quando sostiene con le sue scelte devastanti che l’unico modo praticabile dalle nostre parti per fare finanza sarebbe quello di vendersi a pezzi il territorio e i suoi beni più pregiati.
La redazione de “La Voce del Circolo Pertini”
Nicola Caprioni, Daniela Cassini, Angelo Ciani, Mauro Giampaoli, Michele Marchesiello, Carlo A. Martigli, Pierfranco Pellizzetti, Getto Viarengo.
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Hanno scritto per noi (tra gli altri):
Andrea Agostini, Marco Aime, Franco Astengo, Arnaldo Bagnasco, Susie Bandelli. Enzo Barnabà, Marco Bersani, Marco Baruzzo, Pieraldo Canessa, Nuccia Canevarollo, Alessandro Cavalli, Roberto Centi, Riccardo Degl’Innocenti, Alberto Diaspro, Marco Fabbri, Erminia Federico, Maura Galli, Luca Garibaldi, Antonio Gozzi, Roberto Guarino, Monica Lanfranco, Maddalena Leali, Giuseppe Pippo Marcenaro, Antonella Marras, Andrea Moizo, Paola Panzera, Enrico Pignone, Bernardo Ratti, Adrano Sansa, Ferruccio Sansa, Sandro Sanvenero, Carla Scarsi, Sergio Schintu, Mauro Solari, Orietta Sammarruco, Piera Sommovigo, Giovanni Spalla, Angelo Spanò, Francesco Sylos Labini, Rino Tortorelli, Giulio A. Tozzi, Gianmarco Veruggio
POSTA

Riceviamo da Daniela Cassini questo interessante calendario di incontri sanremesi:

Riceviamo da Luca Garibaldi, capogruppo PD nel consiglio di Regione Liguria
In Liguria 7 persone su 10 non ricevono una visita medica in tempi ragionevoli
In Liguria 7 persone su 10 non ricevono una visita medica in tempi ragionevoli
In Liguria ben 7 persone su 10 ritengono difficile ottenere una visita medica in tempi ragionevoli. 3 liguri su 4 definiscono i tempi di attesa per una prestazione medica lenti. Quasi 9 liguri su 10 si sono trovati almeno una volta a doversi inserire in liste d’attesa che ritenevano troppo lunghe. Uno su tre ha dovuto aspettare almeno sei mesi per un esame: ben il 57,4% per potersi curare ricorre a strutture private e il 5% ha rinunciato a curarsi. Sono solo alcuni dei dati emersi dalla ricerca sulla sanità promossa Gruppo del Partito Democratico in Regione e condotta da Quorum/Youtrend: i risultati sono stati presentati in una conferenza stampa dal gruppo consiliare del PD in Regione Liguria.
È intervenuto il fondatore di Quorum Davide Policastro che ha sottolineato che pur essendo la lentezza un concetto soggettivo, il fatto che un cittadino ligure su tre dichiari di essersi trovato nell’ultimo anno davanti a liste d’attesa superiori ai 6 mesi dà un fondamento oggettivo a questa percezione. Questo problema. viene generalmente risolto dai liguri con il ricorso a strutture private (il 57,4% di loro), mentre solo in seconda battuta viene accettato il posto assegnato (23,2%). Il 5% rinuncia alle cure, un dato che supera l’8% tra pensionati e disoccupati. Non si dispone del dato di quanti ricorrono a servizi in altre regioni.
Accanto alla lentezza, una parte dei cittadini liguri fa i conti anche con le distanze dai luoghi di cura: il 23,6 per cento degli intervistati si è dovuto curare fuori dalla propria Asl di appartenenza e il 30,5 per cento che non trova appuntamento vicino casa ricorre a una struttura privata. Per il 49,5% le sedi di cura sono ragionevolmente vicine e il 40,5% di coloro che non ritenevano ragionevolmente vicina la sede della prestazione hanno comunque accettato la sede proposta.
La medicina territoriale e i medici di base soddisfano il 57,4 per cento degli intervistati, che invece sono più critici su assistenza domiciliare agli anziani e Pronto Soccorso; giudicati insufficienti rispettivamente da un terzo e da quasi il 40% di coloro che vi hanno ricorso.
I due elementi più spesso indicati da migliorare, sono l’accesso alle visite di controllo -per il 44,1% dei liguri- e l’assistenza domiciliare -39,2% -; mentre per quanto riguarda il sistema ospedaliero il problema principale pare essere la carenza di personale per il 55,6%. Più in generale, nell’ambito del disegno del prossimo Piano Socio-Sanitario di Regione Liguria, per il 43,6% dei cittadini la riduzione delle liste d’attesa dovrebbe essere il primo tema da affrontare, seguito dal potenziamento dei Pronto Soccorso, della rete di medicina territoriale e di medicina per gli anziani.
Piace molto la proposta dello psicologo di base: il 79,5% dei liguri ritiene l’introduzione di questa figura molto importante per migliorare il servizio sanitario ligure.
Quindi, la sanità ligure non è in buona salute: i dati della ricerca raccontano di un accesso agli esami, per tempi e modi, lentissimo e spesso difficile per gran parte dei liguri. Che poi metà dei cittadini sia costretto a ricorrere al privato dimostra l’implosione del sistema pubblico di cui la giunta Toti è responsabile. E preoccupa il fatto che il 5% dei liguri rinunci a curarsi perché non può permetterselo.
Dalla ricerca emerge anche una domanda di maggiore rete territoriale: medici di base e assistenza domiciliare, temi su cui in questi anni non si è intervenuto abbastanza e che dovrebbero essere al centro della sanità di domani; vicina alle persone, pubblica, accessibile.
Vogliamo mettere queste priorità al centro della discussione del nuovo piano sociosanitario, con un confronto aperto su un nuovo modello di sanità, diverso da quello che Toti propone e che sta portando a questi risultati: la presentazione è stata l’inizio di un percorso di discussione e confronto che come Gruppo del Partito Democratico vogliamo mettere in campo nelle prossime settimane.
Luca Garibaldi
ECO DELLA STAMPA
Dal Fatto Quotidiano del 6 marzo 2023
La diga di Genova in ritardo di oltre un anno
L’appalto integrato da 950 milioni di euro per la nuova diga foranea di Genova è stato aggiudicato a ottobre, ma la cordata affidataria, guidata da Webuild, s’è già mossa per cambiare il progetto e tagliare alcuni dei controlli ambientali previsti. Malgrado l’opera sia con due commissari il simbolo delle semplificazioni di modello Genova e Pnrr, il ritardo è notevole: l’inizio lavori era a gennaio 2022, ma non s’è arrivati nemmeno al progetto esecutivo. Sicché il pretesto della modifica è il rischio di perdere il finanziamento Pnrr da 500 milioni a causa dei “tempi tecnici incompatibili con il cronoprogramma di progetto”, essendo “necessari almeno due anni, a fronte di un periodo di 15 mesi previsto” scrive Webuild nel documento depositato al ministero dell’Ambiente per modificare la Valutazione di impatto ambientale riguardante le “modalità di riutilizzo dei materiali dello scanno di imbasamento della diga esistente”.
Il problema è serio. Il progetto prevede la demolizione di 2.200 metri della diga esistente, fino a una profondità di 18,5 metri, e “una strategia di massimo riutilizzo dei materiali con chiari benefici di carattere logistico, ambientale, funzionale, economico”. Ma se per i massi artificiali di calcestruzzo e i massi naturali salpati (riportati in superficie) di peso e dimensioni idonei per la formazione di scogliere e mantellate di protezione è previsto il riutilizzo diretto, “gli elementi di pezzatura più contenuta, derivanti dal salpamento del pietrame di imbasamento e dalla demolizione degli elementi ciclopici in calcestruzzo della diga esistente” (oltre 1,1 milioni di metri cubi), potranno essere usati nella nuova diga solo previ caratterizzazione e accertamento dell’idoneità al recupero e dopo esser stati “ulteriormente ridotti di pezzatura e vagliati ” con l’utilizzo di appositi impianti. Una previsione logica: demolendo materiale di natura incerta, in acqua da decenni, occorre comprenderne bene la composizione prima di disporne il riutilizzo o il conferimento in discarica, ad esempio per verificare “l’eventuale presenza di amianto negli aggregati del calcestruzzo”. Per farlo occorre “frantumare e vagliare” ciò che risulterà dalla demolizione. I materiali di risulta sono quindi stati classificati genericamente come “rifiuti”, individuando le possibili discariche e facendo riferimento al Codice europeo dei rifiuti, in modo da “condurre le determinazioni analitiche previste dalla normativa vigente” e classificare cosa sia recuperabile e reimmergibile e cosa (e come) sia da smaltire. Procedura troppo lunga per Webuild, che con l’Autorità portuale propone di modificare la Via: derubricando i materiali di demolizione a “sottoprodotti”, ci si potrà accontentare di una analisi preliminare e, una volta demoliti, pietre e massi della diga esistente, invece di essere portati a terra per i controlli, potranno essere direttamente scaricati via mare nell’imbasamento della nuova diga.
Andrea Moizo
FATTI DI LIGURIA
Fuoco, fuochino, fochetto, focone. Boom
La triste storia del progetto dei quattro assi per la mobilità genovese è densa di fatti e, soprattutto, densa di cambi di idee, di spostamenti, di modifiche. Sempre approvate e finanziate dal governo, nonostante le numerose incongruità e cambiamenti.
In questo caso si parla dei rischi di incidenti rilevanti legati a incendi ed esplosione dei depositi degli autobus, in particolare autobus con pile elettriche. In tutta Europa questi depositi vengono trattati come impianti a rischio di grave incidente e vengono collocati in periferia, lontani da abitazioni e altre costruzioni. Abbiamo visto come questo fatto abbia avuto dei risvolti significativi quando nell’ultimo mese ben tre impianti di questo tipo sono andati a fuoco in Germania e in Francia. A Genova è intenzioni dell’amministrazione di inserire depositi e pile elettriche in due magazzini già esistenti, uno a Gavette e l’altro a Staglieno. Inutilmente abbiamo chiesto ripetutamente quali misure di protezione sono previste trovandosi in un’area urbana vicino alla scuola, a un distributore di gas, a una delle strade principali e numerose abitazioni. Altrettanto scontato che anche stavolta l’amministrazione non ci ha dato questa informazione. Cioè hanno preso tali decisioni senza sapere dove collocare l’elemento a rischio di incendi ed esplosioni; lasciato nelle vicinanze di scuole e residenze. Questo è figlio di una progettazione urbanistica inesistente e di una evidente incompetenza dei tecnici progettisti che dovrebbero per prima cosa garantire la sicurezza dei cittadini. Sicurezza dei cittadini a cui in questo momento i tecnici e l’amministrazione non sono in grado di dare alcuna risposta. Ma decidono comunque, senza avere la benché minima idea di dove collocare le pile elettriche e di quali strumenti di protezione questi depositi si avvarranno. E passi per i politici (l’assessore in questione è un avvocato), ma è impensabili che i tecnici che hanno firmato il progetto dei quattro assi, oltre a quelli che hanno esaminato e finanziato il progetto, abbiano fatto tale verifica; che evidentemente non è una loro priorità o – ancor peggio – non è nelle loro competenze. Purtroppo questo è possibile perché in Italia non esiste una legge apposita, non esistono dei protocolli di sicurezza sulle sulla gestione dei depositi e comunque delle precauzioni in presenza di pile elettriche. Questo vale anche per i garage e, i parcheggi. Sicché, avendo già deciso dove, quanto e con quali soldi a disposizione, si chiederà ai vigili del fuoco di dare il consenso a questa serie di installazioni senza che possano fare riferimento ad una legge; e soprattutto mettendoli nella situazione di non poter prevedere aggravi significativi di costi o annullamento di posizionamenti già decisi preventivamente dall’amministrazione e approvati dal Consiglio Comunale. Come si diceva, un fatto molto pericoloso, riguardando sia i futuri depositi degli autobus, ma anche gli attuali, già stracolmi di messi elettrici senza alcuna certificazione di garanzia. E vale anche per tutti i parcheggi sotterranei e quelli a raso esistenti. Perché, in caso di incidente, esplosione o incendio, ad oggi non esiste un protocollo per la messa in sicurezza. Mentre per gli amministratori ci sono solo le famose “linee guida”. Per la serie: fa un po’ come c**** credi, tanto le responsabilità te le prendi tu.
Andrea Agostini
Il futuro di Ansaldo Energia: continua il macabro balletto
L’ottobre scorso la Voce aveva pubblicato notizie estremamente preoccupanti sullo stato di Ansaldo Energia, provenienti da fonte assolutamente attendibile: le giustificazioni fornite dall’allora AD Giuseppe Marino (quota Luigi di Maio) sulla crisi, definita congiunturale, dell’azienda per l’annullamento di tre contratti Enel, che metteva gravemente a repentaglio l’occupazione, erano frottole: tali contratti non erano mai stati firmati. Mentre l’azienda languiva (e langue) nell’anemia finanziaria, sicché le banche non concedevano più fideiussioni per poter concorrere a tender internazionali. Ergo, o Cassa Depositi e Prestiti rifinanziava semestralmente oppure l’unica soluzione era la svendita a Siemens, con il salvataggio al massimo di 300 posti di lavoro sugli attuali 2.500.
Questa la realtà, sistematicamente occultata mentre arrivava il nuovo AD Fabrizio Fabbri (in quota a chi?) che – a quanto si dice – almeno dovrebbe conoscere il che cosa di cui tratta l’azienda genovese, a differenza del suo predecessore. Dunque, tutto risolto, come lasciano intendere la stampa locale e Giovanni Toti? Stando alle fonti informate che abbiamo ascoltato, non è proprio così. L’Ansaldo per ora ha nel carniere soltanto la costruzione di quattro turbine di vecchia generazione per l’Azerbaijan. Un portafoglio ordini per reggere fino all’estate; il tempo per ottenere l’aiuto atteso dal governo: qualche centrale Enel da riconvertire e le garanzie per ricevere l’attesa ricapitalizzazione; visto che la mancanza di liquidità, impedendo di pagare i fornitori, impedisce l’afflusso dei minimi indispensabili per tirare avanti. A partire dalle risme di carta per gli uffici. Per di più il diavolo ci ha messo la coda: l’improvviso incidente sul grande tornio verticale che ha spedito un operaio in coma, a lottare tra la vita e la morte. Tra l’altro un ulteriore inciampo per l’esecuzione della minimale commessa Azerbaijan, messa a repentaglio per l’assenza dei materiali necessari e il blocco delle attrezzature sotto verifica per i controlli di sicurezza che evitino nuovi incidenti alle maestranze.
Una situazione allarmante che non solo viene ignorata dai media, ma che lascia indifferente pure la business community ligure. Molto più interessata agli inviti di inizio marzo per la cena-vip organizzata da Giovanni Toti, in stretta sinergia con il sindaco Marco Bucci e il presidente di Port Autority Paolo Signorini, allo scopo di finanziare la sua componente politica “Noi Moderati”, al modico prezzo di 450 euro a coperto. Stando a quanto scrivono i giornali i partecipanti si aggiravano sui 350, con relativa informazione sul menù gourmet della cena. Nella beata indifferenza agli scambi affaristici obiettivo reale dell’evento. Che non era certo affrontare i temi di una politica industriale a base regionale, in cui una rivitalizzata Ansaldo Energia dovrebbe svolgere un ruolo di traino. Per la competitività del sistema produttivo d’area non meno che per l’occupazione.
PFP
Piano Energetico Ligure 2020-2030: pura dichiarazione di sentimenti
Il 9 gennaio è stata pubblicata la versione preliminare del Piano Energetico Regionale 2020-2030. Il piano esce con tre anni di ritardo, il precedente piano era scaduto nel 2020, in un contesto in cui si devono rispettare gli ambiziosi programmi europei che impongono la riduzione delle emissioni emesse di CO2 del 55% entro il 2030, unitamente ad un incremento dei consumi elettrici dal 23% attuale al 30 %, con una produzione da fonti rinnovabili che dovrà essere del 55-60%.
Cosa prevede quindi il piano regionale per concorrere a questi obiettivi? Quale osservazione generale si può dire che più che un piano regionale per l’energia ed il clima il documento in oggetto sembra un corso parauniversitario (per UNIGE Senior?), anche ben fatto e completo, su quello che è previsto dalle normative europee e nazionali e sulle tecnologie esistenti con riferimento ai temi dell’efficienza energetica, delle fonti di energia rinnovabili e dell’innovazione tecnologica.
Infatti nel documento mancano le azioni positive che la Regione potrebbe o vorrebbe fare al fine di facilitare la transizione ecologica. Sostanzialmente l’intenzione della Regione è di stare alla finestra e di vedere cosa accade senza alcun ruolo attivo, se non quello meramente informativo nei riguardi della pubblica amministrazione. Eppure nel cap. 3 si evidenzia come anche la Liguria dipenda dalle importazioni di energia e che conseguentemente “la Regione Liguria intende (…) contribuire attivamente agli obiettivi di rafforzamento della sicurezza energetica, favorendo la costruzione di un sistema territoriale resiliente ed efficiente sotto i profili del consumo e della produzione decentralizzata di energia.”. Obiettivo del tutto condivisibile, peccato che poi manchino le azioni concrete per coglierlo.
Ad esempio nel Piano si afferma che “L’obiettivo di Burden Sharing 2020 (cioè la ripartizione degli obiettivi energetici nazionali in sotto-obiettivi energetici regionali) risulta conseguito a livello nazionale, ma non a scala regionale: la Liguria si attesta infatti a 7,9% al 2020, a fronte del 14,1% atteso. (…) tale percentuale, che rappresenta poco più della metà dell’obiettivo, si e mantenuta generalmente stabile dal 2017 al 2020, con una crescita di appena 0,5% tra il 2016 ed il 2020.”
Quindi si prende atto che un obiettivo raggiunto a livello nazionale non è stato perseguito a livello regionale. Logica vorrebbe che si studiassero le cause di questo mancato raggiungimento per porvi rimedio. Non una riga è spesa in tal senso, siamo di fronte ad una mera presa d’atto. Infatti si afferma: “Pertanto, a fronte della contrazione dei consumi finali totali (…), la mancata crescita delle fonti rinnovabili tra il 2016 ed il 2020 determina il mancato conseguimento dell’obiettivo di Burden Sharing regionale, che passa dal 7,4% del 2016 al dato definitivo 2020 pari a 7,9%, ben lontano dal target fissato al 14,1%. Perché non sono cresciute le rinnovabili? Non viene detto.
Personalmente penso invece che come ente legislativo la Regione abbiamo molti compiti da svolgere al fine dell’attuazione del “green deal” europeo, tra cui il contrasto alla povertà energetica. Bene la parte tecnica insomma (a parte il capitolo sul nucleare su cui vorrei tornare), mancano totalmente le scelte politiche.
Mauro Solari
Il senso dimenticato del Carnevale
Da tempo lo studio della cultura popolare non è più nell’attenzione della sinistra italiana: l’oblio ha reso tutto terribilmente piatto, omologato e le classi subalterne non sanno più elaborare il loro contributo d’originalità. Anche nel Tigullio. Oggi, con non poco imbarazzo, si ritiene popolare il festival di Sanremo e il termine gramsciano non segna più l’autonomia culturale, ma il solo share, il consenso degli spettatori sprofondati nei casalinghi divani. Questa incredibile anomalia ha cancellato l’intero calendario delle festività, sia religiose che laiche, privilegiando il solo successo partecipativo e regalando al mercato dei consumi le festività più importanti e significative. In questi giorni siamo nel cuore della Quaresima e da pochi giorni è passato il Carnevale. Ebbene, la festività del Carnevale, la più significativa culturalmente e politicamente, si è trasformata in una scadenza omologata in banali sfilate, bimbi con i costumi degli eroi televisivi, eventi di piazza smarriti nel vuoto totale di presenze; nell’assenza di qualsiasi traccia storica. Eppure, lo straordinario quadro di Bruegel il Vecchio ci rammenta “La Lotta tra Carnevale e Quaresima”: opera dai forti contrasti, di vero scontro tra il mondo alla rovescia laico-popolare e il rigore della morale religiosa, dove il divertimento era visto come una trasgressione pericolosa. Dopo più di quattro secoli, il quadro continua a rappresentare il contrasto tra queste due visioni del mondo; immagine dello scontro contro tutti i poteri nella visione popolare. Il Carnevale ripeteva in modo orgoglioso il piacere del cibo, la vivacità del vino, l’evasione nel canto e il ballo collettivo, tra salami e salcicce, brocche straripanti di vino. E non manca nel quadro la cornamusa e la ghironda, strumenti maledetti perché atti a produrre gli indiavolati suoni a bordone per strascinanti coreografie. Quasi in rotta di collisione col mondo del Canevale, la smunta e malaticcia Quaresima, dipinta magra e triste, il suo carretto trainato da un frate e da una monaca, con una pala-lancia su cui sono poste due aringhe. I due pesci secchi contrastano in modo abissale con l’eccesso proteico del Carnevale. Questa scena voleva solo riassumere cosa era il Carnevale e cosa ha rappresentato per comunità come quella nella quale vivo. Solo pochi anni orsono erano presenti vere e proprie azioni sceniche, lampi di teatro di strada spontanei, dove gruppi ripetevano azioni visibili nell’opera di Bruegel. La maschera di riferimento era il Rebello, una sorta di scalcinato travestimento, con caratteri sessuali fuori dagli standard biologici, dove la ricerca di momenti d’incontro restituiva azioni drammaturgiche uniche, sempre paradossali e capaci di sollevare ilarità collettiva. Come mai oggi non rimane quasi nulla di quella visione fantastica? Se i Rebelli tornassero non sarebbero più capiti e sarebbero estranei, incapaci di dialogare col nuovo Carnevale stereotipato. La cultura è cambiata, spesso si confonde con la gestione del tempo libero e dilaga nell’intrattenimento; le azioni collettive del mondo laico smarrite nelle quotidiane banalità del linguaggio degli eventi. Che fare? I guasti al nostro immaginario sociale sono ancora riparabili? Al momento non pare siano presenti negli ordini del giorno e neppure nei programmi dei tanti fenomeni che si affacciano nel dibattito politico. Il vecchio Carnevale Brugheliano continuerà a sfidare la decadente Quaresima. La loro lotta sarà circoscritta a quel quadro, estranea alla nostra quotidianità. Eppure era la sfida con una posta in gioco di notevole valore: la nostra cultura.
GV
L’ultima follia: il medico a gettone
Nel caravanserraglio di neologismi escogitati per gettare fumo negli occhi della cittadinanza, che mai deve rendersi conto dello scempio in atto nella sanità pubblica, spicca la trovata di un’ultima invenzione linguistica truffaldina: la figura del “medico a gettone”, che richiama alla mente una lavanderia self service mentre si riferisce all’ennesima tipologia professionale dequalificata; in bilico tra l’auto-sfruttamento e la prestazione di cura svilita dagli effetti del precariato.
Dunque, nell’opera di costante dimagrimento degli organici medici, a unico scopo del taglio dei costi, che ha come ovvia conseguenza l’anoressia delle strutture sanitarie, si è inventato il ricorso a “medici giornalieri”. Ossia medici che lavorano per una cooperativa e pagati per il turno che svolgono: adesso in un posto, domani in un altro. Il tutto incentivato da un vantaggio materiale: è fino al 70% l’incremento del guadagno di chi rinuncia all’assunzione in un ospedale e decide di affidarsi alle cooperative lavorando come libero professionista. Ennesima esemplificazione del mantra liberista che invitava i dipendenti a “imprenditorializzarsi” (rinunciando alle tutele dell’appartenenza a una categoria). Il fenomeno è esploso durante la pandemia e l’ingresso nelle corsie d’ospedale avviene soprattutto durante i turni di notte, sabato e domenica e nei festivi. Il compito prevalente di tali medici è occuparsi delle urgenze: parti, bambini con problemi di salute e pronto soccorso. Il tutto senza nessun controllo sanitario e senza orari (sono frequenti i casi di gettonisti che – forzati dall’opportunità di incassare di più – operano senza sosta accumulando perfino quattro turni, nell’indifferenza all’appannamento della qualità professionale indotto dalla fatica). Sicché fece scalpore la morte, avvenuta il 13 gennaio scorso, di una donna che era stata appena dismessa dall’ospedale di Novi Ligure da una dottoressa a contratto-
Una soluzione – appunto, di abbattimento dei costi della cura attraverso l’auto-sfruttamento avido – di cui si è fatto largo uso in Liguria in quattro Asl su cinque, nell’emergenza ma anche nei reparti, per sopperire alle carenze di specialisti che non si intendono rimpiazzare con soluzioni stabilizzate.
Perfino il nuovo assessore alla salute Angelo Gratarola prende le distanze da tale scelta, che – come detto – risponde soltanto a una logica bassamente contabile, sia degli amministratori che dei prestatori d’opera, a scapito della cura e delle esigenze del paziente: “un provvedimento straordinario che deve essere limitato nel tempo. Una buona attività sanitaria può essere fatta soltanto se si conosce l’ambiente in cui si lavora e si fa parte di quel territorio”.
PFP
Scajola uno e trino, nella crisi idrica del ponente
Dopo l’endorsement di Toti, Scajola è riuscito nello straordinario risultato di dividere i rivali sulla strada delle elezioni comunali. Nel capoluogo ponentino ci si avvicina allo scontro elettorale con una giostra di candidature, da destra a sinistra, che darà ben presto il via libera al ‘tutti contro tutti’. Con la nomina di commissario ad acta dell’Ato idrico del presidente della provincia di Imperia, si è completato il ‘capolavoro’, sebbene continui la mortificazione di una classe politica che si è mostrata incapace e inefficiente da anni. Scajola, quasi ne fosse estraneo, nelle vesti commissariali potrà occuparsi della gestione dell’acqua con meno ‘lacci e laccioli’, un campo libero con pieni poteri per portare in porto la privatizzazione del servizio idrico.
Intanto per provare a dare risposte alla crisi idrica, è avvenuto un confronto tra la Provincia, il Prefetto e Rivieracqua. Si è parlato di condotte colabrodo, disservizi dei cittadini e del potenziamento del lago artificiale del Ferraia, in alta Vall’Arroscia, già approvato dal consiglio provinciale e finalizzato al servizio irriguo. La realizzazione di piccoli invasi, ma soprattutto il recupero di fonti e pozzi abbandonati, che dovranno essere ripristinati, non basteranno a fronteggiare un’emergenza ormai strutturale. Le dispersioni dell’acqua immessa nella rete e le continue falle – l’ultimo caso è quello che ha provocato ingenti danni a Borgo Marina nel capoluogo – ma soprattutto quelle che affliggono il dianese e Andora, dimostrano quanto siano mancati sistematicamente interventi sugli acquedotti. Se negli ultimi vent’anni fossero stati effettuati gli investimenti necessari, non servirebbero fondi straordinari come quelli del Pnrr per il raddoppio dell’acquedotto del Roja, che la comunità del ponente attende da troppo tempo.
Come ricorda il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, all’indomani del tavolo tecnico del Governo per la gestione della risorsa acqua, la relazione annuale ARERA 2020 (l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) dichiara che in media il 43,7% dell’acqua viene dispersa dalle tubature, con picchi oltre il 50% nelle isole e al sud. Ma ancora una volta con valori per la Liguria e il ponente in particolare, con criticità molto rilevanti.
La situazione di emergenza climatica, la siccità e il fenomeno della desertificazione del territorio, potranno essere più facilmente utilizzate con la gestione commissariale, per giustificare misure di razionamento dell’acqua, sospensioni programmate di erogazioni, divieti e limitazioni.
Non è bastato dunque disapplicare il Referendum del 2011, oggi ci troviamo di fronte ad una nuova possibile restrizione di democrazia che sottrarrà al territorio anche il controllo della propria acqua, sottoponendo i cittadini a centellinare questa risorsa vitale, pagata come oro ai gestori. Occorrerebbe assumere, come tema fondamentale per il futuro, un piano sistemico di ristrutturazione delle reti, all’interno di una gestione interamente pubblica che si occupi anche del riassetto idrogeologico e della messa in sicurezza del territorio.
La crisi idrica che stiamo attraversando va affrontata con responsabilità rendendo partecipi delle scelte intraprese i cittadini e le comunità, con la consapevolezza che se impatterà sulla popolazione in modo discriminatorio, a maggior ragione, l’acqua dovrà restare fuori dalle dinamiche del profitto. Il sindaco di Imperia, nonché presidente della provincia e commissario dell’Ato idrico chiarisca quali scelte intende intraprendere, alle porte di una primavera ed un’estate che si preannunciano più critiche di quelle passate.
MG
Disparità di genere e alta formazione STEM in Liguria
Le disparità di genere continuano nei corsi di laurea delle discipline tecnico-scientifiche, sono radicate nella società, crescono in famiglia, si rafforzano nell’ambito educativo per esprimersi compiutamente in ambito professionale. Benché in Liguria i dati sul numero di donne che frequentano l’Università e sugli esiti del loro percorso accademico fino alla laurea siano in continuo miglioramento, con un numero di frequenze e risultati migliori degli studenti maschi, il numero di laureate occupate, il tipo di carriera intrapresa e la retribuzione mostrano il contrario. Poiché l’ingresso nel mondo del lavoro è più facile e le retribuzioni sono mediamente più alte per chi in generale proviene da facoltà scientifiche-tecnologiche, è giusto chiedersi in che misura il problema della disparità sia presente in queste facoltà; le cosiddette STEM, acronimo di Science, Technology, Engeneering e Mathematics. Il documento dell’Università di Genova Bilancio di Genere 2020 evidenzia in Liguria una presenza femminile tra gli iscritti ad Ingegneria di solo il 23% e nel 2019 il settore informatico e delle comunicazioni raggiunge il punto più basso con il 14% di iscritte alla triennale e il 14% alla magistrale. A livello nazionale un rapporto Istat 2020 afferma che gli uomini che si laureano in discipline scientifiche e tecnologiche in Italia sono il 37 % mentre le donne il 17%. Dato per scontato che le ragioni del divario non siano le scarse capacità o le difficoltà di apprendimento, in quanto le donne ottengono in media votazioni più alte e completano il corso di studio più e prima dei colleghi maschi, bisogna ricordare come ancora siano presenti condizionamenti culturali ed educativi lamentati da anni. È interessante riportare un risultato di un rapporto di Save the Children “Con gli occhi delle bambine”, ottenuto da una ricerca datata 2017 su due campioni equivalenti di bambini e di bambine cui viene descritto un soggetto particolarmente brillante. Già dai 6 anni sia i bambini che le bambine attribuiscono al soggetto il genere maschile, ad indicare uno stereotipo già formato sulle minori abilità e capacità intellettuali femminili, spesso alimentato dall’educazione in famiglia. Ancora oggi si continua a ritenere le donne più adatte a studi umanistici. Ma a condizionare gli orientamenti delle scelte delle donne vi è anche l’ineludibile realtà che relega le giovani mamme al loro ruolo di cura della famiglia, spesso inconciliabile con professioni che per questo penalizzano le donne, anche a livello retributivo, e non tutelano abbastanza le esigenze di flessibilità, che spesso si scaricano solo su queste ultime. Così, secondo numerose indagini, a cinque anni dalla laurea, in presenza di figli il divario occupazionale aumenta e, a livello retributivo, gli uomini percepiscono in media il 20% in più delle donne. Da un lato Leonardo, azienda presente sul territorio ligure che occupa in gran parte profili STEM, si vuole indirizzare verso obiettivi di parità di genere, puntando su percentuali del 30% di assunzioni femminili in area STEM entro il 2025, e Fincantieri si fregia di aver aumentato la presenza femminile nel Gruppo, crescono le iniziative a livello di comunicazione per descrivere il problema, con convegni, giornate di studio, celebrazioni. Eppure il Comune di Genova ha minacciato di sospendere i contratti a 50 operatori a tempo determinato degli asili nido e scuole di infanzia comunali per mancanza di coperture finanziarie, generando le vivaci proteste di genitori e lavoratori che hanno costretto l’Amministrazione Comunale ad un parziale dietrofront. Insomma, c’è ancora molta strada da fare sulla via dell’emancipazione, anche per non disperdere la creatività e le capacità femminili.
Nuccia Canevarollo
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Il 6 marzo scorso, in un’affollata conferenza a Palazzo Ducale di Genova, lo storico dell’arte Stefano Zuffi ha illustrato l’opera dello straordinario pittore fiammingo del XV secolo Hieronymus Bosch; prologo alla mostra milanese delle sue opere. Tra cui il capolavoro intitolato “Il giardino delle delizie”. Ce ne riferisce questo articolo, con un retro-pensiero come suggerimento per gli operatori culturali genovesi: l’idea molto francese di organizzare eventi artistici “monografici”: concentrati sulla valorizzazione un’unica opera. Vedi il delizioso museo di Bayeux, che espone un solo oggetto d’arte: l’arazzo ricamato dalla principessa Matilde, moglie di Guglielmo il conquistatore, per illustrarne le gesta.
Bosch, Milano chiama Genova
Al Palazzo Reale di Milano si è conclusa il 12 marzo la mostra intitolata “Bosch e un altro Rinascimento” che espone, tra l’altro, l’opera considerata il capolavoro dell’autore: “Il giardino delle delizie” in prestito dal Prado di Madrid. Si tratta di un trittico composto da un pannello centrale di forma quasi quadrata, cui sono accostate due ante richiudibili; che quando sono chiuse mostrano una rappresentazione del mondo sferico, resa con la tecnica della grisaglia (in banco e nero), che si pensa raffiguri il terzo giorno della creazione come narrato nella Genesi: Ipse dixit et facta sunt. Ipse mandavit et creata sunt. Pensiamo all’emozione di chi ha potuto assisterne all’apertura, e da una rappresentazione cupa e spoglia improvvisamente si trova immerso in uno strepitoso brulicare di un’infinità di creature. Creature appunto. Ma quali? A sinistra “il Paradiso terrestre” con la nascita di Eva dalla costola di Adamo, resa con colori brillanti e smaltati tipici della migliore tradizione fiamminga, con le tonalità dei verdi e dell’ocra, e dove spiccano bianco, rosa e blu. Da notare che Dio ha un aspetto giovane, occhi azzurri e riccioli biondi. Quindi una rappresentazione lontana da quelle comunemente conosciute del Dio Padre, ma basata sul concetto di Cristo come parola di Dio.
Molti dettagli sembrano lontani dall’innocenza che ci si aspetterebbe nel giardino dell’Eden: tra gli innumerevoli particolari notiamo dei coniglietti che giocano nell’erba, simboli di fertilità, e una dracaena, l’arbusto cui viene associata la vita eterna. Al centro il “Giardino delle delizie”: una distesa verde in cui abbondano figure maschili e femminili nude, circondate da una straordinaria varietà di animali. Piante e fiori: creature fantastiche che si confondono con elementi reali e che probabilmente assumono significati simbolici. A destra “l’Inferno”, conosciuto anche come l’inferno musicale, a causa dei numerosi strumenti usati come mezzi di tortura per le punizioni carnali inflitte ai dannati. In una scena di forte pathos, si svelano le atrocità della guerra mentre sullo sfondo risalta una città in fiamme, in cui gli edifici esplodono colorando l’acqua di sangue.
Lo storico dell’arte Carl Justi, osservando i primi due pannelli ambientati in un’atmosfera tropicale, ha ipotizzato che questa scelta fosse legata alla scoperta dell’America: infatti il periodo cui risale la realizzazione del trittico fu tempo di scoperte e avventure, raccontate da viaggiatori e scrittori, e pare evidente il richiamo alla letteratura di viaggi esotici. Le tante scoperte geografiche dell’epoca resero reali luoghi fino a quel momento solo vagheggiati e alcuni pensatori misero in forse le certezze sull’esistenza del paradiso. Ma forse le parole più giuste per descrivere quest’opera, che a distanza di cinque secoli affascina sempre le folle, sono quelle dello storico Erwin Panofsky che scrisse: “nonostante le molte ingegnose, dotte e in parte estremamente utili ricerche dedite al compito di decifrare Jerome Bosh, non posso fare a meno di credere che il vero segreto dei suoi magnifici incubi e fantasticherie debba ancora essere svelato. Abbiamo scavato alcune brecce attraverso la porta di una stanza chiusa, ma in qualche modo non ci sembra d’aver trovato ancora la chiave”.
Orietta Sammarruco
Alla ricerca della solidarietà invisibile
Nonostante le apparenze, la solidarietà sembra essere molto praticata a Genova e dintorni, se più di duecento (fonte: smart.comune.genova.it/contenuti/educazione-civica-e-scuola), sono le associazioni di volontariato che – sulla carta – si contano sul nostro territorio, oltre a quelle che costituiscono diramazioni di organismi a livello nazionale.
I genovesi – ad onta della loro fama – saprebbero dunque essere solidali e generosi, ma senza darlo a vedere? Sarà per questa ragione che – a quanto ci risulta – non esiste una qualche forma di monitoraggio e razionale coordinamento delle risorse: ogni associazione preferisce operare in silenzio, nell’ombra, come se il bene prediligesse l’essere non visto: ‘maniman…’.
Il male, invece, sarebbe caciarone, sguaiato, sempre in cerca di consenso e finanziamenti. Persino simpatico, in fondo.
È interessante scorrere l’elenco di queste associazioni ‘di volontariato e solidarietà’ che, rete invisibile e forse non consapevole, copre la città ‘metropolitana’, sotto l’etichetta ‘Volontariato e solidarietà’. Si va dalle associazioni ‘generaliste’ a quelle di quartiere, dai patronati agli scout, dalla tutela dei minori alla lotta contro le malattie più devastanti, dagli ‘amici del gatto’ alla solidarietà col popolo palestinese, dai ‘Creativi della Notte’ alle associazioni per il diritto alla casa, e via di seguito. Questo generoso e un po’ confuso panorama non può non lasciare perplesso chi vorrebbe addentrarsi nel mondo del volontariato: manca una mappa, una bussola aggiornata cui indirizzare il proprio interesse e magari anche la propria disponibilità.
Spetterebbe al Comune, crediamo, provvedere a questa esigenza, sia verificando puntualmente lo stato di salute di questa miriade di benemerite iniziative, sia intervenendo ad assicurare la razionalità degli interventi sul campo, contro il rischio di sovrapposizioni, paradossali forme di concorrenza, utilizzazioni improprie dell’iniziativa.
L’intervento del Comune sarebbe tanto più indispensabile, quanto più ci si accorgesse – come si avverte da chi opera ‘sul campo’ – di un pericoloso degenerare del volontariato verso forme meno spontanee e più ‘retribuite’ di partecipazione alle gravissime situazioni di disagio che caratterizzano la vita urbana.
Va di moda l’espressione ‘stati generali’. Sarebbe forse il caso di indire un forum (altra espressione di moda cui non riusciamo tuttavia a sottrarci) con cui inaugurare una discussione pubblica sul tema della solidarietà in tempi di indifferenza ed egoismo collettivi.
Vuoi vedere che l’Amministrazione cittadina possa mostrarsi dotata di orecchie più efficienti di quelle, tradizionali, ‘da mercante’?
MM
Elezioni a Sarzana. Il PD va contromano
È ancora fresco il risultato della recente vittoria alle primarie del PD di Elly Schlein e la chiara indicazione della partecipazione al voto di elettori che in buona parte avevano smesso di votarlo.
Questi elettori chiedevano una netta svolta a sinistra del PD, che cominciasse ad occuparsi dei problemi quotidiani di milioni di persone. Lo chiedeva la vecchia base elettorale dei lavoratori dipendenti, un quarto dei quali vive sotto la soglia di povertà; lo chiedevano i nuovi lavoratori alle prese con precariato, incertezze sul futuro e trattamenti economici da fame; lo chiedevano fasce di ceto medio impoverite da un capitalismo sempre più accentratore di ricchezza nelle mani di pochi. Con povertà crescente per il 90% della popolazione.
La Schlein ha subito dato segnali chiari a Firenze nella grandiosa manifestazione antifascista, quando si è abbracciata con Conte e con Landini. L’indirizzo del PD a guida Schlein non è verso il “terzo polo” (ammesso che esista), ma a sinistra, verso il sindacato, i movimenti, i 5 Stelle e l’area frammentata oltre il PD. Ma a Sarzana il PD ha scelto una strada in netto contrasto con queste indicazioni. Con Guccinelli ha promosso la candidatura di un ex sindaco di trent’anni prima, ex assessore regionale nelle giunte Burlando, uscito anni fa dal PD, che ha fatto una vera OPA sul PD stesso; tagliando ogni rapporto sia con l’area a sinistra del PD sia con i 5 Stelle, che presentano una candidatura autonoma, appoggiata da Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Verdi e Civici.
Forse la sua candidatura è stata un po’ prematura. Forse nessuno aveva previsto la vittoria della Schlein. I gruppi dirigenti passati attraverso PCI, PDS, DS e PD, oggi in buona parte esterni al PD, hanno colto l’occasione per riproporre l’eterno personale, anche se assai stagionato anagraficamente. Quel gruppo che ha portato le vie esterne di Sarzana, che avrebbero dovuto essere di scorrimento veloce, a diventare un imbuto di traffico perennemente intasato a causa dell’indiscriminata realizzazione di brutti capannoni commerciali; che non si è fatto scrupolo di cementificare il territorio e di lasciare la pregiata frazione a mare di Marinella nel più completo degrado. Guccinelli si fa forte di un momento aureo delle sue vecchie amministrazioni, dovuto a una fortissima terziarizzazione dell’economia locale, modello oggi completamente in crisi, e sulla voglia di rivincita di anziani elettori del PCI, PDS, DS, PD che vedono in lui la possibilità di battere quella destra che dopo 73 anni ha conquistato il comune alle scorse elezioni.
Il 14 maggio a sostegno dello stesso Guccinelli ci saranno ben sei liste (tre sue liste civiche, una lista renziano/calendiana, una ispirata dall’ex senatore Forcieri, e una del PD). Non è difficile prevedere che il PD rischia di fare la fine del vaso di coccio, stritolato tra l’attrazione dei suoi elettori pro candidatura Guccinelli e di quelli interni allo stesso PD che l’hanno osteggiata e ben difficilmente la voteranno; oltre a quanti alle primarie sono andati a votare per un ribaltamento di queste pratiche gestite da numeri ristretti di persone.
A Sarzana il voto popolare alla Schlein ha sconvolto ogni previsione e ribaltato il voto tra gli iscritti, a favore di Bonaccini. Per cui i dirigenti del PD ora si trovano nella scomoda posizione di aver imboccato una campagna elettorale contromano, contro le intenzioni della nuova segretaria, contro le chiare indicazioni del suo elettorato e perfino contro personaggi come Renzi, che dichiara “con questo PD non voglio aver niente a che fare”; o della locale leader dei renziani che ha rilasciato dichiarazioni di fuoco contro la neo segretaria del PD.
NC
Oggi il nostro citizen journalism non prende in esame una struttura ma un intero quartiere, carico di storia. E fascino.
Nostalgia delle Bocca di Rosa e di Princesa
Addio Lugano bella, o dolce terra mia…una vecchia canzone anarchica. Mettiamo Genova al posto di Lugano. Il suo centro storico medievale più grande d’Europa sta cambiando. In peggio, sicuramente. Una discesa catastrofica partita da lontano, agli inizi degli anni Settanta con il vergognoso scempio di via Madre di Dio. Per legge del contrappasso la società San Gallo che acquistò l’intera zona era di proprietà della Curia genovese e il progettista che ne consigliò la distruzione l’architetto Lorenzo Dasso, ovviamente dello studio di Renzo Piano, per non scordare le sue imprese. Forse, pentito, lasciò la professione per diventare pescatore e cuoco. Con l’abbattimento delle antiche case (compresa quella natale di Nicolò Paganini) di un intero e antico quartiere si fece posto a orrendi palazzoni rossi, simbolo di un degrado estetico ed etico, sede del potere regionale. Scempio per fortuna mai dimenticato dagli abitanti della zona, che nel 1981 eressero una colonna infame “a vergogna dei viventi e a monito dei venturi…” dedicata “all’avidità degli speculatori e alle colpevoli debolezze dei reggitori della nostra città”. Si può ammirare passeggiando tra Piazza Sarzano e Via del Dragone. Ai giorni nostri sono i i “bassi”, cari a Don Gallo e a Fabrizio de Andrè, a essere condannati a morte. Fino a pochi anni questo Fort Alamo era abitato da personaggi da film di Fellini: artigiani e bottegai dividevano il territorio, tra mugugni e risa, con tante Bocche di Rosa e con i primi travestiti che non disdegnavano il mestiere, trovando proprio a Genova un porto sicuro dove non essere messi al confino, derisi e malmenati. Voglio ricordare Ursula, in particolare, morta due anni fa a 82 anni. Venuto da Napoli, cantava con la sua voce da basso nel Coro della Maddalena e per oltre mezzo secolo ha gestito una clientela fidata e assidua, a prezzi modici: venti euro. Con quelle stesse banconote, ben ripiegate insieme, pagava l’affitto cash alla proprietà del suo storico basso, a pochi metri da quella che è oggi Piazzetta Don Gallo. Esponente di primo piano di Princesa, l’associazione fondata nel 2009 proprio dal prete con il sigaro, a difesa dei transgender. Erano cento i bassi, oggi attivi ne sono rimasti cinque. Gli spacciatori di morte hanno preso il posto di botteghe, osterie e locali, e i bassi, oggi venduti a prezzi stracciati, diventano depositi di bici, masserizie varie, droga. Fort Alamo è ormai circondato e resisterà ancora per poco: alle promesse elettorali di qualche lustro di chi voleva recuperare il quartiere alla gente, alla storia, ai suoi abitanti, al turismo perfino, non ci crede più nessuno. Forse nei palazzi del potere si aspetta che tutto vada definitivamente in malora, per poi accordarsi, come cinquant’anni fa, con qualche nuovo speculatore, e abbattere ciò che resta, per farne dei mega centri direzionali, i bordelli della finanza. Visto che ho citato Fort Alamo mi è venuto in mente Toro Seduto: “Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte e pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche”.
CAM